Il secondo comando

di
genere
dominazione



Roma all'alba è un sussurro complice, con i suoi vicoli che si stiracchiano nel grigio lattiginoso del novembre, e io mi muovo in quel silenzio come un'ombra che ha già reclamato la luce.
Dopo la notte in cui la foto di Elena ha danzato nei miei pensieri come un marchio a fuoco, mi dirigo in palestra con il corpo già teso per quello che sarà. Sollevo pesi con ritmo metodico mentre immagino il prossimo ordine per lei: qualcosa di ritmico, inesorabile, che le incida il mio ritmo nella carne. Un minuto esatto, al rintocco delle campane, ovunque si trovi. Niente di più, niente di meno. Finisco la sessione con un ultimo set, il sudore che mi cola lungo la schiena, e mi preparo per il rituale mattutino.

"La Bottega del Caffè" oggi appare diversa nel suo disordine quotidiano: le luci al neon sfarfallano debolmente sul bancone di formica screpolata, scaffali traboccanti di barattoli di zucchero impolverati e pacchetti di sigarette dimenticate, mentre l'aria è satura di un misto di tostatura acre e umidità che filtra dalle finestre appannate, con tende di plastica che ondeggiano pigre alla brezza dal cortile sul retro. Entro con passo fermo, indossando una polo nera attillata che aderisce ai contorni del mio torso, pantaloni cargo grigi che si tendono sulle cosce, e un giubbotto di pelle leggera.
Elena è dietro il bancone, in una maglietta grigia con il logo sbiadito del locale che le avvolge il busto in modo casuale, pantaloni larghi color carbone che le sfiorano le caviglie, e un paio di sneakers ai piedi – un look da turno lungo, pratico ma con quel velo di stanchezza che la rende ancora più malleabile.

"Espresso," dico, la voce bassa e diretta, posandomi al bancone con i gomiti appoggiati, senza preamboli. Lei annuisce rapido, gli occhi che saettano su di me per un istante – un lampo verde che tradisce il tumulto interiore – e si volta verso la macchina, le mani che lavorano con efficienza nervosa, il vapore che sibila come un avvertimento. Posa la tazzina davanti a me, il liquido nero che fuma pigro, e io sorseggio in silenzio, studiandola: il modo in cui si morde l'interno della guancia, il collo che si tende quando deglutisce. Non le chiedo nulla del giorno prima; i suoi tremori parlano da soli.

Mentre il caffè mi scalda la gola, tiro fuori il telefono e digito: "Al rintocco delle campane, ogni ora, sfiorati il clitoride per un minuto esatto. Né un secondo in più, né uno di meno. Ovunque tu sia. Finché non ti dico basta."
Invio, e vedo il suo telefono vibrare sul bancone; lei lo afferra di scatto, legge, e un rossore le invade il viso come inchiostro versato. Le sue dita stringono lo schermo, il respiro che si fa corto, ma non dice una parola – solo un cenno del capo, quasi impercettibile, mentre riprende a pulire una tazzina con movimenti troppo lenti.

"Parlami di quel disco che hai ascoltato l'altra notte," dico, rompendo il silenzio con un tono neutro, come se l'ordine non esistesse. Lei esita, gli occhi che guizzano verso di me, poi risponde con voce incerta: "Quello di Nina Simone? 'Feeling Good'... mi fa venire i brividi, ogni volta. Come se potessi volare via da qui." Io annuisco, sorseggiando un altro sorso. "Brividi buoni o cattivi?"
Lei inclina la testa, un sorriso esitante che le incurva le labbra. "Buoni, credo. Mi ricorda che c'è di più oltre questo bancone – notti in cui balli fino a non sentire più i piedi."
Continuiamo così, il dialogo che scorre su binari leggeri ma tesi: lei mi racconta di un concerto anni fa al Foro Italico, di come la voce di una cantante l'abbia fatta piangere in mezzo alla folla; io parlo di vinili polverosi collezionati in soffitta, di come un assolo di sax mi tenga sveglio a progettare il giorno dopo. Le sue parole escono più fluide man mano, ma sotto c'è il ticchettio invisibile: immagino già il primo rintocco, da qualche parte in città, che la costringerà a obbedire, un dito che scivola sotto i pantaloni in un angolo nascosto, il corpo che si contrae in quel minuto rubato.

