Io, Matilde e Simone

di
genere
trio

Dopo quell'ultimo clandestino incontro, dove i nostri corpi si erano fusi in un'estasi proibita e rivelatrice, Matilde innalzò un velo di silenzio impenetrabile, un meccanismo di difesa che celava il caos interiore. 

Il mattino successivo, il suo messaggio giunse come un verdetto irrevocabile: "È stato l'ultimo errore che non posso perdonarmi. Non contattarmi più. Rispetta la mia esistenza, o dovrò escluderti completamente."   

Leggevo quelle righe con un sorriso sornione, percependo la precarietà di quel baluardo: era un atto di auto-convincimento, un tentativo di domare l'Es ribelle che ancora sussurrava echi di piacere, contrapposto al Super-Io che la flagellava con sensi di colpa.
Dentro di lei, un turbine emotivo – rimpianto per la capitolazione, terrore che il marito scoprisse quel segreto – la induceva a ritrarsi, a trasformare il nostro legame in un duello sotterraneo dove ogni assenza era una strategia calcolata. Io, dal mio canto, provavo un'amalgama di irritazione e ammirazione: la sua resilienza non faceva che infiammare la mia ossessione, rendendo il nostro intreccio un mosaico psicologico sempre più intricato.   

Ci incrociammo soltanto negli appuntamenti collettivi, quelle serate tra ex compagni e famiglie che celavano la nostra tensione sotto una patina di normalità. Lei incarnava la perfezione della dissimulazione: sorrisi calibrati, discorsi futili sul clima o sulle vicende quotidiane, ma i suoi sguardi eludevano i miei con una precisione che denunciava l'inquietudine.   

In una di quelle cene, mentre suo marito dissertava di finanze, la vidi incrociare le gambe con grazia languida, e io le inviai un messaggio furtivo: "Quel gesto mi ha sempre tormentato. Stai sfidandomi di nuovo?" Lei lo consultò di nascosto, il bagliore dello schermo che le illuminava il volto, e un rossore fugace le tinse le guance; replicò con un laconico "Basta, per favore", ma il suo portamento si irrigidì, un fremito impercettibile che solo io potevo decifrare. 

Internamente, Matilde combatteva una guerra intestina: il pentimento per aver ceduto si intrecciava a un residuo di eccitazione, una dipendenza dal pericolo che la rendeva più consapevole della sua sensualità latente, pur imprigionata nella routine coniugale.
Simone non era ancora entrato nella sua orbita; vi era solo il vuoto che io avevo scavato, un abisso che la spingeva a cercare equilibrio, ma che la lasciava più vulnerabile al richiamo del proibito.Trascorsero mesi, un susseguirsi di giorni monotoni che logoravano le sue barriere come un'erosione lenta e inesorabile. Poi, in un centro commerciale ai margini della città, distante dagli occhi noti, il destino – o forse il mio fiuto predatorio, consapevole che lei prediligeva quel rifugio per i suoi acquisti meditativi – ci fece collidere.   La avvistai tra le vetrine, con sacchetti raffinati in mano, i capelli ondulati dalla brezza artificiale, un'aria assorta che mascherava la sua fragilità interiore.
Quando i nostri sguardi si agganciarono, il suo corpo si tese: un guizzo di stupore, seguito da un'ombra di apprensione, come se il passato le si fosse materializzato dinnanzi in un baleno. 

"Salve," bisbigliò, la voce venata da un tremito sottile. Io sorrisi, simulando casualità. "Che fortuita coincidenza. Un caffè? Solo per scambiare due parole, senza pretese."Accettò, forse per educazione o per sondare la propria forza d'animo, e ci accomodammo in un caffè affollato, dove il profumo di espresso si fondeva con la carica elettrica tra noi.  

