Il quinto comando
di
Tempo Al Tempo
genere
dominazione
Le facciate barocche dei palazzi si tingono di oro al tramonto, mentre le fontane — soprattutto la celebre Fontana dei Quattro Fiumi di Bernini — riflettono giochi di luce sull’acqua.
L’atmosfera è vivace: artisti di strada dipingono e suonano, i tavolini dei caffè si riempiono di chiacchiere e bicchieri di vino. I profumi si mescolano: la pizza appena sfornata, il caffè tostato che arriva dalle torrefazioni vicine, e una nota dolce di gelato alla nocciola che qualcuno porta passeggiando. Camminando tra le vie laterali, strette e acciottolate, si percepisce un ritmo più intimo: lampioni caldi, botteghe artigiane e l’odore di pane fresco che esce dai forni.
In quel clima mi rifugiai in un bar quel pomeriggio, come al solito, a sorseggiare un mulsum mentre sfogliavo il telefono. Il locale era uno di quei posti eleganti del centro, con specchi dorati e un bancone di marmo che rifletteva la luce del sole filtrata dalle vetrate.
Non ero lì per caso: Elena aveva menzionato sua madre, Francesca, una donna di 48 anni frequentava quel bar dopo l'ufficio. Direttore marketing in una multinazionale, divorziata, sempre impeccabile. L'avevo vista in foto una volta, e mi aveva incuriosito: curve mature, occhi verdi penetranti, un'aria da donna che comanda ma che forse, sotto sotto, desidera essere comandata. La figlia mi aveva annoiato, certamente accondiscendente ma per nulla motivante.
Io, ho sempre avuto un debole per le prede come Francesca – forti all'esterno, ma con crepe invisibili che solo uno come me sa sfruttare. La mia psicologia è semplice: godo nel piegare volontà altrui, nel trasformare l'indipendenza in sottomissione. È un gioco di potere che mi eccita più di qualsiasi corpo nudo.
La vidi entrare: tailleur grigio perla, gonna al ginocchio che accarezzava le gambe tornite, camicetta bianca sbottonata quel tanto che bastava a mostrare un accenno di décolleté. I capelli castani raccolti, tacchi alti che ticchettavano sul pavimento. Ordinò una malvasia puntinata al bancone, si sedette su uno sgabello e tirò fuori il telefono. Mi avvicinai con calma, ordinando un altro bicchiere di mulsum. "Scusi, è libero questo posto?" le chiesi, indicando lo sgabello accanto al suo. Lei alzò lo sguardo, mi squadrò per un secondo – notai un lampo di curiosità nei suoi occhi – e annuì con un sorriso cortese. "Certo, prego."
Iniziai piano, come sempre. "Sembra una giornata intensa," dissi, notando le sue mani curate che stringevano il calice. "Lavoro qui vicino?" Lei rise leggermente, una risata calda e controllata. "Sì, ufficio a due isolati. E lei?" Parlammo del più e del meno: il traffico in città, il tempo imprevedibile. Mi confermò di chiamarsi Francesca, e quando le dissi che conoscevo sua figlia Elena, i suoi occhi si illuminarono. "Ah, Elena! Sì, mi ha parlato di un Daniele. Piacere." La conversazione fluì naturale: le chiesi del suo lavoro, e lei si aprì un po', raccontando delle riunioni estenuanti, dei colleghi maschi che la sottovalutavano. Io ascoltavo, annuendo, inserendo commenti che la facevano sentire capita. "Una donna come lei merita il ruolo che ricopre, forse anche di più" dissi.
Dentro di me, già calcolavo: Francesca era una donna forgiata dall'ambizione, abituata a comandare nelle sale riunioni piene di ego maschili. La sua psicologia era complessa – un mix di orgoglio ferreo e solitudine repressa, un desiderio nascosto di lasciarsi andare che combatteva con ogni fibra del suo essere indipendente.
Quella fu la prima volta. Il giorno dopo, la rividi allo stesso bar – non per caso, avevo calcolato l'orario. "Di nuovo qui?" dissi con un sorriso obliquo. Lei arrossì leggermente. "Abitudine. E lei?" Ci sedemmo insieme, stavolta. Parlammo più a fondo: le raccontai del mio lavoro freelance, esagerando un po' sul mio spirito avventuroso. Lei mi confidò del divorzio, anni fa, e di come si sentisse libera ma sola. "A volte mi manca qualcuno con cui condividere le vittorie," disse, e io le posai una mano sulla sua per un istante. "Capisco. Lei è una donna forte, Francesca. Merita qualcuno che la apprezzi davvero." Il contatto durò un secondo di troppo, e vidi le sue pupille dilatarsi. La sua ribellione interiore era già lì, nascosta: era attratta, ma il suo orgoglio la teneva a freno, come una leonessa che fiuta il pericolo ma non fugge.
