Passione eterna con la Regina del Nilo

di
genere
fantascienza


Ero sempre stato ossessionato dal passato, da quel velo di mistero che separa il nostro mondo frenetico da epoche di sabbia e imperi. Nel 2025, lavoravo come fisico teorico in un laboratorio sotterraneo sotto le piramidi di Giza – ironia della sorte, considerando dove sarei finito. Il progetto, finanziato da un miliardario eccentrico con sogni di immortalità, si chiamava "Cronosonda": un dispositivo per inviare sonde nel tempo, osservare senza interferire. Ma io, con la mia passione per l'antico Egitto – forgiata da anni di studi in egittologia all'università, dove avevo divorato testi su faraoni, geroglifici e la dinastia tolemaica – non potevo resistere. Avevo imparato il greco antico e il latino per decifrare fonti primarie, e persino un po' di egiziano demotico per i papiri. Cleopatra era il mio idolo segreto: non solo una regina, ma una mente brillante, poliglotta, che aveva piegato Roma al suo volere.

Quella notte fatidica, durante un test non autorizzato, calibravo le coordinate per il 48 a.C., l'anno in cui Cleopatra incontrò Giulio Cesare ad Alessandria. Volevo solo sbirciare, soddisfare quella curiosità che mi divorava – un misto di scienza e un desiderio represso di vivere tra leggende. Ma un sovraccarico, forse un sabotaggio o un mio errore, trasformò la sonda in un portale. Fui risucchiato in un turbine di luce e sabbia, il corpo che urlava mentre secoli sfrecciavano intorno a me. Atterrai sulle rive del Nilo, disorientato, con i vestiti moderni lacera e un piccolo zaino sopravvissuto: dentro, gadget come un orologio solare digitale camuffato da amuleto, una bussola, e – per qualche motivo assurdo – un piccolo vibratore a batteria, souvenir di una relazione finita male. Il dispositivo cronosonda, impiantato nel mio polso come un tatuaggio luminoso, mi aveva iniettato un "pacchetto linguistico" di emergenza: greco, latino, egiziano. Potevo parlare come un nativo, un dono che mi salvò la vita.

Alessandria mi avvolse come un sogno febbrile. L'aria era densa dell'odore del Nilo – un misto di acqua fangosa, pesce fresco e incenso bruciato nei templi. Il sole cocente tingeva il cielo di un arancio infuocato, riflettendosi sulle acque verdastre dove feluche solcavano il fiume con vele bianche come lenzuola. Suoni ovunque: mercanti che gridavano in greco e copto, asini che ragliavano, il frastuono di martelli dalle officine. Colori vividi – blu lapislazzuli sui muri dei palazzi, oro scintillante sui carri dei nobili, rosso carminio delle tuniche dei sacerdoti. Mi fingevo un mercante greco da Atene, con "doni dagli dei" nello zaino, e mi diressi al palazzo reale, il cuore pulsante della città.


Il banchetto reale era un'esplosione sensoriale. Entrai nel grande salone del palazzo, le colonne di marmo rosa che si innalzavano come giganti, decorate con foglie d'oro e geroglifici che narravano di vittorie tolemaiche. L'aria profumava di mirra e gelsomino, mista al sapore salato di olive e vino resinato servito in coppe d'argento. Musicisti suonavano lire e flauti, un ritmo ipnotico che si mescolava al mormorio di cortigiani in chitoni colorati. Gatti sacri, sacri a Bastet, si aggiravano tra le gambe, con collari d'oro e occhi verdi che sembravano giudicarti.

E lì, sdraiata su un divano d'avorio intarsiato con ebano, c'era lei: Cleopatra VII Thea Philopator. Non era la bellezza hollywoodiana che immaginavo, ma un "gran pezzo di figa" in senso antico – magnetica, intelligente, con un fascino che ti intrappolava. I suoi occhi a mandorla, bordati di kohl nero come ali di falco, riflettevano una mente affilata. Il naso, quel famoso naso aquilino descritto da Plutarco, le dava un'aria regale, prominente ma armonioso con il mento volitivo e le labbra piene, dipinte di rosso henné. Capelli scuri e ricci, forse tinti di un rosso ramato come suggeriscono alcune raffigurazioni, raccolti in un'acconciatura elaborata con perle e diademi. Indossava una tunica di seta trasparente, importata dalla lontana Cina, che accarezzava le sue curve generose – seni sodi, fianchi larghi da dea della fertilità. Al collo, un pettorale d'oro con uno scarabeo di lapislazzuli, simbolo di resurrezione; bracciali a forma di serpenti che tintinnavano a ogni gesto; orecchini pendenti di smeraldi che catturavano la luce delle lampade a olio.

