Il terzo comando

di
genere
dominazione


Cammino senza fretta tra le vie più quiete di Roma, lontano dal brusio dei turisti. Da Via di Santa Cecilia mi inoltro verso l’Orto Botanico: l’aria profuma di erbe bagnate e terra umida, e il silenzio è rotto solo dal fruscio delle foglie e dal canto degli uccelli nascosti tra i rami.

Scendo poi lungo Via della Lungara, dove un portone socchiuso rivela un cortile segreto: muri color miele coperti d’edera, una fontana che gocciola piano, il tempo che sembra fermarsi. Attraverso il Ghetto Ebraico e l’odore dei carciofi fritti mi accompagna, caldo e familiare, mescolato al pane appena sfornato delle piccole botteghe.

Quando arrivo al Monte dei Cocci, a Testaccio, la luce del tramonto tinge tutto di rame. Le pareti, consumate e vive, sembrano raccontare storie antiche di porto e di fatica. Respiro a fondo: Roma, in questi angoli nascosti, dà il meglio di sé.


Dopo quel bagno – un antro fetido dove i suoi ansiti si erano mescolati al clangore delle tubature, sigillando il mio dominio con un ritmo che ancora mi riecheggia nelle vene – il telefono vibra di sue parole: frammenti di desiderio represso, confessioni che si arrendono piano, un'ammissione di fame che mi fa incurvare le labbra in un sorriso predatorio.

Quel Venerdi pomeriggio, tra i pesi che mi tendono i fasci muscolari in un dialogo muto con la gravità, architetto il passo successivo: condurla nel mio rifugio, dove il comando non si annuncia con fronzoli, ma si insinua come un veleno lento, puro e inesorabile. L'ordine parte alle diciotto, senza possibilità di replica.
"Domani sera , alle ventidue, al mio appartamento. Questo è l'indirizzo. Niente biancheria sotto il vestito. E negati ogni sollievo fino al mio permesso – non un tocco, non un pensiero che sfoci in estasi. Non permettere a tuo marito di sfiorarti, neanche con un dito"

Il testo svanisce nell'etere, e nei miei pensieri la vedo già barricata in quella casa che le calza come una camicia di forza, il marito un'eco distratto in soggiorno, lei che annuisce allo specchio, le cosce che si stringono contro l'impulso proibito, un calore che le sale dal ventre come un marchio invisibile. La risposta arriva quasi immediatamente "Ma come faccio, è sabato sera, abbiamo una cena con dei parenti".

"Non è cosa che mi riguarda. Io comando, tu obbedisci. Alle ventidue da me. Non un minito dopo".

"Verrò. Sto tessendo una scusa per svincolarmi... un servizio esterno improvviso al lavoro"

Un fremito mi percorre il basso ventre, il sangue che accelera in un pulsare sordo: è la sua disciplina autoimposta che mi inebria, quel sacrificio silenzioso che la scolpisce a mia immagine.

Sabato sera, ventidue in punto, il portone del palazzo liberty in Prati si apre con un sospiro meccanico, e lei emerge dall'ascensore come un'apparizione: cappotto che le sfiora le ginocchia, capelli castani che le incorniciano il volto in ciocche ribelli, occhi verdi che catturano la luce fioca del corridoio come laghi in tempesta. Il mio loft la inghiotte: vetrate che incorniciano il fiume come un nastro d'inchiostro vivo, arredi di quercia nuda che echeggiano i passi, un divano basso che promette capitolazioni, e il letto nel soppalco, un altare di lenzuola color carbone pronto a ingoiare confessioni.

Indosso una camicia di lino slacciata sul petto, pantaloni larghi che non dissimulano il rigonfiamento crescente, e la invito con un cenno: "Soglia superata. Entra."

Le mie dita le sfilano il cappotto in un gesto che sa di esproprio: sotto, un abito nero che le plasma i seni in curve imploranti, i capezzoli eretti come sentinelle sotto il velo sottile, il vuoto tra le cosce un invito muto. "Hai rispettato il voto?" Lei annuisce, varcando la linea con un passo che tradisce il tremore, l'aria che si carica del suo odore – vaniglia mista a un'urgenza salmastra. "Ogni ora è stata una battaglia. Una lotta continua con i miei desideri e una scusa dietro l'altra per tenere lontano mio marito."

