Lo specchio non mente
di
Tempo Al Tempo
genere
tradimenti
Avevo orchestrato la cena degli ex compagni di classe con la meticolosità di un chirurgo, ogni dettaglio un'incisione precisa in un piano che si estendeva ben oltre quella sera. Il ristorante era un covo di ombre complici, con luci tremolanti che accarezzavano le pareti, e tovaglie immacolate che evocavano un'innocenza ormai corrotta dal tempo e dai desideri repressi.
Tutti avevano confermato, incluso il marito di Matilde. La sua presenza era il perno del mio inganno: lo teneva inchiodato lì, lontano, mentre lei rimaneva sola in casa.
Poco prima dell'ora fatidica, inviai il messaggio nel gruppo, le dita che tremavano leggermente per l'adrenalina:
«Ragazzi, scusate, un'emergenza al lavoro mi trattiene. Arrivo in ritardo. Iniziate pure, brindate alla vecchia amicizia!»
La vera destinazione era il suo indirizzo, un quartiere avvolto nel silenzio opprimente della notte. Parcheggiai in una zona buia, il cuore che martellava con un ritmo febbrile, calcolato.
Arrivai sotto il palazzo, l'aria fredda che mi pungeva la pelle come un avvertimento. Suonai il campanello – una, due, tre volte – il suono che rimbalzava nel vuoto come un'eco di rimpianti. Nessuna risposta. Ma le luci alle finestre tradivano la sua presenza, e l'assenza dell'auto del marito confermava il mio piano. Immaginai Matilde dall'altra parte: il respiro corto, il dito sospeso sull'interfono, il terrore misto a un'attrazione proibita che la paralizzava. Era la sua prima barriera, un rifiuto muto che accendeva in me una fiamma di determinazione feroce.
Tirai fuori il telefono, le dita che volavano sulla tastiera in una guerra psicologica di parole affilate come vetri rotti.
Io: «So che sei lì. Ho suonato tre volte. Apri, Matilde. Non farmi aspettare al freddo.»
Lei: «Vai via. Mio marito tornerà presto o potrebbe chiamarmi da un momento all'altro.»
«Sappiamo entrambi che è intrappolato alla cena, sommerso da chiacchiere vuote e risate forzate. E tu sei qui, sola, con il telefono in mano, il cuore che accelera al pensiero di cosa potrebbe succedere se mi lasciassi entrare. Non mentire a te stessa.»
Silenzio. Un silenzio carico, che mi fece immaginare la sua lotta: le mani tremanti, gli occhi che saettavano verso la porta, il conflitto tra fedeltà e un desiderio che la consumava.
Poi: «Non stasera. E non qui. Non è sicuro. I vicini... potrebbero vedere.»
Io: «I vicini? O è la tua coscienza che ti frena? Ricordi l'ultima cena a casa tua? I tuoi occhi che si posavano sui miei mentre versavi il vino a tuo marito, le labbra che si incurvavano in un sorriso segreto. Il modo in cui accavallavi le gambe sotto il tavolo, sapendo che ti divoravo con lo sguardo. »
Lei: «Era solo educazione. Niente di più. Ti prego, vai.»
Io: «Educazione? O un gioco che ti eccita fino al midollo? Ogni tuo gesto grida repressione, desiderio soffocato. Apri la porta, o resto qui tutta la notte. Immagina i vicini che bisbigliano, tuo marito che riceve una chiamata anonima... 'C'è un uomo sotto casa di tua moglie'.»
Lei: «Mi stai spaventando. Questo non è un gioco.»
Io: «Spaventando? So che stai guardando dalla finestra, vedo il respiro appannato sul vetro. Il tuo cuore batte forte quanto il mio. Apri, Matilde. Prendi atto della realtà»
Altri minuti di silenzio agonizzante, un'eternità in cui visualizzavo il suo tormento: la razionalità che combatteva contro l'istinto primordiale, il dovere coniugale contro il brivido del proibito. Sapevo dei suoi dubbi sul matrimonio, delle notti insonni che mi aveva confidato in messaggi rubati – un pathos che mi dava potere, ma anche un senso di inevitabile agonia.
Infine, con voce spezzata nel testo: «Va bene. Ma solo per parlare. E giurami che te ne andrai prima che torni.»
