Il ricatto

di
genere
etero

L’avevo vista la sera prima, in quel locale affollato e fumoso, un covo di ombre e sussurri che odorava di gin e rimpianti. Ero lì per caso, o almeno così mi dicevo, per bere un drink e scacciare i demoni della solitudine.

Ma il destino, quel bastardo imprevedibile, aveva altri piani. Matilde era seduta a un tavolo d’angolo, illuminata da una luce calda e soffusa che accendeva riflessi dorati nei suoi capelli sciolti.

Non era sola. Accanto a lei c’era un uomo, alto e curato, con un sorriso troppo intimo e una mano che sfiorava la sua coscia sotto il tavolo. Non era suo marito, il mio amico di vecchia data, quel povero illuso che la adorava come una reliquia intoccabile. No, questo era un estraneo, un ladro di momenti rubati, troppo vicino per essere un collega, troppo complice per fingere innocenza.

Le loro risate si intrecciavano come fili di seta proibita, e io, nascosto nell’ombra del bancone, sentivo un nodo stringersi nel petto: un’eccitazione oscura, come se quel tradimento fosse il catalizzatore di un desiderio sepolto da anni. Scattai quella foto quasi senza pensarci, il telefono che tremava appena nella mia mano. Il flash era spento, il clic silenzioso come un sussurro colpevole.

Non era un atto di vendetta, non del tutto. Il mio vero segreto era un altro, un fuoco covato in silenzio per troppo tempo. Matilde. Da quando l’avevo conosciuta, attraverso suo marito, ogni incontro era stato una tortura raffinata. I suoi occhi castani, profondi come laghi proibiti, che mi sfioravano senza mai soffermarsi. Le sue labbra piene, che si incurvavano in sorrisi cortesi mentre chiacchieravamo di banalità. E il suo corpo... Dio, il suo corpo.
Quei seni sodi, le cosce morbide e sode, accavallate con noncuranza durante le cene di gruppo; la curva dei fianchi che ondeggiava ipnotica quando camminava.

Ogni volta mi ero imposto di trattenermi, di inchinarmi al ruolo dell’amico leale, del confidente innocuo. Ma sotto, nel buio della mia mente, quel desiderio ribolliva come lava, un vulcano pronto a eruttare.
La foto era la mia scintilla. La inviai il mattino seguente, nient’altro. Nessun messaggio, nessuna spiegazione. Solo l’immagine cruda, catturata nel suo momento di debolezza, un’arma silenziosa che attendeva di colpire.

La sua reazione arrivò rapida come un fulmine, furiosa come una tempesta. Il telefono vibrò con una raffica di messaggi: “Chi cazzo ti credi di essere, Daniele? Cancella quella merda subito! Sei un verme!”.
La sua voce, al telefono poco dopo, era un ringhio spezzato, intriso di rabbia ma anche di un tremore che tradiva la paura.

Era terrore di ciò che quella foto rappresentava: la crepa nella sua armatura perfetta, la moglie devota, l’amica impeccabile, l’angelo domestico che suo marito adorava. Sotto quella collera, intuivo il panico di chi sa che un segreto può travolgere tutto. Io ascoltai in silenzio, il cuore che accelerava a ogni insulto, lasciando che le sue parole mi sfiorassero come carezze velenose.

Poi, con voce calma, quasi gentile, proposi una cena. “Parliamone di persona, Matilde. Ti prometto che cancellerò tutto.” Lei rise, una risata amara e tagliente: “Vai a farti fottere, Daniele. Non ti devo niente.” Riagganciò, ma io sapevo.

Sapevo che la curiosità, la paura, il bisogno di controllare il danno l’avrebbero spinta tra le mie braccia. Ed è quello che accadde: la sera dopo, un messaggio laconico. “Va bene. Ma solo per chiarire questa stronzata. E poi mi dai la tua parola che sparisce tutto.” Si presentò puntuale, come una regina in esilio, bellissima e letale nella sua armatura di seta e acciaio.