La sua voce è un soffio, un'onda che mi lambisce il collo, e io assaporo quel cedimento – non un crollo, ma un'inclinazione graduale, come Roma che si piega ai suoi antichi riti divini. La dirigo verso il divano con una mano sulla curva della schiena, un contatto che le strappa un brivido visibile, e le offro un calice di vino bianco, il liquido che scintilla come schegge di luna. "Sorseggia. E narrami il tormento di oggi – come il mio divieto ti ha sfiorata nei momenti più banali."

Si accomoda, le gambe che si intrecciano in un nodo difensivo, e beve piano, gli occhi che non osano deviare dai miei. "Il desiderio mi ha colta ovunque. Il tuo pensiero non mi ha mai abbondanata. Neanche al supermercato, tra gli scaffali affollati, ho sentito il calore salire, un'onda che mi ha costretta a stringere il carrello fino a far sbiancare le nocche. A casa, mentre apparecchiavo, il mio corpo ha tradito con un fremito – ma mi sono sempre negata anche un solo sfioramento. Come da tuo ordine."

Le sue frasi si dipanano come fili tesi, e io mi posiziono accanto, la coscia che preme contro la sua in un dialogo di carne: "Eccellente. Ora, liberati dal vestito. Con gesti lenti, come un rito dove mi consegni te stessa."
Si erge, di fronte allo specchio ampio che inghiotte il suo riflesso in un abbraccio spietato – l'abito che si sfila come una pelle esausta, rivelando la nudità pallida, i seni che si ergono al ritmo del respiro affannoso, la piega tra le cosce che luccica di una rugiada proibita.
Tremante, le mani abbandonate lungo i fianchi, attende il mio verdetto silenzioso. "Vieni qui," intimo, e lei obbedisce, fermandosi tra le mie ginocchia aperte. Le mie dita ascendono con una lentezza calcolata: sfiorano i capezzoli, li accarezzano fino a farli sbocciare in gemme tese, un pollice che ruota con insistenza mentre lei respira profondamente, il corpo che si protende come un fiore assetato. "Ricorda: nessun sollievo," mormoro, la voce un velo che le sfiora l'orecchio, e scendo – un dito che dischiude le labbra gonfie, circonda il clitoride in spirali pigre, deliberate, sospingendola verso l'abisso con una pressione che le strappa un lamento sommesso, un suono che vibra nell'aria come un diapason. Il suo arco si tende, le cosce che guizzano in spasmi controllati,

"Daniele... mi stai spezzando," ma io interrompo di colpo, il vuoto che la divora come un'eco crudele, il suo calore che palpita contro il nulla. "Conta sino a trenta. Pronuncia ogni numero, fissandoti allo specchio." La sua voce emerge frantumata, un rosario di numeri che riempie lo spazio: "Uno... due..." e al trentesimo, riprendo – due dita che affondano in lei, incurvate a solleticare quel nodo recondito che la fa contrarsi come una corda pizzicata, il pollice sul clitoride che danza con malizia, spingendo i suoi umori a colare vischiosi sul palmo.

Al ciglio del precipizio, mi ritraggo ancora. "Di nuovo." Il ciclo si reitera – sei volte, sette, il suo corpo come uno strumento accordato al mio capriccio, lacrime che le rigano le guance in rivoli luminosi, "Non reggo più... concedimelo, ti scongiuro."
Ogni supplica è un sorso di ambrosia: la osservo dissolversi, il desiderio che la erode come un'onda corrosiva, e io che ne bevo ogni goccia, il mio respiro che si fa corto per l'eccitazione del controllo. "Chiamalo. Chiama tuo marito" ordino all'improvviso, la voce un colpo di frusta nel silenzio, porgendole il telefono dal tavolo. Lei impallidisce, nuda e vulnerabile, il sudore che le imperla la fronte, ma compone il numero con dita incerte, il vivavoce che amplifica il trillo come un annuncio. "Digli che torni presto, che si scusa per il ritardo – un imprevisto al lavoro." Il suo pollice preme "chiama", e la linea si apre: "Amore?" La voce di lui, ovattata e distratta, riempie la stanza. Io non attendo: la spingo giù sul divano, le ginocchia divaricate, e mi inginocchio tra le sue cosce – la lingua che guizza fuori, lambendo la fessura umida con una stoccata lenta, il sapore salato che mi invade la bocca mentre lei balbetta: "Ciao... scusa il ritardo, un... un po' di problemi e il servizio non è ancora terminato. Torno tra poco, promesso." La mia lingua circonda il clitoride, lo aspira piano tra le labbra, sfregando con la punta in cerchi umidi che la fanno inarcare, un gemito soffocato che maschera da tosse. "Sembri... agitata. Tutto bene?" chiede lui, un'ombra di sospetto nella voce, e io intensifico: la lingua che affonda dentro di lei, leccando le pareti interne con avidità, il naso che sfrega il bocciolo teso mentre le mie mani le tengono ferme le cosce, impedendole di chiudere.
Lei ansima, la mano libera che afferra i miei capelli in un pugno disperato, "S-sì... solo stressato, sai com'è. Mi... mi manchi, arrivo presto."