Il portone si aprì con un clic secco, come una catena che si spezzava. Salii le scale con passo misurato, ogni gradino un'eco di trionfo misto a un'inquietante premonizione. La porta dell'appartamento era socchiusa, un invito riluttante. Entrai senza bussare, chiudendola con un tonfo sommesso che sigillava il nostro destino.
Matilde era in piedi nel corridoio, illuminata da una luce fioca, con una blusa leggera color sabbia che aderiva alle sue curve come una seconda pelle, e pantaloni comodi che non mascheravano il tremore delle sue gambe. I capelli raccolti in modo disordinato, ma magnetico, e gli occhi – oh, quegli occhi – colmi di rabbia, curiosità e un velo di disperazione che mi trafisse.
«Hai vinto questa battaglia,» disse con voce incrinata, le braccia incrociate sul petto come un fragile scudo contro l'inevitabile.
«Non è una battaglia,» replicai, avanzando con audacia calcolata. «E' mettere fine al nostro supplizio. Una necessità impellente.»
Andai dritto in cucina, aprii il frigo con familiarità possessiva e mi versai un bicchiere di vino bianco – lo stesso che offriva nelle cene, fresco come un ricordo proibito. Lo sorseggiai piano, appoggiato al bancone, i miei occhi inchiodati ai suoi. Era un gesto deliberato: invadere il suo quotidiano, trattare le sue cose come mie, per ricordarle che i confini erano già dissolti, che il suo mondo sicuro era un'illusione fragile.
«Che fai? Non ti ho invitato a entrare qui,» protestò, ma la sua voce era un sussurro, e non si mosse. Era ipnotizzata, paralizzata dall'audacia che la terrorizzava e attraeva in egual misura.
«Sto solo creando l'atmosfera,» dissi con un sorriso, carico di sottintesi. «Ricordi quante volte ho visto questa bottiglia sul tuo tavolo? Mentre tuo marito blaterava di lavoro, e tu... tu mi lanciavi sguardi fugaci, le guance in fiamme. Era come se mi offrissi un assaggio di qualcos'altro, di un mondo nascosto sotto la tua facciata perfetta.»
Lei arrossì violentemente, distogliendo lo sguardo verso il pavimento, le mani che tremavano. «Non interpretare tutto. Era solo... ospitalità. Niente di più.»
Mi avvicinai, il bicchiere in mano, invadendo il suo spazio fino a sentire il suo calore irradiare. «Ospitalità? O un segnale? Ogni cena era una tortura per me, Matilde. Tu che ti chinavi per raccogliere un tovagliolo caduto, offrendo un lampo di scollatura che mi bruciava l'anima. O quando accavallavi le gambe, sapendo che i miei occhi seguivano ogni curva, ogni fremito. Mi stavi testando, vero? Vedendo quanto potevo resistere prima di spezzarmi – o di spezzarti.»
«Smettila,» mormorò, la voce rotta da un singhiozzo represso. Si ritrasse verso il soggiorno, e io la seguii come un'ombra inesorabile, posando il bicchiere sul tavolino.
«Perché? Paura di ammettere che questo gioco ti consuma quanto me? Che ogni rifiuto è solo un velo sottile sul tuo desiderio più profondo. Pensa al tuo matrimonio: le notti solitarie, i silenzi che si accumulano come polvere. Io ti offro vita, Matilde. Fuoco.»
Mi sedetti sul divano, le gambe aperte in una posa di dominio assoluto, invitandola con lo sguardo. «Siediti. Parliamo di quello specchio in bagno. Quello che pulisci ossessivamente, che illumini con candele tremolanti. L'hai mai usato per guardarti davvero? Per vedere la donna intrappolata, che ambisce a essere libera?»
Lei esitò, poi si sedette sull'orlo del divano, le mani intrecciate in grembo come in preghiera. «Non è come dici tu. Io amo mio marito. Abbiamo costruito una vita insieme.»
«Lo so,» concessi, chinandomi verso di lei, il mio respiro che sfiorava il suo. «Ma ami anche l'abisso. Il brivido di ciò che potrebbe distruggerti. L'altra sera al parcheggio? Ricordi il tuo corpo che si irrigidiva sotto le mie mani, l'elettricità che ci legava? Era destino, Matilde. Non fingere che non l'abbia sentita – non fingere di sentirla ora.»
