La finestra di fronte

di
genere
etero

Rimanere in ufficio fino a tardi era sempre stato un peso. Le luci al neon che si spegnevano una a una ai piani inferiori, il silenzio che cresceva, il vuoto dei corridoi… e io che mi ritrovavo a fissare lo schermo con la testa piena di pensieri. Eppure, negli ultimi tempi, quel silenzio aveva assunto un sapore diverso.
Dal mio ufficio al sesto piano, la finestra dava su un condominio di fronte. Tante finestre, tanti sprazzi di vita rubata: una donna che cucinava, un uomo in tuta che faceva ginnastica, ragazzi davanti a una TV accesa. Mi divertivo a inventare storie su di loro, a immaginare segreti e abitudini. Un gioco infantile, innocuo.
Fino a quella sera.
Lì, in una delle finestre al quinto piano del palazzo di fronte, la vidi per la prima volta. Una donna bionda, capelli sciolti fino alle spalle, illuminata da una luce calda e soffusa. Era seduta davanti al computer, piegata leggermente in avanti, il volto serio e concentrato. Non capivo cosa stesse facendo: lavorava? Scriveva a qualcuno? O forse stava confidando i propri segreti a un amante segreto dietro quello schermo?
Rimasi rapito.
La sera successiva la rividi. Stessa posizione, stessa luce, lo stesso fascino discreto e irresistibile. Ma quella volta accadde qualcosa: i suoi occhi, per un istante, sembrarono incrociare i miei. Io ero affacciato, troppo a lungo per fingere distrazione. Lei mi guardò, e avrei giurato che un piccolo sorriso le attraversò le labbra.
Da quel momento tutto cambiò. Non era più un gioco da solitario.
Cominciai a trattenermi in ufficio sempre più a lungo. Ormai non lo facevo per i report o per le scadenze, ma per lei. Per quella finestra illuminata che, sera dopo sera, diventava il mio appuntamento segreto.
Un giorno, durante la pausa pranzo, la incontrai davvero. In un bar sotto l’ufficio, tra la folla distratta, la riconobbi subito. Era lei. Più bella ancora, bionda, elegante anche nella semplicità di un vestito chiaro. Aveva lo stesso portamento sicuro, lo stesso sorriso che ora, invece di vedermi da lontano, si accendeva a pochi passi da me. Fu uno scambio fugace, un sorriso rapido, ma bastò a consolidare quello che già sentivo: tra me e lei c’era un filo invisibile che ci univa.
La sera stessa non resistetti più. Presi un foglio A3 dalla stampante e scrissi a caratteri enormi:
“Ci apriamo una birra?”
Mi misi in piedi davanti alla finestra, il cuore che batteva troppo forte, e sollevai il cartello. Lei alzò gli occhi, lesse, e per qualche secondo rimase immobile. Poi sparì dalla stanza. Rimasi lì, sospeso, convinto di aver rovinato tutto. Invece tornò, con una bottiglia in mano. Sollevò il braccio in un brindisi silenzioso, e io imitai il suo gesto, tirando fuori la mia birra dal piccolo frigo dell’ufficio. Bevemmo così, a distanza, ridendo senza parlare.
Iniziò così un lungo gioco sottile.
I giorni seguenti furono un crescendo. Preparavo ogni sera un nuovo cartello, lei rispondeva a modo suo, e poco a poco il gioco innocente si caricò di un’elettricità che non riuscivo più a ignorare.
Scrissi:
“Giornata lunga?”
Lei indicò il computer, alzò gli occhi al cielo e fece una smorfia teatrale.
E ancora:
“A chi stai scrivendo?”
Lei finse di scrivere su un foglio e me lo mostrò, troppo lontano perché io potessi leggerlo. Io finsi disperazione, lei rise.
Poi osai di più:
“Sei bellissima anche così lontana.”
Lei restò immobile, sorpresa. Si passò una mano tra i capelli, lentamente, e abbozzò un sorriso.
La sera dopo rilanciai:
“Hai una fede al dito?”
Lei si irrigidì. Poi alzò la mano sinistra, mostrò chiaramente l’anello.
Io scrissi subito:
“E allora perché sei qui?”
Lei rise, ma fu un sorriso teso, nervoso. Fece spallucce. Io sentii un brivido.
Poi arrivò il cartello decisivo.
“Ti sfido, levati la maglia.”