Iniziammo con futilità: "Come procede la tua routine?" indagai, notando come le sue dita giocherellassero con la tazza, un indizio di agitazione. "Stabile, come sempre," rispose, ma i suoi occhi sfuggivano i miei, rivelando il dissidio interno – attrazione sopita versus risolutezza nel resistere.    Dopo un silenzio pregno, mi fissò intensamente: "Ho un amante. Si chiama Simone. Lo incontrerò qui a momenti."  Le frasi emersero come una rivelazione ponderata, un'arma per ferirmi o per fortificare le sue difese. Mi delineò il suo profilo con un misto di affetto e trionfo: "È affettuoso, attento, mi fa sentire preziosa. Dopo quei mesi con te, che mi hanno sconvolta nell'anima, ne avevo urgenza. Mi hai destabilizzata, mi hai costretta a interrogarmi su tutto, ma... ti sono grata. Mi hai donato una percezione del mio valore femminile. Ora sono più assertiva, più padrona di me." 

La sua intonazione vacillava lievemente, disvelando l'ambiguità: riconoscenza per l'empowerment, ma astio per la manipolazione subita.La pressai, la mia psiche ribollente di invidia dissimulata in curiosità.   "Parlami di questo Simone. È ardente quanto me? Ti suscita lo stesso fremito?" 
Le mie interrogazioni erano lame affilate, concepite per sondare le sue emozioni. Poi, virai sulle provocazioni: "Non obbligarmi a un'altra istantanea, stavolta. Potremmo ritentare senza coercizioni, solo per quel ardore che so essere ancora in te."   

Lei avvampò, le pupille che si dilatavano per un attimo, ma replicò con fermezza: "No. È finita. Simone mi offre serenità, non turbolenza."    Ciononostante, il suo corpo la tradiva: le gambe serrate in un incrocio difensivo, il respiro che accelerava, un pensiero represso che la dilaniava tra fedeltà e seduzione. Ci congedammo con un abbraccio protocollare, ma percepii il suo cuore pulsare contro il mio torace, un riverbero di quella tensione erotica che saliva come una marea inarrestabile. 

Nella mia mente, l'idea del triangolo si consolidava: solo io lo vedevo come meta, un piano per condurli entrambi in quel territorio, sfruttando la loro vulnerabilità con pazienza calcolata.  
Matilde raggiunse Simone in un recesso discreto del centro, il volto ancora infiammato, lo sguardo evaso. Lui, con la sua sensibilità intuitiva, colse immediatamente: "Cosa ti affligge? Sembri turbata."    Lei titubò, poi eruppe in una confessione: "Ho incrociato lui, il mio spettro passato. Ti ho narrato di quelle unioni clandestine, di come mi soggiogava con verbi e carezze. Poco fa, mi ha stuzzicata nuovamente, tentando di ravvivare quella fiamma." Lo enunciò con indignazione, ritraendomi come un "calcolatore senza scrupoli", ma le sue espressioni lasciavano trapelare incanto: "È la sua intelligenza, comprendi? Quel modo di penetrare le mie vulnerabilità, di farmi sentire vibrante nel rischio. Mi magnetizza ancora, malgrado ogni cosa."    Simone udì, il suo spirito scisso: invidia cocente per quella minaccia, ma un'inattesa fascinazione per le narrazioni di lei, che disvelavano una Matilde più sfaccettata, più temeraria.
Internamente, provava allarme – "Potrebbe frantumare il nostro legame" – eppure curiosità: "Raccontami ancora, come ti evocava quelle sensazioni?" 
Il dialogo li unì maggiormente, ma insinuò germi di complotto, una tensione che Simone avvertiva intensificarsi, amalgamando gelosia e voyeurismo. Non gli sfiorava l'idea di un triangolo; per lui, ero solo un rivale da allontanare, un intruso fastidioso che minacciava la loro intimità.  