L’abito nero, sobrio ma tagliato su misura, accarezzava le sue curve con una precisione chirurgica, lasciando intravedere la scollatura quel tanto che bastava per tormentarmi. I tacchi alti scandivano ogni passo sul marciapiede come un conto alla rovescia, e i capelli raccolti in uno chignon severo le incorniciavano il viso, accentuando gli zigomi alti e quel mento ostinato che ora stringeva per la tensione.

Si sedette di fronte a me al ristorante, un posto intimo con luci basse e tovaglie di lino candido, e il suo sguardo era glaciale, due lame verdi che mi trafiggevano. Le spalle dritte, il corpo rigido come una statua di marmo, emanava un’aura di sfida: “Falla finita, Daniele. Dimmi cosa vuoi e andiamocene.” Non parlò molto durante la cena.

Ogni mia battuta, ogni tentativo di alleggerire l’atmosfera con aneddoti leggeri sul nostro circolo di amici, riceveva in cambio un mezzo sorriso ironico o un commento velenoso. “Sei patetico, lo sai? Pensi che una foto ti renda potente?” disse a un certo punto, sorseggiando appena il vino rosso che le avevo ordinato, come se ogni goccia fosse un’ammissione di sconfitta.

Non beveva quasi, assaggiava il cibo con forchette precise, movimenti calcolati per rimarcare che era lì controvoglia, che non mi avrebbe concesso un solo appiglio, un solo istante di vulnerabilità. Eppure, io la osservavo con attenzione famelica, notando le incrinature nella sua facciata.
Il modo in cui sistemava nervosamente il tovagliolo sulle gambe, accavallandole e riaccavallandole come se cercasse di contenere un calore interiore. Lo sguardo che, ogni tanto, si abbassava un secondo di troppo quando i miei occhi incontravano i suoi, un lampo di incertezza che svaniva rapido come un fantasma.

La tensione nel collo, i tendini che si irrigidivano come corde di violino, come se trattenesse un urlo o, peggio, un sospiro represso. Io non replicavo con rabbia. Mi limitavo a sorridere, un sorriso lento e predatorio che la faceva irrigidire ancora di più, lasciando che i suoi insulti mi sfiorassero come piume avvelenate.

Ogni parola sferzante era per me una conferma del suo tumulto interiore: stava lottando più con se stessa che con me, con il desiderio represso che quella foto aveva risvegliato, con il brivido proibito di essere esposta, nuda nella sua doppiezza.
Parlammo di tutto e di niente – del tempo incerto di novembre, dei figli di suo marito che crescevano troppo in fretta, di quel viaggio in Toscana che avevamo fatto tutti insieme l’estate scorsa – ma sotto le parole aleggiava un’ombra densa, un intrigo che si infittiva a ogni sguardo rubato, a ogni silenzio carico.

Sentivo la tensione crescere come una marea, il pathos di un’amicizia corrotta dal desiderio, il cuore che mi martellava nel petto mentre immaginavo di sfiorarle la mano, di spezzare quel muro con un tocco.
Lei lo percepiva, lo combatteva: “Smettila di guardarmi così, Daniele. Non sono una delle tue conquiste facili.”

Il ritorno in macchina fu un campo minato, l’aria elettrica di tempesta imminente. Lei sedeva rigida sul sedile del passeggero, le braccia conserte come uno scudo, e continuava a insultarmi a raffica: “Sei un bastardo, un vigliacco, un malato mentale che si eccita con i segreti altrui.”
Le sue parole erano proiettili, ma la voce si incrinava ogni tanto, tradendo un tremore che non era solo rabbia. Io guidavo in silenzio, le mani strette sul volante fino a far sbiancare le nocche, ignorando le sue richieste severe:

“Riportami a casa immediatamente, Daniele. Non un giro in più.” Ma non ascoltai. Il mio piano, covato in quelle ore di attesa febbrile, era troppo vicino al compimento. Svoltammo in un parcheggio isolato ai margini della città, un relitto di cemento e ombre sotto la luna pallida, dove i fari delle auto lontane sembravano occhi indifferenti.