Nei giorni seguenti, costruimmo un rituale. Ci incontravamo al bar quasi ogni pomeriggio. Io le portavo piccoli regali: un cioccolatino dal mio viaggio recente ad esempio (inventato, ma efficace). I nostri incontri si allungavano: dal bar passammo a una passeggiata nel parco vicino, dove le presi il braccio sotto il mio. Lei si lasciava corteggiare, ma con una riserva: ogni tanto, nei suoi commenti, emergeva la sua natura ribelle, come quando disse: "Non sono una che si lascia comandare, sai? Ho costruito tutto da sola."
Il feeling cresceva, come un fuoco che cova sotto la cenere. Una sera, la invitai a cena in un ristorantino intimo. Lei accettò, arrivando con un abito nero aderente che metteva in evidenza i seni pieni e i fianchi larghi. Parlammo di tutto: viaggi, sogni, persino di sesso – in modo velato, ma con sottintesi. "Gli uomini della mia età sono noiosi," confessò dopo un bicchiere di vino. Io le sfiorai la mano sul tavolo. "Io non lo sono, nè della sua età, tanto meno noioso." Quella notte, la accompagnai a casa e le diedi un bacio sulla guancia. Sentii il suo respiro accelerare. Dentro di lei, lo sapevo, ribolliva un conflitto: l'attrazione per il mio fascino rude contrastava con il suo bisogno di controllo, un'eredità di anni passati a combattere per il rispetto in un mondo patriarcale.
Continuammo così per settimane: messaggi flirtanti durante il giorno, cene, una mostra d'arte dove le sussurrai descrizioni sensuali delle opere, paragonandole al suo corpo. "Questa curva... mi ricorda la tua," dissi piano, e lei rise, ma arrossì. Il contatto fisico aumentava: un abbraccio prolungato, una mano sulla schiena bassa. Sentivo la sua eccitazione crescere, il modo in cui si inclinava verso di me, il suo sguardo che si soffermava sulle mie labbra. So che dentro di lei si chiedeva quando finalmente mi sarei deciso a baciarla, forse iniziava a pensare che in fondo ero proprio imbranato con le donne.
Ma io volevo di più: volevo dominarla, spezzare quella facciata di indipendenza che la rendeva così appetitosa per uno come me, che trae piacere dal controllo assoluto.
Una sera, dopo una cena particolarmente intima, eravamo sul divano di casa sua. Le luci basse, un bicchiere di vino in mano. Le baciai il collo, sentendo la sua pelle fremere. "Francesca," sussurrai, con la voce che si faceva più ferma, "voglio che tu faccia una cosa per me. Domani, all'ufficio, togliti le mutande e torna a casa così. Pensami mentre cammini, sentendo l'aria lì sotto." Lei si irrigidì all'istante, spingendomi via con forza. I suoi occhi verdi si spalancarono in orrore misto a rabbia. "Cosa? Daniele, sei impazzito? Io non sono quel tipo di donna! Chi cazzo ti credi di essere per darmi ordini del genere?" Urlò, alzandosi di scatto, le mani tremanti per l'umiliazione. "Ho costruito la mia vita su rispetto e autonomia, e tu pensi di potermi trattare come una puttana? Esci da casa mia! Non osare più avvicinarti!" La sua ribellione era feroce, un'esplosione di orgoglio represso: mi insultò, mi spinse verso la porta, gli occhi pieni di rabbia. Il gelo calò immediato, un muro invalicabile. Me ne andai, lasciando dietro di me un silenzio pesante, ma dentro di me sorridevo: quella resistenza la rendeva ancora più desiderabile. Ero visibilmente soddisfatto, tutto procedeva secondo i piani.
Passarono giorni. Io aspettavo sulla riva del fiume, sapendo che il suo conflitto interiore l'avrebbe logorata. Francesca era una donna divisa: da un lato, l'orgoglio di una professionista affermata, abituata a dettare legge; dall'altro, un desiderio represso di lasciarsi andare a un uomo che la sfidasse davvero. La solitudine post-divorzio aveva amplificato quel vuoto, e io, con la mia rudezza, l'avevo toccato. Dopo una settimana, un suo messaggio: "Mi manchi, nonostante tutto. Possiamo parlare?" Risposi secco: "Stasera vieni a casa mia. E senza mutande." La sua risposta arrivò dopo ore, carica di ribellione: "Sei un bastardo arrogante. Non ti darò questa soddisfazione. Vaffanculo." risposi lapidario "Come vuoi, sei tu chi mi hai cercato"
Ma poi, un altro messaggio: "Ok, vengo. Ma solo per dirtelo in faccia quanto ti odio." Dentro di lei, la battaglia infuriava: l'orgoglio la spingeva a resistere, ma il desiderio – quel fuoco che io avevo acceso – la consumava.
Arrivò puntuale, elegante come sempre: gonna plissettata, camicetta di seta, tacchi. La feci entrare, chiudendo la porta con un clic definitivo. "Hai obbedito?" chiesi, fissandola negli occhi. Lei mi guardò con sfida, le braccia incrociate. "No, cazzo. Non sono la tua schiava. Sono venuta per dirti che sei un manipolatore e che non ti voglio più vedere."