Rimase immobile, fissandomi. Per un istante pensai che avrei rovinato tutto, che avrei spinto troppo. Poi, lentamente, le sue mani scivolarono verso l’orlo della maglietta. La tirò su, centimetro dopo centimetro, fino a scoprire un reggiseno chiaro che le disegnava il seno. Rimase così, esposta, con un sorriso beffardo che sembrava dirmi “Ecco, hai vinto. Ma sei pronto a reggere il gioco fino in fondo?”
Io battei le mani piano, come un applauso muto, e lei rise molto divertita. Poi si rivestì, e io capii che da quel momento non ci sarebbe stato ritorno.
Nei giorni successivi seguirono altre sfide, scritte in modo decisamente semplice, ma al tempo stesso sempre più ardite:
“Sciogli i capelli.” Lei lo faceva, lentamente, scuotendoli davanti alle spalle.
“Girati.” E lei mi mostrava la curva dei fianchi, le gambe lunghe sotto i leggings.
“Fammi vedere quanto ti piace questo gioco.” Lei abbassava lo sguardo, ma quel rossore si intravedeva anche a distanza.
Non lavoravo più. Vivevo solo per quel gioco muto.
Poi, una sera, fu lei a sorprendere me.
Non era lì, in quella stanza, alle nove, come era solita fare. Rimasi con il fiato sospeso, avevo bisogno della sua presenza quotidiana, quei pochi minuti per evadere dalla realtà.
E quando apparve, con un cartello enorme, restai letteralmente senza parole, il fiato spezzato. Un invito inequivocabile campeggiava su quel foglio:
“Campanello. Matilde. Quinto piano. Ora ti sfido io.”
Lessi quelle parole e sentii il mondo fermarsi. Campanello. Il suo nome. Il passo successivo.
Rimasi immobile, col mio solito foglio ancora in mano, e il cuore che mi martellava nel petto. Era un invito, ma non solo: era la resa dei conti. Lei aveva preso in mano il gioco, aveva deciso che era il momento di trasformare tutto.
Mi resi conto che stavo sorridendo come un idiota, incapace di non pensare ad altro che non a quella frase. Ogni sera avevo atteso i suoi gesti, i suoi sorrisi, il lento crescere di quella tensione. Ora lei mi stava spalancando la porta di casa sua, letteralmente.
Presi la giacca, spensi le luci dell’ufficio e uscii. Attraversai la strada e mi fermai davanti al suo palazzo. Il portone, alto e severo, sembrava osservare anche lui la mia esitazione.
Allungai la mano. Premetti il pulsante del campanello.
Un istante di silenzio, poi udii la sua voce, per la prima volta: bassa, ferma, scivolò nell’altoparlante.
“Sali”
Il portone scattò. Lo spinsi ed entrai, l’odore freddo del condominio mi avvolse. Presi l’ascensore, il suo lento salire sembrava non finire mai. Ogni piano che passava era un brivido in più, un punto di non ritorno.
Il corridoio era silenzioso. Mi avvicinai alla porta. Lei era lì dietro, ad aspettarmi: potevo percepire la sua presenza, pur non vedendola.
La porta si è socchiusa piano, lasciando filtrare una lama di luce calda. Matilde era effettivamente lì, con la stessa camicetta che avevo intravisto dalle finestre, i capelli sciolti che ricadevano sulle spalle. Non disse nulla: mi fissava, con quello sguardo che mescolava sfida e vulnerabilità, come se stessimo ancora comunicando con i nostri cartelli.
Io non parlai. Non serviva più.
Quando varcai la soglia, il rumore della porta che si chiudeva alle mie spalle era già il suono di una resa. La stanza profumava di vino rosso e di pelle calda. Ci avvicinammo subito come due magneti, lentamente ma senza esitazioni.
E in un attimo, tutto il gioco diventò carne, mani, labbra, desiderio.
Sentii il calore del suo respiro sul mio viso, e un attimo dopo le nostre labbra si scontrarono violentemente. Non fu un bacio gentile: era il risultato di tutte le notti passate a fissarci da lontano. La baciai con foga, e lei per tutta risposta mi afferrò per i capelli, tirandomi a sé, mordendo il mio labbro con forza.
Feci scivolare le mani sui suoi fianchi, stringendo la curva dei glutei sopra la stoffa leggera della gonna, che quella sera indossava magnificamente, invece dei soliti leggings. Lei gemeva piano, ma non era un lamento: era un incoraggiamento. Iniziai a farla indietreggiare, senza smettere di baciarla, finché le sue gambe non incontrarono il tavolo del soggiorno.