Spensi il motore con un gesto deliberato, il silenzio che calava come una ghigliottina. Lei si voltò di scatto, gli occhi sgranati: “Che cazzo fai? Accendi questa macchina, ora!” Non le diedi tempo. Mi gettai su di lei come un lupo affamato, le labbra che reclamavano le sue con una fame primordiale, la lingua che forzava la barriera dei suoi denti serrati. Matilde mi respinse con furia, le mani che spingevano sul mio petto, le unghie che graffiavano la pelle del collo in solchi roventi. “No! Fermati, bastardo!” urlò, ma io la trattenni, le braccia che la inchiodavano al sedile, le mani che scivolavano sulle sue cosce serrate, sentendo il calore della pelle attraverso la seta sottile della gonna.

Il suo corpo si irrigidì come una molla compressa, eppure tremava, un fremito che non era solo terrore. Sotto quella rabbia, percepivo il fuoco che avevo represso per anni, lo stesso che ora lambiva anche lei: il brivido del proibito, la tensione erotica di un desiderio negato che esplodeva in violenza.

Lottava, sì, con una ferocia che mi eccitava ancora di più, i suoi colpi che mi graffiavano il viso, le gambe che scalciavano contro il cruscotto. Ma io non mollavo, il respiro affannoso che si mescolava al suo, il cuore che tuonava come un tamburo di guerra.

Alla fine, lei aprì la portiera e uscì barcollando nell’aria fredda della notte, un tentativo disperato di fuga. Io la rincorsi, l’adrenalina che pompava nelle vene, e quando la afferrai per un braccio, la forza del mio desiderio la piegò contro il cofano ancora tiepido del motore. “Lasciami, Daniele! Ti denuncerò, giuro!” urlava, dimenandosi come una pantera intrappolata, le mani che artigliavano il metallo freddo, il corpo che si inarcava nel tentativo di sfuggirmi.

Ma io la schiacciavo contro la lamiera, il mio bacino premuto sul suo culo sodo, sentendo la curva perfetta che da anni mi ossessionava. Le sue gambe tentavano di serrarsi, un’ultima difesa istintiva, ma io le spinsi di lato con il ginocchio, le mani che risalivano la gonna fino a raggiungere il bordo delle mutandine.

Con un gesto secco, animalesco, gliele strappai via, il tessuto che si lacerava con un suono intimo e definitivo. E lì, nel buio rotto solo dal bagliore lontano dei lampioni, sentii il tradimento del suo corpo: il calore umido tra le sue cosce, l’evidenza bagnata che la contraddiceva, che gridava il suo desiderio represso più forte di qualsiasi insulto.

Non resistetti oltre. La penetrai con forza, un affondo profondo e brutale che la fece urlare, un grido che echeggiò nel parcheggio deserto – non solo di rabbia, ma di un dolore misto a un piacere inconfessabile.
Le sue mani picchiavano sul cofano, i palmi che sbattevano ritmicamente mentre io spingevo sempre più a fondo, ogni colpo un risarcimento per gli anni di silenzi torturati, per le notti insonni in cui l’avevo immaginata così, nuda e mia. “Matilde... ti ho voluta da sempre,” ringhiai tra i denti, la voce rotta dal piacere, mentre mi chinavo sul suo corpo, le mani che le afferravano il petto attraverso la camicetta, palpando la pienezza dei suoi seni che ansimavano al ritmo delle mie spinte.