Io sorrisi, avvicinandomi. "Bugiarda. Toglitele ora, allora." Lei esitò, poi, con un gesto di rabbia, alzò la gonna e si sfilò le mutande nere di pizzo, gettandomele in faccia. "Contento? Ma questo non significa che mi sottometto." La sua ribellione era palpabile, un'ultima difesa del suo ego, ma io sapevo che era il preludio alla resa.
La presi per la vita, spingendola contro il muro nonostante le sue proteste. "Smettila, Daniele! Non comandarmi!" disse, ma le sue mani si aggrapparono alle mie spalle. Le mie mani salirono sotto la gonna, verificando: niente, solo pelle liscia e calda, già umida nonostante la sua rabbia. "Brava," mormorai, baciandola con forza, la lingua che invadeva la sua bocca. Lei morse il mio labbro, un gesto di ribellione, ma poi gemette, rispondendo al bacio con fame repressa. La portai in camera, le luci soffuse. Iniziai a spogliarla piano, dominandola con lo sguardo nonostante le sue resistenze verbali. Le slacciai la camicetta bottone per bottone, mentre lei borbottava: "Non pensare di aver vinto." Rivelai il reggiseno di pizzo nero che conteneva i suoi seni pieni, i capezzoli già turgidi sotto il tessuto. Le abbassai le spalline, facendolo cadere: i seni balzarono fuori, pesanti e maturi, con areole larghe e scure, venate leggermente per l'età. Li palpai con rudezza, strizzando i capezzoli tra pollice e indice fino a farla ansimare. "Ti piace, eh?" dissi, e lei rispose con sfida: "Non quanto pensi" ma inarcò la schiena, spingendo i seni verso di me.
Le tolsi la gonna, facendola scivolare giù: il suo sesso era esposto, labbra gonfie e bagnate, un ciuffo di peli curati sopra, già lucido di eccitazione. La feci girare, ammirando il culo sodo per i suoi 48 anni, con smagliature leggere che la rendevano reale, eccitante. Le diedi uno schiaffo leggero, sentendo la carne tremare. "Inginocchiati," comandai. Lei esitò, gli occhi fiammeggianti: "Fottiti, non lo farò." Ma poi, lentamente, lo fece, eccome se lo fece.
Il suo orgoglio che cedeva al desiderio. "Solo perché lo voglio io," mormorò. Mi slacciai i pantaloni, tirando fuori il mio pene già duro, venoso e pulsante. "Succhialo," dissi. Lei lo prese in bocca, esitante all'inizio, ma poi con avidità mista a rabbia: la lingua che girava intorno alla cappella, succhiando forte, le guance incavate, mordicchiando leggermente per sfida. Io le tenevo la testa, spingendo in gola, sentendo i suoi conati misti a gemiti di protesta.
La tirai su, la gettai sul letto a pancia in giù nonostante le sue imprecazioni: "Sei un animale!" Le divaricai le gambe, ammirando il suo sesso da dietro: labbra rosa, umide, che si aprivano invitanti, il clitoride gonfio. Le infilai due dita dentro, sentendo le pareti calde e strette contrarsi intorno a me. "Sei fradicia," dissi, e lei mugolò: "Sì... ma non pensare di possedermi." Le leccai il collo, mordicchiandole l'orecchio mentre entravo piano: la cappella che premeva contro l'ingresso, poi affondavo lento, sentendo ogni centimetro avvolto dal suo calore vellutato, le sue pareti che si stringevano in una morsa calda e bagnata. Iniziai a pompare, prima piano, poi più forte: il mio bacino che sbatteva contro il suo culo, facendolo ondeggiare, i suoni umidi che riempivano la stanza. Lei gridava, artigliando le lenzuola: "Più forte! Dio, sì! Ti odio ma continua!"
La girai supina, le gambe spalancate. Entrai di nuovo, profondo, sentendo il suo clitoride gonfio sfregare contro di me.. Le succhiai i capezzoli, mordendoli, mentre la scopavo con ritmo incalzante: dentro e fuori, il mio membro che la riempiva completamente, sfregando contro le sue pareti sensibili, le palle che sbattevano contro la sua pelle umida. I corpi scivolosi, l'odore di sesso che saturava l'aria.
Le misi una mano sul collo, stringendo quel tanto da farla ansimare: "Vieni per me," comandai. Lei resistette un istante – "No, non te lo do!" – ma poi esplose, le pareti che si contraevano intorno a me in spasmi violenti, il suo corpo che tremava. Io continuai, prolungando il suo orgasmo con affondi potenti, sentendo i suoi succhi scorrere lungo la mia asta, poi venni anch'io, dentro di lei, pulsando, svuotandomi completamente in getti potenti che la riempirono.
"È stato... come dire, è stato...è stato bello. Ma finisce qui." Io sorrisi, sapendo che era solo l'inizio. La sua psicologia – quel mix di ribellione e resa – mi eccitava da morire.
La saga continuava, e lei era mia, anche se combatteva. Elena era un lontano ricordo, la vera sfida ora, era domare Francesca come meritava.
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