Finisco l'espresso, poso la tazzina con un tintinnio secco, mi alzo e le dico. "Quando finisci il turno, vai a comprare mutande rosse. Indossale domani." Lei annuisce di nuovo, le guance accese, le mani che si torcono nel grembiule, e io esco senza voltarmi, il sole di Trastevere che mi scalda la pelle mentre cammino verso l'ufficio. Durante la giornata, i rintocchi delle campane – da San Pietro a quelle di una chiesa vicina – mi attraversano la mente come segnali: alle nove, alle dieci, all'una... ogni ora, lei obbedisce, un minuto di fuoco represso che la lega a me più stretto. Il telefono resta silenzioso; non ha bisogno di conferme. Io comando, lei esegue.

Mentre cammino verso l'ufficio sotto la pioggerella insistente di Trastevere, il telefono vibra per la prima volta alle nove in punto – il rintocco lontano delle campane di una chiesa vicina che echeggia come un richiamo. È lei: "Fatto. Nel magazzino sul retro, con la porta socchiusa. Il cuore mi batte così forte che pensavo mi sentissero. Grazie, Daniele... mi fai sentire viva, come se ogni tocco fosse tuo."

Leggo, e un brivido mi corre lungo la spina dorsale – non solo desiderio, ma il puro gusto del mio potere che si ramifica nelle sue vene. Sorrido tra me, immaginandola lì: accovacciata tra scatoloni polverosi, una mano infilata nei pantaloni larghi, il dito che sfiora il clitoride con precisione ossessiva, contando i secondi in un silenzio rotto solo dal suo respiro affannoso.
Paura mista a eccitazione: il rischio di essere sorpresa dai clienti, il calore che le sale dal basso ventre, facendola arrossire fino alle orecchie.

Mi eccita pensarlo, quel minuto che la lega a me come un filo invisibile. Alle dieci, un altro messaggio arriva mentre sto chiudendo una riunione: "Proprio ora, in pausa. Ho dovuto fingere di sistemare il bancone, ma... Dio, è umiliante e bellissimo. Il mio corpo ti obbedisce senza esitare. Grazie per questo fuoco che mi accendi dentro."

Immagino la scena: il locale che si riempie di avventori mattutini, lei che si appoggia al bancone con un sorriso forzato, la mano destra che scivola discreta sotto il grembiule, sfiorando quel punto sensibile per sessanta secondi eterni. Le sue emozioni mi travolgono attraverso le parole – un turbine di vergogna che si scioglie in un piacere proibito, il clitoride che si gonfia sotto il tocco leggero, facendola stringere le cosce per non gemere.
Io, seduto alla scrivania con le gambe tese, sento qualcosa indurirsi contro i pantaloni: è il mio controllo che la modella, un minuto alla volta, e il suo ringraziamento è il trofeo che mi fa pulsare di trionfo.

Il pomeriggio si infittisce con i rintocchi: alle tredici, mentre è in giro per la città a fare commissioni – un messaggio frettoloso dal telefono, nascosto in una panchina di Piazza Navona: "Tra la folla, Daniele. Ho chiuso gli occhi, le persone che passavano a un metro. Mi tremano le gambe..." La visualizzo nitida: seduta su una fontana barocca, la mano magari sotto una gonna larga indossata per l'occasione. Paura che la inchioda, eccitazione che la fa bagnare, un'onda di calore che le sale al petto facendola ansimare piano. Io, in una pausa caffè all'ufficio, rileggo e stringo il telefono: il suo abbandono mi riempie di un calore possessivo, un'erezione che preme insistente, sapendo che Roma stessa è testimone della mia presa su di lei.