Mi avvicinai con i miei "doni", il cuore che martellava. "Regina divina," dissi in greco impeccabile, inchinandomi. "Porto tesori da terre lontane." Lei mi squadrò, incuriosita, la voce affascinante come un flauto – dolce, modulata, con un accento che mescolava greco e egiziano. "Chi sei tu, straniero? Parli come un saggio, ma i tuoi occhi tradiscono mondi ignoti."

Iniziai il corteggiamento lì, non con parole vuote, ma con conoscenza. Le mostrai una mappa stellare dal mio zaino, predissi un'eclissi parziale di luna visibile dall'Egitto nel 47 a.C. – un evento che i suoi astronomi confermarono giorni dopo, facendomi passare per un profeta. Le parlai di geografia: descrivevo continenti inesplorati, l'America come una terra d'oro oltre l'oceano, stupendola con dettagli che solo un viaggiatore del tempo poteva sapere. Predissi invasioni romane, come la campagna di Cesare in Asia Minore, e persino sussurrai di un omicidio futuro – "Un console cadrà sotto lame amiche" – senza nominare nomi, piantando semi di alleanza.

I nostri incontri si intensificarono. Mi invitava in stanze private, dove l'odore del Nilo filtrava dalle finestre, misto a petali di loto sparsi sul pavimento. Parlavamo per ore: lei in egiziano, che padroneggiava come l'unica della sua dinastia, e io rispondendo fluentemente grazie ai miei studi e all'impianto. La corteggiavo con regali. Uno antico, ispirato a un pettorale dal tesoro di Lahun al Metropolitan Museum – un ampio collare d'oro con file di perline turchesi e cornaline, al centro uno scarabeo scolpito in lapislazzuli blu profondo, incastonato con geroglifici che invocavano protezione da Ra. "L'ho trovato in una tomba dimenticata," mentii, ma era un facsimile perfetto che avevo ricostruito nel laboratorio. Lei lo indossò, il metallo freddo contro la sua pelle calda, e mi baciò per la prima volta – labbra che sapevano di miele e ambizione.

Poi, un dono moderno: il mio orologio, camuffato da bracciale d'oro con un quadrante che ticchettava invisibilmente. "Misura il tempo come gli dei," le dissi, mostrandole come segnava ore precise. Rise, incantata, e mi chiese di più.


Giulio Cesare arrivò come una tempesta, con la sua legione e l'aura di conquistatore. Lo incontrai durante un consiglio, i suoi occhi freddi che mi squadravano. Per guadagnare fiducia – e schivarlo – usai le mie predizioni. Gli raccontai del suo "De Bello Gallico", citando passaggi prima che li scrivesse: "Tutti i Galli sono divisi in tre parti..." Lui impallidì, stupito. "Come lo sai?" borbottò. Poi, in un momento privato, gli dissi: "Alea iacta est – il dado è tratto." Era la frase che aveva pronunciato attraversando il Rubicone l'anno prima, ma la ripetei come profezia. La sua faccia: un misto di shock e superstizione, le rughe che si approfondivano mentre mi fissava come un oracolo.

Giorni dopo, nel 44 a.C., predissi la sua fine. "Attento alle Idi di Marzo," gli sussurrai. "E quando cadrà il colpo, dirai: 'Tu quoque, Brute, fili mi?'" Rise, scettico, ma quando i congiurati lo pugnalarono al Senato, le cronache dissero che mormorò qualcosa di simile – "Come faceva a saperlo?" – e nei suoi ultimi istanti, forse pensò a me, l'ombra dal futuro.