Lei si divincolava ancora, il corpo che si contorceva in una danza di resistenza e resa, gli insulti che si mescolavano a gemiti strozzati: “Figlio di puttana... ah... fermati... no, non fermarti...”. La feci girare con un movimento fluido, possessivo, le dita che sbottonavano la camicetta con fretta febbrile, esponendo la pelle pallida al freddo della notte.
Il reggiseno di pizzo nero cedette sotto le mie mani impazienti, e finalmente, oh Dio, finalmente quei seni che avevo sognato mille volte emersero, pieni e perfetti, i capezzoli turgidi come promesse non mantenute.

Li leccai con furia primordiale, la lingua che tracciava cerchi avidi intorno alle areole, i denti che mordicchiavano piano, strappandole un singhiozzo che era puro pathos: dolore, piacere, confusione in un turbine emotivo.
Il suo respiro si trasformava in un ansimare irregolare, alto e spezzato, il collo inarcato all’indietro mentre le sue mani, un tempo artigli, ora si aggrappavano alle mie spalle, incerti tra spingere via e attirare più vicino.

“Ti ho voluta da sempre... e ora non mi fermo più,” le sussurrai tra un morso e l’altro, la voce un rauco mormorio contro la sua pelle, inalando il suo profumo di vaniglia. Il suo corpo mi rispose prima della mente: a ogni spinta incontravo meno resistenza, le sue anche che cominciavano a muoversi da sole, un ritmo istintivo che veniva incontro al mio, un dialogo silenzioso di carne e desiderio.

La rabbia si scioglieva in resa, la lotta in un abbandono febbrile; i suoi gemiti si facevano più liberi, più disperati, il viso contratto in un’espressione di estasi tormentata. La tensione culminò in un pathos travolgente, un crescendo di emozioni crude: il tradimento che si trasformava in liberazione, l’odio che sfociava in passione.
Il suo orgasmo esplose violento, un’onda che la squassò tutta, il corpo che si inarcava contro il cofano come un arco teso, le unghie che mi graffiavano la schiena attraverso la camicia, le labbra che si aprivano in un urlo muto di piacere assoluto. “Daniele... oh, cazzo... sì!” gridò, e quel suono – il mio nome sulle sue labbra, spezzato dal godimento – fu la mia rovina.

La seguii subito dopo, il seme caldo che la riempiva fino in fondo, le braccia che la stringevano come se temessi che svanisse nel nulla. Restammo lì, piegati sul cofano, ansanti e sudati, i corpi ancora uniti in un groviglio incredulo. L’aria della notte ci avvolgeva come un sudario, portando con sé l’odore di sesso e metallo, di segreti condivisi.

L'adrenalina di quel momento era palpabile: non solo trionfo, ma una malinconia profonda, il riconoscimento di un desiderio che aveva cambiato tutto per sempre. Lei tremava ancora, le spalle scosse da singhiozzi silenziosi – rabbia residua? Sollievo? – mentre io le accarezzavo i capelli scompigliati, un gesto tenero in netto contrasto con la violenza di prima.
La riaccompagnai in macchina in silenzio, lei che si ricomponeva piano: la gonna stirata con mani tremanti, la camicetta abbottonata alla meglio, i capelli sistemati con dita che ancora profumavano di me. Parcheggiai sotto casa sua, una villetta ordinata che nascondeva chissà quanti altri segreti, e quando aprì la portiera, esitò un attimo sulla soglia, il viso illuminato dal bagliore arancione del lampione.

Si voltò verso di me, gli occhi ancora accesi di quel fuoco misto – rabbia, desiderio, incredulità – e un sorriso amaro le incurvò le labbra gonfie. “Sei uno stronzo, Daniele... ma scopi da dio.”

E se ne andò, i tacchi che echeggiavano sulla ghiaia come un addio provvisorio, lasciandomi solo con il cuore in fiamme e la certezza assoluta che, nonostante tutto, le era piaciuto da morire. Da dio. E che quel fuoco, ora acceso tra noi, non si sarebbe spento tanto facilmente.
scritto il
2025-11-06
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