La conversazione si trasformò in una danza mortale di parole, ogni frase un affondo per erodere le sue difese. Le descrissi scene passate con dettagli crudeli e vividi – i suoi sorrisi ambigui, i tocchi "accidentali" che nascondevano intenzioni, le notti in cui mi aveva scritto messaggi cancellati all'alba. Lei negava, le lacrime che fuoriuscivano, ma i suoi occhi – dilatati, umidi, carichi di un desiderio che la tradiva – raccontavano una storia diversa. Il pathos era palpabile: la sua vulnerabilità, il senso di colpa che la divorava, misto a un'attrazione fatale che ci trascinava entrambi verso l'abisso.
Alla fine, la tensione si frantumò come vetro fragile. Mi alzai, le presi il viso tra le mani con una gentilezza possessiva, sentendo le sue lacrime calde scivolare sulle dita. «Basta giochi,» sussurrai, la voce rauca per l'emozione repressa. «Basta fingere.»
La baciai, premendo le labbra sulle sue, ma lei resistette più a lungo di quanto mi aspettassi – le sue mani si posarono sul mio petto, spingendo debolmente, il corpo rigido come una corda tesa. «No,» mormorò contro la mia bocca, la voce un misto di protesta e tremore. «Non possiamo... non di nuovo...» Ma le parole si spezzarono in un sospiro quando la mia lingua sfiorò la sua, e per un istante il suo corpo si ammorbidì, solo per irrigidirsi di nuovo. La tenni ferma, le dita intrecciate nei suoi capelli, tirando leggermente per inclinarle il capo. Lei emise un gemito soffocato, le unghie che graffiavano la mia camicia – per combattere l'onda che la travolgeva.
Ci spostammo in bagno, attratti da quello specchio come da un altare profano, i nostri passi incerti, intrecciati in una danza di avanzate e ritiri. Matilde inciampò leggermente contro la porta, le sue mani che afferravano il mio braccio per sostenersi, ma anche per allontanarmi. «Aspetta,» ansimò, gli occhi dilatati dal panico e dal desiderio. «Non sono sicura... questo ci distruggerà.» Le sue parole erano un'ultima barriera, un tentativo disperato di aggrapparsi alla razionalità, ma il suo corpo la tradiva: il respiro accelerato, i capezzoli eretti sotto la blusa sottile.
Io non mi fermai. Le slacciai la blusa, un bottone alla volta, esponendo la sua pelle pallida, segnata da un velo di sudore. Lei esitò, le braccia che si alzarono per coprirsi, ma le abbassai con gentile fermezza, sussurrandole all'orecchio: «Lasciati vedere. Lasciati libera.» Blusa e pantaloni scivolarono via come foglie autunnali, rivelando il suo corpo nudo, tremante, con curve familiari che avevo immaginato infinite volte. Lei arrossì violentemente, girando il viso verso lo specchio, ma i suoi occhi incontrarono i miei nel riflesso – un misto di sfida e resa.
La spinsi contro il lavandino, le mani sui suoi fianchi, stringendo la carne morbida con possesso. Lei si aggrappò al bordo del marmo freddo. «Ti prego,» mormorò, la voce incrinata, «non farmi questo.» Ma le sue gambe si aprirono leggermente quando le mie dita scivolarono tra le sue cosce, trovando il calore umido che la tradiva. Era riluttante, sì – il corpo teso, i muscoli contratti come se volesse fuggire – ma lentamente, sotto le mie carezze insistenti, iniziò a cedere. Le sfregai il clitoride con movimenti lenti, deliberati, e lei emise un singhiozzo, le anche che si mossero involontariamente contro la mia mano. «Non... oh Dio,» gemette, chiudendo gli occhi, ma io le strinsi il collo con l'altra mano, delicatamente ma con fermezza, costringendola a riaprirli.
«Guardati,» ansimai, la mia erezione premuta contro di lei da dietro, dura e insistente attraverso i pantaloni. «Vedi quanto lo vuoi.» Lei scosse la testa, ma il suo corpo si inarcò, i seni che si alzavano e abbassavano al ritmo del suo respiro affannoso. Le abbassai gli slip con un gesto fluido, esponendola completamente, e lei rabbrividì, un brivido che percorse la sua spina dorsale.
Mi slacciai i pantaloni, liberando me stesso, e posizionai la punta contro la sua entrata, sfregandola piano contro le sue labbra bagnate.