Dopo aver umiliato Marco Antonio, Cleopatra mi portò alle piramidi di Giza per un rituale privato. Viaggiammo di notte, il deserto un mare di sabbia argentea sotto la luna, l'aria fresca e odorosa di terra arida. La Grande Piramide torreggiava, blocchi di calcare alti come case, l'ingresso nascosto un varco buio.

Scendemmo gallerie inclinate, torce che proiettavano ombre su geroglifici – Ra che sorge, Osiride risorto. L'aria umida, eco di passi. Nella Camera del Re, granito rosso liscio, sarcofago vuoto al centro. Cleopatra si spogliò, il suo corpo illuminato: pelle olivastra, curve divine. L'atmosfera era carica di sacralità e proibizione; l'odore di polvere secolare si mescolava all'incenso che avevamo portato, creando un'aura mistica che ci avvolgeva come un velo. Il silenzio era profondo, rotto solo dal crepitio delle torce e dal nostro respiro accelerato, come se la piramide stessa trattenesse il fiato, osservandoci con gli occhi invisibili dei faraoni defunti.

Ci avvicinammo l'uno all'altra con una lentezza rituale, i nostri corpi che si sfioravano per la prima volta in quel luogo eterno. Le sue labbra incontrarono le mie in un bacio profondo, il sapore di vino dolce e spezie egiziane che mi inebriava, la sua lingua che danzava con la mia in un ritmo antico come il Nilo. Le mie mani percorsero la sua schiena nuda, sentendo i muscoli tesi sotto la pelle calda, mentre lei mi slacciava la tunica, le unghie dipinte di henné che graffiavano leggermente la mia carne, lasciando tracce rosse come marchi di possesso. La spinsi delicatamente contro la parete di granito freddo, i geroglifici che premevano sulla sua schiena come sigilli divini, e le mie labbra scesero sul suo collo, baciando la vena pulsante che odorava di mirra e sudore salato. Succhiavo la sua pelle, mordicchiando piano, mentre lei gemeva sommessamente, i suoni che echeggiavano nelle pareti come preghiere sussurrate agli dei.

Le mie mani salirono ai suoi seni sodi e pieni, i capezzoli turgidi come perle scure sotto le dita; li accarezzai con cerchi lenti, pizzicandoli quel tanto da farla inarcare contro di me, il suo corpo che premeva contro il mio, caldo e invitante. Scesi con la bocca, leccando prima un seno e poi l'altro, la lingua che roteava intorno ai capezzoli, succhiandoli con avidità mentre lei afferrava i miei capelli, tirandoli con forza crescente, i suoi ansimi che si trasformavano in gemiti più profondi, riecheggiando nel granito come un coro sacro. L'umidità tra le sue gambe era palpabile, un calore umido che mi chiamava; scesi in ginocchio, le mie mani sui suoi fianchi larghi, e la mia lingua esplorò il suo sesso, assaporando il suo sapore muschiato e dolce, come nettare proibito. Lei tremava, le gambe che si aprivano di più, le mani premute contro la parete mentre la leccavo con colpi lenti e profondi, il clitoride gonfio sotto la mia bocca, i suoi succhi che mi bagnavano il viso.

Fu in quel momento di estasi che tirai fuori dal mio zaino il vibratore – un cilindro d'argento liscio, camuffato da talismano antico, attivato da una batteria nascosta. "Un dono dal futuro, mia regina," sussurrai, gli occhi nei suoi mentre lo accendevo con un ronzio sommesso, quasi impercettibile nel silenzio della camera. Lei lo guardò incuriosita, toccandolo con dita tremanti, e io lo guidai piano contro il suo clitoride, la vibrazione che la fece sussultare come se un fulmine l'avesse colpita. "Gli dei... cosa è questo?" gemette, gli occhi spalancati per lo stupore e il piacere. Lo mossi in cerchi lenti, aumentando l'intensità, mentre la sua figa si contraeva intorno alle mie dita che la penetravano contemporaneamente, esplorando le sue pareti calde e bagnate. Lei si inarcò, urlando piano – un suono primordiale che rimbalzava sulle pareti – il corpo che convulsionava in un orgasmo preliminare, le gambe che tremavano mentre io continuavo, il vibratore che la portava a picchi di piacere che non aveva mai immaginato, mescolando antico e moderno in un'estasi divina.

