Il quarto comando
di
Tempo Al Tempo
genere
dominazione
Roma di domenica è un velo di indolenza, un mosaico di luce che filtra attraverso i platani di Villa Doria Pamphilj come polvere d'oro su un tappeto di foglie cadute, dove il mormorio di un ruscello sotterraneo si intreccia al profumo di mandorle tostate dalle cucine dei ristoranti di Monteverde Nuovo, e il canto sporadico di un merlo sfida il silenzio dei viali deserti, un angolo dove la città si concede una pausa, rivelando le sue crepe come confessioni sussurrate al vento autunnale.
Quel pomeriggio, architetto il passo successivo: un comando che la strappi dal guscio domestico, la esponga al sole crudo come una confessione sussurrata al vento. La psicologia del dominio è un velo sottile: per me, è il piacere di insinuarmi nei suoi pensieri, di trasformare la sua routine in un labirinto dove ogni scelta è mia, un godimento cerebrale nel vederla navigare la colpa come un mare procelloso; per lei, è il dualismo che la consuma – il marito un'ancora opaca che la trascina nel dovere, io il faro che la attira verso l'abisso, dove la paura di essere scoperta si fonde con un'eccitazione che la fa sentire viva, traditrice, rinata.
L'ordine parte alle undici, mentre siedo in un bistrot di Via del Governo Vecchio con l'aroma di ricotta fresca che aleggia come un richiamo: "A mezzogiorno esatto, prendi l'auto e parcheggia in Via Appia Antica, nel tratto isolato vicino al Mausoleo delle Fosse Ardeatine – quel curvone ombreggiato da lecci, dove i ruderi tacciono e i passanti sono echi lontani. Masturbati quanto desideri. Filma tutto, dal tuo viso al tuo tocco. Mandami il video alla fine. Sei mia, anche sotto questo sole romano."
Il testo svanisce, e la immagino a casa, in quella domenica pigra, con il marito stravaccato sul divano con un giornale o un programma sportivo in sottofondo, lei in cucina che finge di trafficare con piatti, il telefono che vibra sul bancone come un serpente che si risveglia. La sua mente deve vorticare ora: un'occhiata furtiva al marito, il cuore che balza in gola al pensiero di sgattaiolare via con una scusa banale – "Vado a fare un giro, ho bisogno d'aria" – mentre il calore le sale dal ventre, un misto di terrore per l'audacia e un brivido di liberazione, la colpa che la punge come aghi ma che amplifica il desiderio, facendola sentire divisa tra la moglie devota e la donna che io sto scolpendo, un essere di impulsi proibiti.
Ma la risposta arriva come un colpo di frusta, non la solita resa ma un'onda di ribellione: "No, Daniele. Non posso. È troppo – in auto, di domenica, con lui a casa? Mi stai chiedendo di distruggermi. Non lo farò. Non sono quel tipo di donna." Le parole mi colpiscono lo schermo come schegge, e per un istante immagino il suo viso – occhi verdi sgranati, mani che stringono il telefono, il corpo rigido in cucina mentre il marito grida una replica dalla TV, ignaro del suo tumulto. È la prima crepa visibile nella sua armatura: non più la sottomessa del bagno, ma una donna che riaffiora dal baratro, aggrappandosi al suo mondo sicuro, alla routine che la protegge dal caos che io ho invocato. La sua psiche grida ribellione – paura che si tramuta in rabbia, un disperato tentativo di reclamare il controllo, di ricordare a se stessa che è moglie, non schiava. Ma io mantengo l'autocontrollo, il respiro calmo come un lago dopo la tempesta: questo è il test, il momento in cui la vera dominazione emerge non dalla forza, ma dal vuoto che lascerò.
Rispondo con un messaggio glaciale, ogni sillaba un bisturi: *Hai ragione, Elena. Non sei alla mia altezza. Ti ho sopravvalutata – pensavo ci fosse una scintilla in te, una fame degna di essere domata. Ma evidentemente no. Torna pure nel tuo mondo noioso, a quelle notti tiepide dove un tocco distratto è il massimo che meriti. Non scrivermi più. Non aspettarmi."
Invio, e stacco – blocco le notifiche, lascio il telefono sul tavolo del bistrot come un relitto, e mi alzo senza fretta, il sole di Via del Governo Vecchio che mi scalda la nuca mentre cammino verso il Tevere. Per me, è un calcolo freddo: il silenzio è la mia arma più affilata, un vuoto che amplificherà la sua dipendenza, facendola confrontare con i suoi fantasmi – un'assenza che la consumerà, ricordandole che senza di me, la sua vita è un'eco sbiadita. La sua psiche, lo so, comincerà a frantumarsi: il rifiuto iniziale un'illusione di forza, presto eroso dal ricordo dei miei comandi, dal brivido che solo io le do, trasformando la solitudine in un'arma che la spingerà a implorare.
Lunedì e martedì passano come ombre: non mi presento al bar, il mio espresso rituale sostituito da un caffè anonimo in un chiosco di Via Giulia, dove l'odore di cornetti raffermi si mescola al traffico mattutino. Il telefono resta muto – lei scrive, lo so dal bagliore occasionale che ignoro: "Daniele, dove sei? Ho sbagliato, parlami." Poi, più disperato: "Mi manchi al bar. Sto impazzendo senza di te."
E infine, mercoledì: "Ho sbagliato tutto. Sono vuota senza i tuoi ordini. Dimmi cosa fare, ti prego – non voglio perderti."
Ogni messaggio è un mattone nella sua capitolazione: la sua mente, quel groviglio di lealtà coniugale e desiderio represso, si arrende piano – la solitudine la morde come fame, il marito un vuoto che amplifica la mia assenza, facendola sentire persa, dipendente, un involucro senz'anima.