La penetrai lentamente, con deliberata lentezza, sentendo ogni centimetro che scivolava dentro di lei. All'inizio, fu resistenza pura: i suoi muscoli si contrassero attorno a me, stretti e riluttanti, come se il suo corpo lottasse contro l'invasione. Entrai piano, solo la punta, e lei emise un gemito acuto, misto a dolore e piacere, le gambe che tremavano. «Troppo... è troppo,» ansimò, ma non si ritrasse; invece, il suo corpo si adattò gradualmente, il calore umido che mi avvolgeva in un abbraccio sempre più accogliente. Spinsi più a fondo, centimetro dopo centimetro, sentendo le sue pareti interne pulsare attorno a me, bagnate e calde, un contrasto perfetto con la sua iniziale rigidità. Lei inarcò la schiena, il riflesso nello specchio che mostrava il suo viso contorto – labbra socchiuse, occhi semichiusi,– mentre io affondavo completamente, riempiendola fino in fondo con un'ultima spinta decisa.
Ora eravamo uniti, i nostri corpi premuti insieme, il mio petto contro la sua schiena. Iniziai a muovermi, ritraendomi quasi del tutto per poi spingere di nuovo, ogni affondo più profondo, più insistente. Lentamente, si lasciò andare: i suoi gemiti si fecero più profondi, più liberi, e nello specchio vidi la trasformazione – da resistenza a resa, da riluttanza a fame pura.
Le mie mani esplorarono il suo corpo: una stringeva il collo, tenendola a guardare il nostro riflesso distorto dal vapore; l'altra scivolava sui suoi seni, pizzicando i capezzoli eretti fino a farla inarcare. Ogni spinta era un'eco della nostra lotta: profonda, inesorabile, carica di pathos. Lei si aggrappò più forte al lavandino, i seni che oscillavano al ritmo frenetico, i muscoli interni che si contraevano attorno a me in spasmi crescenti. «Sì... oh, sì,» gemette infine, la voce rotta, abbandonandosi completamente.
L'orgasmo la travolse come un'onda devastante, un grido acuto che appannò il vetro e riecheggiò nelle piastrelle. Il suo corpo tremò, le gambe che cedevano leggermente, sostenuta solo dalle mie braccia. Io la seguii poco dopo, spingendo un'ultima volta con forza, riversandomi dentro di lei in un'esplosione di calore, sigillando la nostra rovina condivisa con un gemito rauco.
Rimanemmo lì, ansimanti, i corpi uniti nel riflesso appannato, sudati e tremanti. Lo specchio aveva assistito a tutto: la resistenza iniziale, la lenta resa, la passione sbocciare ed esplodere.Sarà per sempre il simbolo della nostra infinita unione.
Tutti avevano confermato, incluso il marito di Matilde. La sua presenza era il perno del mio inganno: lo teneva inchiodato lì, lontano, mentre lei rimaneva sola in casa.
Poco prima dell'ora fatidica, inviai il messaggio nel gruppo, le dita che tremavano leggermente per l'adrenalina:
«Ragazzi, scusate, un'emergenza al lavoro mi trattiene. Arrivo in ritardo. Iniziate pure, brindate alla vecchia amicizia!»
La vera destinazione era il suo indirizzo, un quartiere avvolto nel silenzio opprimente della notte. Parcheggiai in una zona buia, il cuore che martellava con un ritmo febbrile, calcolato.
Arrivai sotto il palazzo, l'aria fredda che mi pungeva la pelle come un avvertimento. Suonai il campanello – una, due, tre volte – il suono che rimbalzava nel vuoto come un'eco di rimpianti. Nessuna risposta. Ma le luci alle finestre tradivano la sua presenza, e l'assenza dell'auto del marito confermava il mio piano. Immaginai Matilde dall'altra parte: il respiro corto, il dito sospeso sull'interfono, il terrore misto a un'attrazione proibita che la paralizzava. Era la sua prima barriera, un rifiuto muto che accendeva in me una fiamma di determinazione feroce.
Tirai fuori il telefono, le dita che volavano sulla tastiera in una guerra psicologica di parole affilate come vetri rotti.
Io: «So che sei lì. Ho suonato tre volte. Apri, Matilde. Non farmi aspettare al freddo.»
Lei: «Vai via. Mio marito tornerà presto o potrebbe chiamarmi da un momento all'altro.»
«Sappiamo entrambi che è intrappolato alla cena, sommerso da chiacchiere vuote e risate forzate. E tu sei qui, sola, con il telefono in mano, il cuore che accelera al pensiero di cosa potrebbe succedere se mi lasciassi entrare. Non mentire a te stessa.»
