Io voglio scoparti Professoressa
di
Shadowline
genere
etero
Quando ho saputo che ci sarebbe stato un corso sulla leadership e gestione del team, non ero particolarmente entusiasta: l’ennesima giornata chiuso in una sala riunioni a sentire teorie che spesso restavano lettera morta. Ma appena sono entrato in aula, ho capito che questa volta sarebbe stato diverso.
Eri lì, in piedi davanti al proiettore, impeccabile. Indossavi una giacca chiara, taglio sartoriale, che scivolava addosso senza nascondere le forme. La camicetta era leggermente sbottonata, quanto bastava per stuzzicare l’immaginazione senza mai risultare fuori posto. La gonna nera, al ginocchio, disegnava le gambe fasciate in collant velati e i tacchi medi scandivano il passo con naturale autorità. Un equilibrio perfetto tra rigore professionale ed eleganza che, per me, era semplicemente irresistibile.
Appena hai iniziato a parlare, la sala è diventata silenziosa. La tua voce era ferma, chiara, sicura, ogni concetto espresso con precisione. Non c’era esitazione né incertezza, solo padronanza totale di ciò che dicevi. Io, all’inizio, ho cercato di seguire il corso con la stessa attenzione degli altri, ma dopo pochi minuti ho capito che ero distratto: i miei occhi continuavano a correre su di te, sui tuoi gesti, sul modo in cui ti muovevi davanti allo schermo.
Cercavo di dissimulare, ma ogni tanto mi sorprendevo a fissarti troppo a lungo. Mi perdevo nelle tue gambe quando camminavi tra i tavoli per coinvolgere i partecipanti, oppure seguivo la curva dei tuoi fianchi quando ti chinavi appena per controllare le slide dal portatile. Eppure, non era solo attrazione fisica: mi colpiva il contrasto tra la serietà della tua spiegazione e il desiderio che, in silenzio, cresceva dentro di me.
Per farmi notare, ho iniziato a fare domande. All’inizio pertinenti, giusto per mantenere il tono professionale. Ma dietro la mia voce tranquilla, ogni parola era un tentativo di catturare la tua attenzione, di farti soffermare su di me un istante in più. E ogni volta che rispondevi, con calma e competenza, io annuivo, ma in realtà pensavo solo a quanto fosse eccitante vederti in quella posizione di controllo.
Più passavano i minuti, più i miei sguardi diventavano profondi. Non erano più quelli distratti di un alunno qualunque, ma di qualcuno che ti stava studiando, che cercava un varco, un cenno, qualsiasi cosa che mi dicesse che quell’elettricità che sentivo non era solo nella mia testa.
La mattinata è stata intensa, e non per gli argomenti trattati. Certo, spiegavi con sicurezza, con una competenza che catturava davvero l’attenzione, ma la verità è che io ero distratto da tutt’altro. Ogni tuo gesto, ogni volta che spostavi lo sguardo da un lato all’altro dell’aula, era per me motivo di fissarti con insistenza, forse troppo a lungo. Non potevo fare a meno di chiedermi se ti accorgessi, se percepissi quello sguardo più intenso degli altri.
Quando hai annunciato la pausa pranzo, mi sono mosso subito. Mi sono piazzato dietro di te in fila alla mensa, cercando di far sembrare casuale quel posizionamento, ma in realtà era l’unico posto in cui volevo essere. Il profumo leggero che lasciavi dietro di te mi stordiva.
Arrivati ai tavoli, ho puntato dritto: dovevo sedermi davanti a te. Non era un caso, non era destino: era pura scelta. Volevo averti di fronte, poterti osservare senza bisogno di girarmi. E così è stato. Mentre i colleghi chiacchieravano di lavoro e progetti, io mi ritrovavo a seguire con gli occhi ogni movimento delle tue mani sul bicchiere, ogni volta che portavi la forchetta alle labbra, ogni sorriso accennato a chi ti parlava.
Dentro di me ridevo: probabilmente nessuno degli altri notava nulla, ma io sapevo benissimo di star eccedendo. Ti stavo spogliando con lo sguardo, senza vergogna. E la domanda mi tormentava: “Te ne accorgi? O sei talmente assorta nella tua professionalità da ignorarmi del tutto?”.
Il pranzo è scivolato via, ma quella tensione è rimasta. Al rientro in aula, il clima era più lento, post-pranzo, ma io sentivo crescere dentro di me un’energia diversa.