Alle diciassette, il messaggio arriva da un supermercato affollato: "Nel bagno pubblico, con la porta che non chiude bene. È straziante, ma ti ringrazio... mi stai insegnando a sentire di più, a desiderare di più. Il tuo ordine è un dono." La immagino accucciata in quel cubicolo lurido, le gambe divaricate quel tanto per obbedire, il dito che sfrega ritmico mentre rumori estranei filtrano dalla porta – passi, voci, il mondo che la sfiora senza sapere.

Alle diciannove, a casa: "In cucina, mentre lui guarda la TV. Mentre metto l'acqua per la pasta. Il rischio... mi fa impazzire." La vedo davanti al lavello, il marito a pochi metri nel soggiorno – un'ombra ignara – mentre il suo dito scivola preciso, il clitoride sensibile che risponde al mio comando fantasma. Paura che le mozza il fiato, un'eccitazione che la fa stringere i denti per non gemere, il corpo che tradisce con un calore liquido tra le cosce.

Alle ventuno, l'ultimo prima della liberazione: "In bagno, porta chiusa a chiave. Lui bussa, invano. Queste ore mi hanno spezzata e ricostruita."
La scena: rifugiata nel bagno coniugale, il dito che martella ritmico sul clitoride pesto, colpi alla porta che la fanno sussultare, un orgasmo negato che la lascia tremante. Paura che le gela il sangue, estasi che le fa pulsare le tempie.
Io, a casa con un bicchiere in mano, leggo e sento un'onda di possesso totale: il suo ringraziamento è elisir, mi fa gonfiare di orgoglio oscuro, immagino il suo corpo esausto, marchiato dal mio volere.

Alle ventidue in punto, digito: "Basta. Hai obbedito bene, a domani. Ricordati le mutande rosse."

Il suo messaggio arriva immediato: "Grazie, Daniele. Sono distrutta, ma felice. Queste emozioni... sono un regalo che non dimenticherò." Chiudo gli occhi, il trionfo che mi riempie come un'onda calda. Lei è mia, un minuto alla volta. E domani, il bagno la sigillerà.

La mattina dopo, Roma si sveglia con un cielo plumbeo che minaccia pioggia, e io entro nel caffè con una camicia bianca e jeans scuri che enfatizzano la potenza delle gambe. Il locale è un rifugio umido oggi: il vapore dalle tazze si mescola all'odore di pioggia filtrata dalle fessure delle porte, i tavolini lustri da una pulizia frettolosa riflettono le luci giallastre del soffitto basso, e un radio nell'angolo gracchia una vecchia canzone jazz che riempie gli spazi vuoti.
Elena è lì, in una camicetta azzurra a maniche corte che le lascia scoperte le braccia sottili, gonna a tubino grigia che le arriva a metà coscia – un cambio che sa di anticipazione, i contorni del suo corpo più definiti sotto il tessuto. Sotto, so che ci sono le mutande rosse, come da me ordinato.

"Espresso," ordino di nuovo, sedendomi con le gambe divaricate, il corpo che occupa lo spazio come un trono. Lei prepara la tazzina in silenzio, le mani ferme ma con quel tremito familiare, e me la porge senza osare alzare lo sguardo oltre il bancone. Sorseggio piano, il telefono in mano, e digito:
"Vai nel bagno riservato ai dipendenti. So dov'è." Invio.

Lei lo vede vibrare, legge, e per un secondo il suo corpo si irrigidisce – un'occhiata fugace verso di me, gli occhi spalancati, poi un passo esitante verso il retro. Sparisce dietro una porta laterale, un cubicolo stretto con piastrelle bianche screpolate e uno specchio ovale incrinato sul muro, l'aria viziata da un vecchio dispenser di sapone.