Silenzio. Un silenzio carico, che mi fece immaginare la sua lotta: le mani tremanti, gli occhi che saettavano verso la porta, il conflitto tra fedeltà e un desiderio che la consumava.
Poi: «Non stasera. E non qui. Non è sicuro. I vicini... potrebbero vedere.»
Io: «I vicini? O è la tua coscienza che ti frena? Ricordi l'ultima cena a casa tua? I tuoi occhi che si posavano sui miei mentre versavi il vino a tuo marito, le labbra che si incurvavano in un sorriso segreto. Il modo in cui accavallavi le gambe sotto il tavolo, sapendo che ti divoravo con lo sguardo. »
Lei: «Era solo educazione. Niente di più. Ti prego, vai.»
Io: «Educazione? O un gioco che ti eccita fino al midollo? Ogni tuo gesto grida repressione, desiderio soffocato. Apri la porta, o resto qui tutta la notte. Immagina i vicini che bisbigliano, tuo marito che riceve una chiamata anonima... 'C'è un uomo sotto casa di tua moglie'.»
Lei: «Mi stai spaventando. Questo non è un gioco.»
Io: «Spaventando? So che stai guardando dalla finestra, vedo il respiro appannato sul vetro. Il tuo cuore batte forte quanto il mio. Apri, Matilde. Prendi atto della realtà»
Altri minuti di silenzio agonizzante, un'eternità in cui visualizzavo il suo tormento: la razionalità che combatteva contro l'istinto primordiale, il dovere coniugale contro il brivido del proibito. Sapevo dei suoi dubbi sul matrimonio, delle notti insonni che mi aveva confidato in messaggi rubati – un pathos che mi dava potere, ma anche un senso di inevitabile agonia.
Infine, con voce spezzata nel testo: «Va bene. Ma solo per parlare. E giurami che te ne andrai prima che torni.»
Il portone si aprì con un clic secco, come una catena che si spezzava. Salii le scale con passo misurato, ogni gradino un'eco di trionfo misto a un'inquietante premonizione. La porta dell'appartamento era socchiusa, un invito riluttante. Entrai senza bussare, chiudendola con un tonfo sommesso che sigillava il nostro destino.
Matilde era in piedi nel corridoio, illuminata da una luce fioca, con una blusa leggera color sabbia che aderiva alle sue curve come una seconda pelle, e pantaloni comodi che non mascheravano il tremore delle sue gambe. I capelli raccolti in modo disordinato, ma magnetico, e gli occhi – oh, quegli occhi – colmi di rabbia, curiosità e un velo di disperazione che mi trafisse.
«Hai vinto questa battaglia,» disse con voce incrinata, le braccia incrociate sul petto come un fragile scudo contro l'inevitabile.
«Non è una battaglia,» replicai, avanzando con audacia calcolata. «E' mettere fine al nostro supplizio. Una necessità impellente.»
Andai dritto in cucina, aprii il frigo con familiarità possessiva e mi versai un bicchiere di vino bianco – lo stesso che offriva nelle cene, fresco come un ricordo proibito. Lo sorseggiai piano, appoggiato al bancone, i miei occhi inchiodati ai suoi. Era un gesto deliberato: invadere il suo quotidiano, trattare le sue cose come mie, per ricordarle che i confini erano già dissolti, che il suo mondo sicuro era un'illusione fragile.
«Che fai? Non ti ho invitato a entrare qui,» protestò, ma la sua voce era un sussurro, e non si mosse. Era ipnotizzata, paralizzata dall'audacia che la terrorizzava e attraeva in egual misura.
«Sto solo creando l'atmosfera,» dissi con un sorriso, carico di sottintesi. «Ricordi quante volte ho visto questa bottiglia sul tuo tavolo? Mentre tuo marito blaterava di lavoro, e tu... tu mi lanciavi sguardi fugaci, le guance in fiamme. Era come se mi offrissi un assaggio di qualcos'altro, di un mondo nascosto sotto la tua facciata perfetta.»
Lei arrossì violentemente, distogliendo lo sguardo verso il pavimento, le mani che tremavano. «Non interpretare tutto. Era solo... ospitalità. Niente di più.»
Mi avvicinai, il bicchiere in mano, invadendo il suo spazio fino a sentire il suo calore irradiare. «Ospitalità? O un segnale? Ogni cena era una tortura per me, Matilde. Tu che ti chinavi per raccogliere un tovagliolo caduto, offrendo un lampo di scollatura che mi bruciava l'anima. O quando accavallavi le gambe, sapendo che i miei occhi seguivano ogni curva, ogni fremito. Mi stavi testando, vero? Vedendo quanto potevo resistere prima di spezzarmi – o di spezzarti.»