Nei giorni a venire, Matilde e io riprendemmo a comunicare via messaggio, un filo tenue che lei faticava a spezzare. Io la stuzzicavo: "Pensa a come potremmo intrecciarci di nuovo, Matilde. Magari con Simone a osservare, o chissà..." Lei replicava con sforzo: "Smettila, mi disorienti. Simone è allarmato dalla tua ombra, afferma che rappresenti un pericolo." Ma nei suoi intervalli, intuivo il suo dissidio: l'idea del triangolo le echeggiava come una fantasia fugace, un pensiero proibito che la stimolava nelle notti insonni ma che rifiutava di realizzare, timorosa di perdere il controllo e la stabilità con Simone.    La mia psiche architettava visioni elaborate, un ménage à trois come apogeo di quel mosaico psichico, un obiettivo che solo io perseguivo con pazienza calcolata. Un giorno mi rivelò: "Domani ci riuniamo al centro commerciale. Non vedo l'ora; è trascorso troppo per via di impedimenti inevitabili."   

Le sue parole costituivano un'esca inconsapevole, e io optai per intervenirvi.Mi recai lì, perlustrando la moltitudine fino a individuarli: Matilde con il suo incedere raffinato, Simone al suo fianco, le mani avvinte in un gesto possessivo. Li tallonai con circospezione fino al parcheggio, il cuore che martellava per l'adrenalina del complotto.    Li intercettai con baldanza: "Ancora noi? Che fatalità intrigante." Matilde sbiancò, il suo corpo irrigidito tra timore e attrazione celata; Simone intuì istantaneamente, i suoi occhi che si stringevano in sospetto misto a irritazione evidente – la mia presenza lo infastidiva profondamente, un'intrusione indesiderata nel loro momento privato. "Un caffè?" proposi, e acconsentirono con riluttanza, forse per scongiurare un alterco pubblico, anche se Simone borbottò qualcosa sottovoce, il suo disagio palpabile.   Al bar, iniziai con discorsi innocui, parlando del tempo, del traffico, di aneddoti banali sul centro commerciale. "È un posto rilassante, no? Lontano dal caos quotidiano," dissi, osservando Matilde che sorseggiava il suo caffè con mani leggermente tremanti. Simone annuì seccamente: "Sì, un rifugio," ma il suo tono era freddo, le braccia incrociate in una posa difensiva, chiaramente infastidito dalla mia presenza che prolungava quell'incontro inaspettato.   

Io procedetti per gradi, mantenendo un tono neutro: "È bello rivedere vecchi conoscenti in posti come questo. Matilde, sembri in forma." Lei rispose evasiva: "Grazie, sto bene." Simone intervenne, con un velo di irritazione: "Siamo di fretta, in realtà." Ma io continuai con calma, rievocando memorie leggere: "Ricordi quella cena a casa tua qualche mese fa? L'atmosfera era accogliente, quanto mi piaceva quel vino. Ne avete ancora?"   Lei annuì piano, ma con risposta secca "Sì, bella cena." La tensione cresceva sottile, un'aria carica di elettricità inespressa, con Matilde che evitava i miei occhi ma il suo corpo che tradiva agitazione – respiro accelerato, dita che stringevano la tazza – mentre Simone tamburellava impaziente sul tavolo, il suo fastidio che montava come una barriera. Non ero esplicito; lasciavo che i silenzi parlassero, i miei sguardi occasionali che scavavano piano nelle loro dinamiche, prolungando il momento per seminare dubbio. "A volte, le coincidenze rivelano cose inaspettate," commentai vagamente, osservando come Matilde spostasse il peso sulla sedia, un segno di disagio interiore. Simone sospirò: "Forse è meglio concludere." Matilde infine si alzò: "È ora di andare." Io annuii: "A casa tua, tuo marito è in trasferta, no? Conosco l'itinerario." Lei ribatté aspramente: "Non osare seguirci," ma il suo tono era incrinato, un velo di anticipazione che la tradiva, mentre Simone la prese per mano con possessività, lanciandomi uno sguardo torvo.  