Si sedette di colpo, e io di rimando mi chinai su di lei. Aprii in fretta la sua camicetta, un bottone dopo l’altro, scoprendo il reggiseno che già conoscevo grazie al nostro gioco a distanza. Lo abbassai con un gesto rapido, e i suoi seni scivolarono fuori, tesi, con i capezzoli già induriti.
Li baciai, li succhiai, li leccai, li mordicchiai; e lei gemeva volta per volta sempre più forte, piegandosi all’indietro, mentre le mani mi artigliavano le spalle.
“Da quanto tempo lo volevi?” sussurrò, con il fiato spezzato.
Sollevai la testa, guardandola negli occhi. “Dalla prima sera che ti ho vista. Mi sono trattenuto sin troppo a lungo.”
Lei sorrise, con un ghigno che era per metà ironia e per metà resa e, allargando le gambe, mi invitò a prendere ciò che avevo desiderato per settimane.
Le sollevai la gonna fino alla vita, scoprendo l’intimo sottile. Feci scivolare le dita lungo la stoffa, sentendo già il calore che trapelava. Lei sollevò il bacino, quasi impaziente, e io le sfilai lentamente le mutandine, godendomi ogni centimetro che scoprivo.
Il suo profumo mi travolse. Chinai la testa e iniziai a leccarla, appassionatamente, per farle capire che non avevo nessuna intenzione di lasciarla respirare. Lei inarcò subito la schiena, il respiro spezzato che diventava un gemito continuo. Affondai i polpastrelli nelle sue cosce, la lingua che entrava in lei, risaliva, tornava a indugiare sul suo clitoride.
“Dio…” ansimò “ancora, non fermarti…”
Continuai. La leccai con avidità, con rabbia, con la fame accumulata da settimane. Finché il suo corpo non iniziò a tremare, le gambe a stringermi la testa, la voce rotta che si trasformava in un grido sommesso. La scosse un orgasmo violento, quasi improvviso, e io la sentii cedere sotto la mia bocca.
Ma non era finita. Non per me.
Mi alzai, slacciandomi con un gesto veloce i pantaloni, e senza darle il tempo di recuperare la penetrai in un unico affondo. Lei spalancò gli occhi e graffiandomi la schiena con forza, esalò un gemito strozzato che era sia protesta e sia piacere puro.
Iniziai a muovermi dentro di lei, lento all’inizio, poi sempre più forte, più profondo, spingendola contro il tavolo che scricchiolava sotto i nostri corpi. Lei mi stringeva con le gambe attorno ai fianchi, mi mordeva la spalla, mi sussurrava insulti che diventavano gemiti.
“Maledetto… oh Dio, continua così…”
Ogni parola era una lama e una carezza insieme.
Aumentai il ritmo, spingendo fino a perdermi. Sentivo il mio piacere montare, ma volevo portarla con me. A un tratto la sollevai di peso, la feci girare e la piegai sul tavolo. La presi da dietro, le mani che le stringevano i fianchi, la mia bocca che tornava a mordere le sue spalle nude.
Lei gridava senza più trattenersi, il corpo che cedeva a ogni colpo. Finché la sentii irrigidirsi di nuovo, un secondo orgasmo la attraversò tutta. E quest’ultimo mi travolse a mia volta: affondai ancora due, tre volte, e poi esplosi dentro di lei, stringendola con tutte le forze che mi erano rimaste.
Rimanemmo poi così, piegati e ansimanti, i corpi uniti, il sudore e i nostri umori che si mescolavano irrimediabilmente.
Alla fine lei si staccò piano, si sistemò la gonna con mani ancora tremanti e mi guardò. Gli occhi ardevano ancora, ma la voce era calma, come se avesse deciso di chiudere il cerchio del nostro gioco con un tocco di ironia.
“Tutto questo… non era nei cartelli!”
Poi sorrise, si infilò di nuovo la camicetta, e senza aggiungere altro mi accompagnò alla porta.
Io uscii da quella porta con un’unica consapevolezza: che dopo quella notte nessun foglio, nessun cartello sarebbe più bastato
scritto il
2025-10-01
1 . 6 K
visite
1 6
voti
valutazione
6.6
il tuo voto
Segnala abuso in questo racconto erotico

Continua a leggere racconti dello stesso autore

racconto precedente

Matilde e la scopata con l'host

racconto sucessivo

Il nostro primo incontro

Commenti dei lettori al racconto erotico

cookies policy Per una migliore navigazione questo sito fa uso di cookie propri e di terze parti. Proseguendo la navigazione ne accetti l'utilizzo.