«Smettila,» mormorò, la voce rotta da un singhiozzo represso. Si ritrasse verso il soggiorno, e io la seguii come un'ombra inesorabile, posando il bicchiere sul tavolino.
«Perché? Paura di ammettere che questo gioco ti consuma quanto me? Che ogni rifiuto è solo un velo sottile sul tuo desiderio più profondo. Pensa al tuo matrimonio: le notti solitarie, i silenzi che si accumulano come polvere. Io ti offro vita, Matilde. Fuoco.»
Mi sedetti sul divano, le gambe aperte in una posa di dominio assoluto, invitandola con lo sguardo. «Siediti. Parliamo di quello specchio in bagno. Quello che pulisci ossessivamente, che illumini con candele tremolanti. L'hai mai usato per guardarti davvero? Per vedere la donna intrappolata, che ambisce a essere libera?»
Lei esitò, poi si sedette sull'orlo del divano, le mani intrecciate in grembo come in preghiera. «Non è come dici tu. Io amo mio marito. Abbiamo costruito una vita insieme.»
«Lo so,» concessi, chinandomi verso di lei, il mio respiro che sfiorava il suo. «Ma ami anche l'abisso. Il brivido di ciò che potrebbe distruggerti. L'altra sera al parcheggio? Ricordi il tuo corpo che si irrigidiva sotto le mie mani, l'elettricità che ci legava? Era destino, Matilde. Non fingere che non l'abbia sentita – non fingere di sentirla ora.»
La conversazione si trasformò in una danza mortale di parole, ogni frase un affondo per erodere le sue difese. Le descrissi scene passate con dettagli crudeli e vividi – i suoi sorrisi ambigui, i tocchi "accidentali" che nascondevano intenzioni, le notti in cui mi aveva scritto messaggi cancellati all'alba. Lei negava, le lacrime che fuoriuscivano, ma i suoi occhi – dilatati, umidi, carichi di un desiderio che la tradiva – raccontavano una storia diversa. Il pathos era palpabile: la sua vulnerabilità, il senso di colpa che la divorava, misto a un'attrazione fatale che ci trascinava entrambi verso l'abisso.
Alla fine, la tensione si frantumò come vetro fragile. Mi alzai, le presi il viso tra le mani con una gentilezza possessiva, sentendo le sue lacrime calde scivolare sulle dita. «Basta giochi,» sussurrai, la voce rauca per l'emozione repressa. «Basta fingere.»
La baciai, premendo le labbra sulle sue, ma lei resistette più a lungo di quanto mi aspettassi – le sue mani si posarono sul mio petto, spingendo debolmente, il corpo rigido come una corda tesa. «No,» mormorò contro la mia bocca, la voce un misto di protesta e tremore. «Non possiamo... non di nuovo...» Ma le parole si spezzarono in un sospiro quando la mia lingua sfiorò la sua, e per un istante il suo corpo si ammorbidì, solo per irrigidirsi di nuovo. La tenni ferma, le dita intrecciate nei suoi capelli, tirando leggermente per inclinarle il capo. Lei emise un gemito soffocato, le unghie che graffiavano la mia camicia – per combattere l'onda che la travolgeva.
Ci spostammo in bagno, attratti da quello specchio come da un altare profano, i nostri passi incerti, intrecciati in una danza di avanzate e ritiri. Matilde inciampò leggermente contro la porta, le sue mani che afferravano il mio braccio per sostenersi, ma anche per allontanarmi. «Aspetta,» ansimò, gli occhi dilatati dal panico e dal desiderio. «Non sono sicura... questo ci distruggerà.» Le sue parole erano un'ultima barriera, un tentativo disperato di aggrapparsi alla razionalità, ma il suo corpo la tradiva: il respiro accelerato, i capezzoli eretti sotto la blusa sottile.
Io non mi fermai. Le slacciai la blusa, un bottone alla volta, esponendo la sua pelle pallida, segnata da un velo di sudore. Lei esitò, le braccia che si alzarono per coprirsi, ma le abbassai con gentile fermezza, sussurrandole all'orecchio: «Lasciati vedere. Lasciati libera.» Blusa e pantaloni scivolarono via come foglie autunnali, rivelando il suo corpo nudo, tremante, con curve familiari che avevo immaginato infinite volte. Lei arrossì violentemente, girando il viso verso lo specchio, ma i suoi occhi incontrarono i miei nel riflesso – un misto di sfida e resa.