Giunsi per primo al garage del suo palazzo, attendendoli nell'ombra con pazienza predatoria. Quando la loro auto entrò, parcheggiando con un rombo sommesso, scesi dalla mia e mi avvicinai al finestrino di Matilde, che era al volante. Lei impallidì, spegnendo il motore con mani tremanti, mentre Simone, al suo fianco, si tese visibilmente, il suo fastidio che sfociava in rabbia contenuta: "Che diavolo ci fai qui? Vai via." Matilde esitò, il suo animo in subbuglio – paura mista a un'attrazione repressa, il Super-Io che le urlava di resistere, ma l'Es che sussurrava curiosità per quel pericolo familiare.   

"Non ti voglio qui," disse lei, la voce incrinata, stringendo il volante come un'ancora.    Io sorrisi con calma, appoggiandomi al finestrino: "Solo un momento, Matilde. Non vuoi davvero mandarmi via così. Ricordi come le nostre conversazioni finivano sempre per rivelare qualcosa di te? Lasciami salire, solo per parlare. Simone può testimoniare che non farò nulla di male." Lei scosse la testa: "No, è una pessima idea."   

Simone annuì con veemenza: "Esatto, vattene. Questo è il nostro tempo." Ma io insistetti, le parole come gocce che erodevano la roccia: "Pensa a quanto ti ho aiutata a capirti, Matilde. Simone è gentile, ma io ti sfido, ti faccio sentire viva. Solo dieci minuti, per chiarire le cose. Altrimenti, resto qui fuori, e i vicini potrebbero notare." Il mio tono era gentile ma insistente, scavando nel suo conflitto – la paura di una scena, il rimpianto del passato, la fantasia latente che la turbava.
Simone protestò: "Non cedere. Chiamiamo la polizia se necessario."   

Ma Matilde esitò ancora, i suoi occhi che guizzavano nei miei, un misto di rabbia e fascinazione: "Va bene... solo per parlare. E poi te ne vai."  Il clic della portiera che si apriva fu una vittoria sottile, e salii sui sedili posteriori, l'aria dell'auto già carica di tensione mentre guidava verso l'ingresso del palazzo. Simone mi lanciava sguardi ostili dallo specchietto, il suo fastidio palpabile, mentre Matilde respirava affannosamente, il suo animo lacerato tra rimpianto e un brivido proibito. Nell'appartamento, la tensione erotica saturava l'ambiente come un'essenza inebriante, ma procedetti con lentezza calcolata, un gioco psicologico dilatato per erodere le loro difese, prolungando ogni silenzio, ogni sguardo, per amplificare il turbamento interiore.    Matilde ci servì prosecco con mani tremanti, i bicchieri che tintinnavano leggermente. "Sedetevi," disse, la voce bassa, mentre si accomodava sul divano lontana da me, con Simone al suo fianco come scudo, le sue braccia attorno a lei in un gesto possessivo che tradiva il suo disagio crescente.
Iniziammo con conversazioni superficiali: il lavoro, le giornate recenti, evitando l'ovvio. Io guidavo il discorso con maestria, rievocando memorie condivise con Matilde in modo velato: "Ho visto lo specchio in bagno, molto bello, è nuovo? Chissà quanti segreti sottintesi nasconde."   Lei arrossì leggermente: "Niente di particolare"  Simone, irritato, intervenne: "Non vedo il punto di rivangare il passato. Siamo qui per rilassarci." Io sorrisi placido: "Giusto, rilassiamoci. Simone, raccontami di te. Come vi siete incontrati?" Lui rispose brevemente, il tono secco, chiaramente desideroso che me ne andassi, mentre Matilde sedeva rigida, il suo conflitto interiore che cresceva. La serata si protrasse in un limbo di silenzi carichi: sorseggi di prosecco, risate forzate da parte di Matilde per allentare la tensione, ma i miei sguardi insistenti su di lei, le mie domande che scavavano piano nel loro rapporto – "Cosa vi lega davvero? È solo affinità, o c'è quel brivido in più?" – erodevano le barriere. Simone si aprì a fatica: "È stabilità, con passione," ma il suo fastidio era evidente, le braccia incrociate, gli occhi che guizzavano verso l'orologio. Matilde annuì, ma i suoi occhi guizzavano verso i miei, tradendo turbamento: "È complicato parlarne ora." Io annuii empatico: "Capisco.
A volte, il passato rende il presente più... intenso." Le mie parole seminavano dubbio, amplificando la tensione psicologica – Matilde lottava internamente, la fantasia del triangolo che le sfiorava la mente come un veleno dolce, ma resisteva, stringendosi a Simone: "Forse è meglio che tu vada. Non è il momento." Simone annuì vigorosamente: "Esatto, è tardi."   Ma io persistevo con gentilezza calcolata, proponendo un brindisi: "Alla vita imprevedibile." Le nostre mani si sfiorarono nel tintinnio dei bicchieri, un contatto fugace che la fece sussultare. Matilde si alzò per sparecchiare, e io la seguii in cucina con una scusa: "Aiutami con i bicchieri." Lì, da soli per un momento, le sussurrai: "Senti questa elettricità? Simone è qui, ma immagina se..." Lei arrossì violentemente, ritraendosi: "No, smettila. Non lo voglio, è solo un pensiero stupido che mi turba. Vai via."