Poi, non potei più resistere: la sollevai sul sarcofago freddo e duro come un altare sacrificale, il granito che contrastava con il calore dei nostri corpi. Mi posizionai tra le sue gambe, il mio cazzo eretto che premeva contro la sua entrata bagnata, e la penetrai con una spinta lenta ma decisa, sentendola avvolgermi stretta, calda come il deserto al tramonto. Iniziai a muovermi, spinte profonde e ritmate, le sue anche che roteavano in cerchi ipnotici per incontrare le mie, i nostri corpi che sbattevano con un suono umido e carnale, echeggiante nella camera come un tamburo rituale. Lei mi graffiava la schiena, le unghie che lasciavano solchi rossi, mentre io le tenevo i polsi sopra la testa, dominandola con baci feroci, il sudore che colava sui nostri corpi mescolandosi all'olio profumato che aveva spalmato sulla pelle. Accelerai, spingendo più forte, più profondo, il vibratore ancora premuto contro il suo clitoride per amplificare ogni sensazione, fino a che l'orgasmo ci travolse insieme – il mio seme che la riempiva mentre lei urlava il mio nome, un grido che sembrava invocare Osiride stesso, il corpo che si contraeva intorno a me in spasmi infiniti. Rimanemmo lì, ansimanti, abbracciati sul sarcofago, il cuore della piramide che pulsava con noi, legandoci in un'eternità rubata.


Il resto seguì: Azio, la fuga, la riforma dell'Egitto con irrigazioni moderne e mappe stellari. Governai al suo fianco come consorte ombra, introducendo conoscenze che trasformarono l'impero – canali idraulici ispirati a ingegneria futura, medicine che curavano piaghe antiche, alleanze forgiate con predizioni che ci resero invincibili. Cleopatra fioriva, il suo regno era un'era d'oro ibrida, e le nostre notti erano piene di passione rinnovata, il vibratore diventato un segreto condiviso che la faceva ridere e gemere come una dea mortale.

Ma il tempo è un tiranno crudele. Un giorno, nel 30 a.C., mentre camminavamo lungo il Nilo – l'acqua che scintillava sotto il sole, l'odore di loto e fango che ci avvolgeva – sentii il richiamo. L'impianto nel mio polso si attivò, un bagliore blu che pulsava come un cuore estraneo, un vortice che si apriva nell'aria, tirandomi indietro verso il 2025.
"No!" gridai, aggrappandomi a lei, ma la forza era inesorabile. Cleopatra mi strinse, gli occhi pieni di lacrime – lei, la regina impassibile, che piangeva come una mortale. "Falco mio, non lasciarmi!" urlò, la voce rotta, le mani che artigliavano la mia tunica mentre il portale mi risucchiava. La vidi cadere in ginocchio sulla riva, il pettorale d'oro che scintillava al sole, i capelli scompigliati dal vento del deserto, il viso distorto dal dolore – un misto di rabbia divina e disperazione umana. "Torna da me! Oltre le stelle, oltre la morte!" Le sue parole echeggiarono mentre svanivo, il suo corpo che si accasciava sulla sabbia, singhiozzi che si mescolavano al mormorio del fiume.

Atterrai di nuovo nel laboratorio, il 2025 che mi accoglieva con luci fredde e monitor che ronzavano. Ero cambiato, segnato da secoli rubati. Il miliardario mi interrogò, ma io ero perso: ogni notte sognavo di lei, il suo profumo di mirra che aleggiava nei miei ricordi, il suo tocco fantasma sulla pelle. Provai a tornare, armeggiando con la Cronosonda, ma il portale si era sigillato – forse un meccanismo di sicurezza, o il destino che ci separava. Anni dopo, nel mio mondo grigio di tecnologia e solitudine, lessi di lei nei libri: la sua fine tragica, l'aspide che la portò via dopo Azio. Ma nella mia linea temporale alterata, forse sopravviveva, regnando in un Egitto trasformato, sussurrando il mio nome alle stelle. La disperazione di Cleopatra mi perseguitava – quel grido finale, quel corpo spezzato sulla riva – un'eco eterna nel mio cuore. Era reale? O un'illusione? Non importa: lei è viva in me, disperata e immortale, un amore che sfida il tempo.

scritto il
2025-10-16
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