La spinsi contro il lavandino, le mani sui suoi fianchi, stringendo la carne morbida con possesso. Lei si aggrappò al bordo del marmo freddo. «Ti prego,» mormorò, la voce incrinata, «non farmi questo.» Ma le sue gambe si aprirono leggermente quando le mie dita scivolarono tra le sue cosce, trovando il calore umido che la tradiva. Era riluttante, sì – il corpo teso, i muscoli contratti come se volesse fuggire – ma lentamente, sotto le mie carezze insistenti, iniziò a cedere. Le sfregai il clitoride con movimenti lenti, deliberati, e lei emise un singhiozzo, le anche che si mossero involontariamente contro la mia mano. «Non... oh Dio,» gemette, chiudendo gli occhi, ma io le strinsi il collo con l'altra mano, delicatamente ma con fermezza, costringendola a riaprirli.
«Guardati,» ansimai, la mia erezione premuta contro di lei da dietro, dura e insistente attraverso i pantaloni. «Vedi quanto lo vuoi.» Lei scosse la testa, ma il suo corpo si inarcò, i seni che si alzavano e abbassavano al ritmo del suo respiro affannoso. Le abbassai gli slip con un gesto fluido, esponendola completamente, e lei rabbrividì, un brivido che percorse la sua spina dorsale.
Mi slacciai i pantaloni, liberando me stesso, e posizionai la punta contro la sua entrata, sfregandola piano contro le sue labbra bagnate.
La penetrai lentamente, con deliberata lentezza, sentendo ogni centimetro che scivolava dentro di lei. All'inizio, fu resistenza pura: i suoi muscoli si contrassero attorno a me, stretti e riluttanti, come se il suo corpo lottasse contro l'invasione. Entrai piano, solo la punta, e lei emise un gemito acuto, misto a dolore e piacere, le gambe che tremavano. «Troppo... è troppo,» ansimò, ma non si ritrasse; invece, il suo corpo si adattò gradualmente, il calore umido che mi avvolgeva in un abbraccio sempre più accogliente. Spinsi più a fondo, centimetro dopo centimetro, sentendo le sue pareti interne pulsare attorno a me, bagnate e calde, un contrasto perfetto con la sua iniziale rigidità. Lei inarcò la schiena, il riflesso nello specchio che mostrava il suo viso contorto – labbra socchiuse, occhi semichiusi,– mentre io affondavo completamente, riempiendola fino in fondo con un'ultima spinta decisa.
Ora eravamo uniti, i nostri corpi premuti insieme, il mio petto contro la sua schiena. Iniziai a muovermi, ritraendomi quasi del tutto per poi spingere di nuovo, ogni affondo più profondo, più insistente. Lentamente, si lasciò andare: i suoi gemiti si fecero più profondi, più liberi, e nello specchio vidi la trasformazione – da resistenza a resa, da riluttanza a fame pura.
Le mie mani esplorarono il suo corpo: una stringeva il collo, tenendola a guardare il nostro riflesso distorto dal vapore; l'altra scivolava sui suoi seni, pizzicando i capezzoli eretti fino a farla inarcare. Ogni spinta era un'eco della nostra lotta: profonda, inesorabile, carica di pathos. Lei si aggrappò più forte al lavandino, i seni che oscillavano al ritmo frenetico, i muscoli interni che si contraevano attorno a me in spasmi crescenti. «Sì... oh, sì,» gemette infine, la voce rotta, abbandonandosi completamente.
L'orgasmo la travolse come un'onda devastante, un grido acuto che appannò il vetro e riecheggiò nelle piastrelle. Il suo corpo tremò, le gambe che cedevano leggermente, sostenuta solo dalle mie braccia. Io la seguii poco dopo, spingendo un'ultima volta con forza, riversandomi dentro di lei in un'esplosione di calore, sigillando la nostra rovina condivisa con un gemito rauco.
Rimanemmo lì, ansimanti, i corpi uniti nel riflesso appannato, sudati e tremanti. Lo specchio aveva assistito a tutto: la resistenza iniziale, la lenta resa, la passione sbocciare ed esplodere.Sarà per sempre il simbolo della nostra infinita unione.
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