Ma il suo corpo esitava, il respiro accelerato, un conflitto che la dilaniava – desiderio represso contro la lealtà. Simone entrò, notando la tensione, infastidito: "Cosa succede? Stiamo perdendo tempo." Io sorrisi: "Niente, torniamo di là."Sul divano, i tocchi divennero più audaci, ma graduali e dilatati: la mia mano che sfiorava la sua spalla "per caso" mentre passavo un bicchiere; Simone le accarezzò il collo per rassicurarla, ma l'atmosfera carica lo rendeva inquieto.

Matilde gemette piano, un suono involontario: "Cosa stiamo facendo? Questo mi confonde." Resisteva, spingendomi via debolmente: "Basta Giove, vai via."    Lui confermò, irritato: "Infatti, non capisco perché sei ancora qui." Ma la tensione psicologica montava, i silenzi pregni di possibilità inesprese, i miei sussurri che erodevano: "È solo un momento, un'esplorazione innocente."    Piano piano, Matilde cedette un passo alla volta – un bacio a Simone che si prolungò tanto, il mio tocco sulla sua mano che non respinse immediatamente – il suo animo lacerato tra rifiuto e curiosità repressa.    Simone, preso dal flusso nonostante il fastidio iniziale, si lasciò coinvolgere per non perdere terreno, la gelosia che si tramutava in una riluttante partecipazione.Solo dopo ore di questo balletto psicologico, con la tensione che aveva raggiunto un picco insostenibile – Matilde in lacrime di conflitto, Simone esausto dal disagio, i bicchieri svuotati e riempiti più volte, i silenzi che si allungavano come ombre – capitolarono lentamente, la situazione che li travolgeva. Matilde si distese sul divano, le gambe schiuse in un invito involontario e tremante. Io le carezzai la pelle con dita maestre, tracciando volute sui suoi fianchi attraverso i vestiti, mentre Simone le baciava la gola per reclamare il suo spazio, mormorando irritato ma eccitato: "Non so perché lo permetto." Lei ansimò: "Ancora... no, fermatevi," ma il corpo che si arcuava tradiva la resa graduale, la tensione che culminava come una sinfonia tormentata.

Lentamente, le rimuovemmo la camicetta, esponendo la pelle calda; Simone le lambì i seni con possessività, mentre io le toglievo i pantaloni, la lingua che sondava il suo calore umido attraverso il tessuto. "Oh, sì... no," gemette lei, accogliendo Simone in bocca con bramosia esitante, i lamenti che echeggiavano attorno a lui, capitolando infine alla fantasia che aveva negato.  