Finisco il caffè in tre sorsi, poso la tazzina, e la seguo senza fretta. La porta si apre con un cigolio, e la trovo lì: in piedi contro il lavandino, il respiro affannoso, la gonna già sollevata quel tanto che basta per rivelare il pizzo rosso che aderisce alla sua carne. Non dico una parola; chiudo la porta, giro la chiave, e la premo contro il muro con il mio corpo – il petto che la schiaccia piano, le mani che le afferrano i polsi e li inchiodano sopra la testa, il mio membro già duro che preme contro il suo ventre attraverso i jeans.

Senza preamboli, le slaccio la gonna con una mano, facendola cadere ai suoi piedi; le mutande rosse seguono, scivolando giù sulle cosce pallide. Lei ansima, un suono roco che riempie il silenzio, ma non resiste – il corpo che si inarca verso di me, gli occhi fissi nello specchio sul nostro riflesso distorto: il mio fisico che la domina, la sua figura snella esposta, vulnerabile. Mi slaccio i jeans, libero l'erezione pulsante, venosa e gonfia, e la giro di forza, premendole il viso contro il vetro freddo dello specchio – "Guarda!" esclamo. Una mano le divide le natiche, esponendo l'ano stretto, rosa e intatto; dall'altra tasca, il tubetto di lubrificante – freddo, appiccicoso – che verso diretto, un dito che sonda senza pietà, dilatando con spinte secche che la fanno gemere, il suo corpo che trema contro il mio.

Inserisco un secondo dito, curvandolo per sfregare quel nodo interno che la fa contrarsi, un urlo soffocato che le muore in gola mentre la mia altra mano le tappa la bocca, soffocando il suono.
"Silenzio" ordino, e lei obbedisce, mordendo il palmo della mia mano mentre la preparo, il lubrificante che cola viscido tra le sue cosce. Tolgo le dita, le sostituisco con la cappella – larga, insistente – e spingo: un ingresso lento ma inesorabile, centimetro dopo centimetro nel calore stretto che mi avvolge come una morsa viva. Lei si contrae, un singhiozzo misto a piacere che vibra contro la mia pelle, ma non rallento: affondo fino in fondo, il bacino che sbatte contro il suo culo sodo, il ritmo che accelera in spinte profonde, brutali, che la fanno sbattere contro lo specchio – il vetro che appanna al suo respiro, il riflesso che cattura ogni affondo, ogni tremito delle sue gambe divaricate.

Una mano le scivola davanti, dita che pizzicano il clitoride gonfio – ruotando, tormentando, senza concederle pause – mentre l'altra le stringe i capelli, tirandole la testa indietro per costringerla a guardare: se stessa, distrutta e posseduta, gli occhi verdi annebbiati dal piacere forzato.
I miei testicoli che schiaffeggiano la sua pelle umida. Lei viene con un convulso, le pareti interne che mi stringono in spasmi ritmici, un muto urlo che le deforma le labbra contro il palmo della mia mano; io la seguo un istante dopo, riversandomi dentro di lei, marchiandola con il mio seme mentre il suo corpo cede, molle e sottomesso contro il lavandino.

Ritiro piano, il lubrificante misto a umori che cola lungo le sue cosce, e la lascio lì – ansimante, le gambe che tremano, lo specchio testimone muto del suo sfacelo. Mi ricompongo i jeans, apro la porta senza una parola, e torno al bancone come se niente fosse. Il locale è ancora semivuoto; prendo la via di uscita, direzione ufficio, e il telefono vibra: "Non ce la faccio più. Sono tua."
Sorrido nel vuoto. Il secondo ordine è sigillato.

E Roma, con la sua pioggia imminente, aspetta il terzo.

scritto il
2025-11-04
6 4 0
visite
8
voti
valutazione
5.4
il tuo voto

Continua a leggere racconti dello stesso autore

racconto precedente

Il primo comando

racconto sucessivo

Il terzo comando
Segnala abuso in questo racconto erotico

Commenti dei lettori al racconto erotico

cookies policy Per una migliore navigazione questo sito fa uso di cookie propri e di terze parti. Proseguendo la navigazione ne accetti l'utilizzo.