Le parole le escono a brandelli, il corpo che tradisce con un fremito violento, l'orgasmo che le monta in gola come un'onda inarrestabile – ma io mi ritraggo all'ultimo, la lingua che sfiora solo l'aria, lasciandola sospesa in un'agonia che le strappa un singulto. "Ok, fai attenzione. Ti amo." Lui riaggancia, e lei crolla all'indietro, il petto che si solleva in ondate, "Bastardo... mi hai quasi uccisa. Ma non fermarti, ti prego."

La alzo di peso, portandola sul letto del soppalco – nuda, il corpo un arazzo di rossori e brividi, l'umidità che le cola lungo le cosce come un sigillo liquido. Mi denudo, l'erezione che la sovrasta come una colonna di marmo venato, e la penetro con un'immersione misurata, profonda: un affondo che la riempie sino al limite, le pareti che mi cingono in un guanto febbricitante mentre imposto un ritmo cadenzato, ogni spinta un'eco del suo tormento.

"Supplica più forte" intimo, una mano che le preme la gola quel tanto da accelerarle il battito, l'altra tra le pieghe che sfrega il clitoride con insistenza cieca. "Daniele... sono tua, fammi esplodere, non sopporto altro." Aumento il moto, i nostri corpi che si scontrano in un coro di schiocchi umidi e ansiti rochi, e al culmine: "Ora. Liberati." Lei erutta in un grido primordiale che squarcia l'aria, il ventre che mi contrae in pugni ritmici, trascinandomi nel vortice – il mio seme che la inonda in spruzzi caldi, esausti, mentre cado su di lei, i nostri sudori che si fondono in un lago condiviso.


Restiamo aggrovigliati, il suo fiato caldo che mi solletica il collo, le unghie che mi increspano la pelle in linee pigre.

Il silenzio è denso, carico di quel languore che segue la tempesta – i nostri corpi ancora uniti, il mio seme che le cola tra le cosce in un rivolo lento, un marchio che persiste oltre il piacere. Lei si muove piano, il viso premuto contro la mia spalla, e quando parla, la voce è un mormorio esausto ma luminoso, intriso di una vulnerabilità che mi fa accelerare il polso residuo. "Grazie," bisbiglia, le dita che si fermano sul mio petto, come se stesse ancorandosi a me per non perdersi nel vuoto che segue l'estasi. "Mi hai sospinta sull'orlo un'altra volta..."

Alzo la testa quel tanto per guardarla, i capelli castani scompigliati che le velano un occhio verde, ancora annebbiato dal bagliore del climax, le labbra gonfie e rosse come frutti maturi. Il suo corpo è un paesaggio di residui: rossori leggeri sulle cosce dove le mie mani hanno premuto, un velo di sudore che le imperla il décolleté, facendola luccicare alla luce fioca della lampada sul comodino. "Non è finita," dico, una mano che le sfiora il fianco in un gesto possessivo, tracciando la curva del bacino come se stessi mappando un territorio conquistato.

"Domani, in una piazza di Roma, all'ora di punta. Ti dirò esattamente cosa fare. E tu obbedirai, perché sai che è mio il piacere di vederti tremare per me."

Lei annuisce, un sospiro che le sfugge come un gemito residuo, gli occhi che si chiudono per un istante mentre immagina la scena – il caos di voci, il calore di corpi estranei, il mio comando che le vibra nel telefono come un sussurro letale.

Ma il momento si spezza: il suo telefono, abbandonato sul comodino, ronza con insistenza, lo schermo che si illumina nel buio. "Lui," dice lei, la voce un filo teso, allungandosi per afferrarlo con una mano tremante. Il messaggio lampeggia: "Torna presto, ti aspetto. Cos'è questo ritardo?" Il rischio reale irrompe, un'ombra che allunga la notte, e io sorrido nell'oscurità, sapendo che le sue bugie sono catene che forgio io. "Rispondi," dico piano, la mano che le scivola sul ventre in un ultimo tocco possessivo. "Digli che sei quasi a casa. E domani... inizia la vera danza."



scritto il
2025-11-05
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