Ci trasferimmo in camera da letto, con le sue lenzuola candide e arruffate, illuminate da una lampada soffusa che proiettava ombre danzanti sulle pareti, sembrava attendere da sempre quel momento di capitolazione condivisa. Matilde, il corpo ancora fremente dalle carezze preliminari del soggiorno, si distese supina al centro del materasso, le braccia aperte in un gesto che pareva di resa ma anche di invito, i seni che si alzavano e abbassavano al ritmo del suo respiro affannoso. "Non so se posso... se dobbiamo," mormorò, la voce un sussurro incrinato dal conflitto interiore. I suoi occhi, dilatati e umidi, guizzavano tra me e Simone, tradendo un misto di paura, eccitazione e rimpianto: sapeva che quel passo l'avrebbe cambiata per sempre, legandola a un triangolo che aveva negato con veemenza, ma che ora la consumava come un fuoco lento. Io mi posizionai ai suoi piedi, le mani che le accarezzavano le cosce con tocchi deliberati, separandole piano per esporre la sua intimità già bagnata e pulsante, un'evidenza fisica del suo turbamento psicologico. Simone, ancora intriso di residuo fastidio – il suo sguardo che saettava su di me con un velo di gelosia possessiva, il corpo teso come una corda pronta a spezzarsi – si chinò al suo fianco, le labbra che sfioravano i suoi seni, i capezzoli eretti che si indurivano ulteriormente sotto i suoi baci. "Ti proteggerò da questo," le sussurrò lui, la voce rauca ma incerta, il suo animo diviso tra l'amore per lei e l'irritazione per la mia intrusione, che lo costringeva a condividere ciò che considerava solo suo.   

Eppure, il flusso della situazione lo aveva intrappolato, trasformando il suo disagio in una riluttante partecipazione, un meccanismo di difesa per non perdere terreno nel cuore di Matilde. Con lentezza calcolata, entrai in lei, il mio membro che scivolava nel suo calore stretto e accogliente, ogni centimetro un'affondo profondo che la faceva inarcare, i muscoli interni che si contraevano attorno a me in spasmi involontari. Sentivo il suo corpo avvolgermi come un guanto di velluto bagnato, caldo e pulsante, un abbraccio intimo che echeggiava le nostre battaglie passate. "Oh Dio," gemette lei, le unghie che graffiavano le lenzuola, il viso contorto in un'espressione di estasi tormentata – dentro di sé, un vortice di emozioni: il senso di colpa verso il marito assente, la lealtà verso Simone, ma anche l'adrenalina del proibito che la faceva sentire viva, desiderata da due uomini in un modo che la sua fantasia aveva sfiorato solo nei sogni più oscuri. Simone, intanto, le stuzzicava il clitoride con dita esperte, cerchi lenti e insistenti che amplificavano ogni mia spinta, i suoi baci che scendevano sul collo, lasciando tracce umide sulla pelle arrossata. Il suo respiro era affannato, il fastidio che si dissolveva piano nell'eccitazione condivisa, anche se i suoi occhi tradivano un'ombra di riluttanza: non aveva mai concepito quel scenario, ma la gelosia lo spingeva a competere, a reclamare il suo spazio in quel caos sensuale.  

Cambiammo posizione con fluidità, un balletto di corpi intrecciati che rifletteva il nostro equilibrio precario. Simone la prese in posizione missionaria, si mise dietro di lei con peso possessivo, il suo membro che affondava con ritmo soave ma saldo, ogni spinta un'affermazione del suo ruolo: "Ti adoro così" le bisbigliò all'orecchio, la voce intrisa di un misto di tenerezza e sfida, il suo animo che combatteva l'irritazione residua per la mia presenza, trasformandola in energia erotica.   