È qui la mia vittoria psicologica: non l'ho spezzata con la forza, ma con il silenzio, lasciandola annegare nel suo bisogno di me, trasformando la ribellione in una resa totale, dove l'orgoglio si dissolve in un'implorazione che la lega più stretto.
Mercoledì pomeriggio, solo allora, rispondo, la voce in un audio calmo, inesorabile: "Hai imparato la lezione, Elena? Il silenzio ti ha insegnato quanto sei mia. Esegui l'ordine di domenica, ora. Filma. E dopo... un altro verrà. Metti ordine in cantina, intanto – potrebbe servirti spazio per i tuoi... impegni." La sua risposta è un fiume in piena: "Sì... va bene, come desideri. Sto andando ora. Grazie per non avermi lasciata per sempre."
Un fremito mi percorre il petto – un godimento profondo, cerebrale: vederla tornare per dipendenza, è il sigillo della mia presa sulla sua psiche, un dominio che la rende mia in ogni respiro.
Alle 12:07, il telefono trema – il video, un file grezzo che si apre nel mio palmo nascosto. L'inquadratura cattura l'abitacolo della sua auto, parcheggiata nel curvone di Via Appia Antica vicino al Mausoleo: i lecci antichi che filtrano il sole in chiazze tremule sul cruscotto, il silenzio rotto solo dal ticchettio di un ramo contro il tetto e dal rombo occasionale di un motorino lontano, l'odore di terra umida e storia sepolta che filtra dai finestrini socchiusi, un luogo verosimile e isolato dove i ruderi mormorano ai morti e i vivi passano di rado.
Lei è al volante, il vestito nero arrotolato sui fianchi – nuda sotto, come un rituale silenzioso – le gambe aperte quel tanto per esporre la sua figa rasata, già gonfia e lucida.
La telecamera, puntata sul suo viso, cattura gli occhi verdi dilatati, le guance arrossate dal sole e dalla febbre interiore, le labbra schiuse su un respiro affannoso. "Daniele..." sussurra all'inizio, la voce un filo spezzato, prima che la mano destra scenda – dita che dischiudono le labbra umide, un indice che circonda il clitoride in spirali lente, deliberate, il corpo che si inarca contro il sedile con un sospiro che riempie l'abitacolo. Il video è un flusso ininterrotto, minuti di resa pura, la mano che accelera in un ritmo febbrile – due dita che affondano dentro di sé, curvate per sfregare quel nodo interno, il pollice che tormenta il bocciolo teso mentre i succhi colano vischiosi sul cuoio del sedile.
Vedo la sua psiche dispiegarsi in ogni frame: la paura che le contrae le sopracciglia, un'occhiata nervosa allo specchietto per scrutare la strada deserta – Via Appia, con i suoi cipressi che vegliano come sentinelle e il profumo di pino resinoso che invade l'auto, è un'illusione di privacy, ma il rischio di un escursionista o di un'auto isolata la inchioda al posto, amplificando il terrore in un'eccitazione che le fa tremare le cosce. Il marito, un fantasma nel suo subconscio – forse intento a un sonnellino post-pranzo – la punge con ondate di colpa, facendola esitare per un secondo, le lacrime che le velano gli occhi mentre geme piano, "Per te... solo per te." Ma poi la liberazione: il ritmo che si fa selvaggio, il corpo che si contorce contro il volante, un seno che sfugge dalla camicetta slacciata e ondeggia al moto della mano, i gemiti che crescono in un coro roco, soffocato dal palmo libero premuto sulla bocca. Culmina in un'onda – l'orgasmo che la squassa come un terremoto, il ventre che si contrae in spasmi visibili, un urlo muto che le deforma le labbra, gli occhi chiusi in un'estasi che la lascia esausta, ansimante, il video che sfuma sul suo viso bagnato di sudore e lacrime, un sussurro finale: "Fatto... sono venuta pensando a te. Non lasciarmi più sola."
Riguardo il video due volte, il mio cazzo pulsante nei pantaloni mentre assaporo la sua anima nuda: per lei, questo è l'apice della frattura – un atto che profana il suo tempo "sacro", trasformando la solitudine dell'auto in un confessionale mobile, dove la colpa verso il marito si dissolve in un piacere che la fa sentire potente, corrotta, mia; per me, è l'estasi del controllo remoto, vederla filmarsi in quel flusso ininterrotto è possedere i suoi pensieri in tempo reale, un trofeo psicologico che mi fa gonfiare di un orgoglio predatorio, l'eccitazione un fuoco lento che brucia la razionalità. Rispondo con un audio, la voce un velluto tagliente: "Ora sei di nuovo mia, Elena. Hai danzato sul filo, e ne esci forgiata. Domani, un altro ordine – qualcosa di domestico, intimo. Metti ordine in cantina, intanto."
La sua replica è un'eco immediata, carica di un misto di sollievo e bramosia: "Il video... mi vergogno, ma mi eccita sapere che l'hai visto. La cantina? Obbedirò, come sempre. Mi stai ridisegnando, Daniele – un tocco alla volta." Sorrido al viale di Villa Doria Pamphilj, dove il fruscio delle foglie autunnali suona come un applauso complice. Roma, con i suoi ruderi silenti, ha ospitato il suo atto isolato. Domani, la cantina – polverosa, odorosa di muffa e bottiglie dimenticate – diventerà il suo prossimo calvario, un'umiliazione casalinga che la spingerà a tradire nel cuore del suo nido. E io, l'architetto invisibile, ne trarrò il beneficio.
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