Matilde si inarcò sotto di lui, i fianchi che assecondavano i suoi movimenti, i gemiti che le sfuggivano dalle labbra socchiuse – il suo corpo che tradiva la mente, rispondendo con contrazioni ritmiche che lo avvolgevano stretto, umido e invitante. Io, inginocchiato al suo fianco, le porsi il mio membro: "Assaggialo, Matilde, come sai fare solo tu." Lei esitò un istante, gli occhi che si aprivano in un lampo di conflitto, ma poi acconsentì, le labbra che si schiudevano attorno a me, la lingua che danzava con maestria esperta, cerchi umidi e succhiate delicate che mi facevano pulsare. Dentro di lei, il turbine psicologico raggiungeva l'apice: il sapore salato sulla lingua, il pieno possesso di Simone, la sensazione di essere al centro di un desiderio duplice che la travolgeva, erodendo ogni resistenza – non voleva quel triangolo, ma il suo corpo lo reclamava, un tradimento interiore che la lasciava ansimante e confusa.  

L'apogeo arrivò con la doppia penetrazione, un culmine che sigillava la nostra resa collettiva. Mi posizionai in ginocchio di lei, Matilde in posizione prona, le mani sui suoi fianchi per guidarla, invadendola analmente con delicatezza lubrificata – il mio membro che scivolava piano nel suo ingresso posteriore, sentendo la resistenza iniziale cedere in un calore stretto e avvolgente, ogni spinta un'eco della mia dominanza psicologica. "Senti la mia brama, Matilde," ansimai, le dita che affondavano nella sua carne morbida, mentre il suo corpo si adattava, i muscoli che si contraevano in spasmi di piacere misto a disagio iniziale. Simone, sdraiato frontalmente sotto di lei, la penetrò davanti con sincronia, il suo sguardo che tradiva un residuo di irritazione – non aveva desiderato quel momento, ma la situazione lo aveva intrappolato, la gelosia che si tramutava in un ritmo possessivo: "In armonia, per te," mormorò, le spinte che si armonizzavano alle mie, creando un'onda alternata che la riempiva completamente Matilde gridò, il corpo intrappolato tra noi in un sandwich di carne e sudore, i seni che oscillavano al ritmo doppio, il clitoride sfregato incidentalmente dai nostri movimenti – dentro di sé, un'esplosione: il pieno possesso che la faceva sentire sovraccarica, vulnerabile eppure potente, il desiderio represso che deflagrava in ondate di estasi. 

I nostri ritmi si sincronizzarono, spingendola verso l'orgasmo: i muscoli interni che si contraevano in spasmi violenti attorno a noi, un'onda che ci travolgeva tutti, il suo urlo che riverberava nella stanza – "Sì, oh cielo, non ce la faccio!" – appannando i vetri invisibili della sua mente.
Simone e io la seguimmo poco dopo, riversandoci dentro di lei in un culmine condiviso, fiotti caldi che sigillavano quel legame torbido, i nostri ansiti che si mescolavano in un coro disarmonico di appagamento e rimpianto.  

Rimanemmo avvinghiati, ansimanti, i corpi sudati e intrecciati in un groviglio di arti e respiri affannati. Matilde, tra noi, sorrise con sguardi sazi ma confusi, le lacrime che le rigavano le guance in un misto di liberazione e colpa: "Questo è il nostro enigma," sussurrò, la voce rotta, il suo animo che elaborava l'accaduto – aveva ceduto a una fantasia che non voleva, ma che l'aveva resa più consapevole del suo desiderio multiforme. Simone la baciò piano sul collo, "Straordinario," mormorò, ancora stordito dalla capitolazione forzata, il suo fastidio che riaffiorava piano nel post-orgasmo, mescolato a un'inaspettata fascinazione.   

Io scrutai entrambi, consapevole che il complotto era sbocciato dal mio volere, ma avevo trovato due complici fantastici.
scritto il
2025-11-11
1 4 9
visite
2
voti
valutazione
5.5
il tuo voto

Continua a leggere racconti dello stesso autore

racconto precedente

Lo specchio non mente
Segnala abuso in questo racconto erotico

Commenti dei lettori al racconto erotico

cookies policy Per una migliore navigazione questo sito fa uso di cookie propri e di terze parti. Proseguendo la navigazione ne accetti l'utilizzo.