Tu hai ricominciato con la stessa precisione di sempre, mentre io non facevo che fissarti. E allora ho iniziato a giocare da solo: ogni tua frase la leggevo in chiave ambigua, ogni termine tecnico lo caricavo mentalmente di doppi sensi, sorridendo tra me e me come un ragazzino al primo banco. Non ho detto nulla di esplicito, ovviamente, ma ogni volta che ti facevo una domanda — apparentemente innocente — la ponevo con un tono che lasciava spazio a un altro livello di interpretazione.
Il bello era proprio questo: il dubbio. Stavi cogliendo il mio gioco? O eri semplicemente ignara, immersa nella lezione? Il fatto di non saperlo mi eccitava più di qualsiasi contatto fisico.
La verità è che non riuscivo a distogliere lo sguardo da te. Tutto mi rapiva: il modo in cui la camicetta seguiva le curve del seno, le tue gambe accavallate che lasciavano intravedere la linea morbida delle cosce, il profilo del culo che intuivo appena quando ti alzavi dalla sedia. Era un’ossessione silenziosa, consumata dietro a un quaderno, ma che cresceva ora dopo ora, alimentata dalla tua stessa eleganza e dal fatto che tu, almeno in apparenza, restavi sempre impeccabile e irraggiungibile.
La sala riunioni si era svuotata lentamente. I colleghi avevano raccolto fogli e tazze di caffè, uno alla volta, lasciando dietro di sé soltanto il rumore sordo delle sedie spinte sotto il tavolo. Tu eri rimasta alla scrivania, assorta nella tua call con i colleghi collegati da remoto. La tua voce, calma e sicura, rimbalzava nella stanza vuota, scandita con quella fermezza che avevo ascoltato per ore.
Io non mi ero mosso. Ti osservavo da lontano, fingendo di sistemare i miei appunti, ma in realtà non riuscivo a staccare gli occhi da te. La giacca chiara ancora abbottonata, la camicetta leggermente aperta sul seno, la gonna che ti fasciava le cosce. Ogni dettaglio gridava rigore, ma a me arrivava solo come provocazione.
Mi sono alzato senza pensarci troppo, avvicinandomi alla tua scrivania, e alla fine mi sono seduto proprio accanto a te. Non avevo motivo per farlo, se non quella fame che ormai mi rodeva dentro. Hai voltato appena lo sguardo, sorpresa, ma hai continuato a parlare nella call. Io, intanto, ho mosso la mano verso di te, come a sfiorare la tua coscia.
Non ti ho neppure toccata: tu hai abbassato subito lo sguardo sulla mia mano, poi, silenziando il microfono con un clic secco.
«Che pensi di fare?» avevi sussurrato, con un tono freddo che voleva essere un freno, ma nei tuoi occhi avevo letto già qualcosa di diverso.
«Quello che sogno da stamattina» ti ho detto.
Avevi esitato un istante, ma non ti ho dato tempo di reagire: ti ho baciata. La tua bocca si era serrata per un secondo, dura, ma poi ti sei aperta. Le tue labbra si sono ammorbidite, la tua lingua ha risposto alla mia, e il tuo respiro caldo mi ha investito. Era il primo crollo.
Ti ho afferrata per la nuca, intensificando il bacio, e ho sentito le tue dita aggrapparsi alla mia camicia. Ti stavi difendendo e arrendendo allo stesso tempo.
Ti ho preso per la mano e ti ho trascinata verso il bagno. Non avevi protestato, solo passi rapidi, quasi nervosi, e il rumore secco dei tuoi tacchi che rimbombava nel corridoio.
Dentro, ho chiuso la porta e ti ho portata contro il lavandino. Il tuo corpo ha fatto un tonfo leggero contro il marmo, e ti ho baciata di nuovo, più affamato. Ti stringevo i fianchi, ti schiacciavo contro di me, e tu tremavi.
Le mie mani sono scivolate sulle tue cosce, sotto la gonna. Sentivo il tessuto liscio dei collant, caldo, teso. Ti ho trovato già calda, bagnata, anche se ti mordevi le labbra per non ammetterlo.
«Non dovrei…» hai sussurrato, ma mentre lo dicevi ti aprivi di più alle mie mani.
Ti ho abbassato le mutandine piano, lentamente, facendole scendere lungo le gambe fino a farle cadere a terra. Ti ho guardata negli occhi mentre lo facevo: era come strapparti via l’ultimo frammento di difesa.
Mi sono inginocchiato davanti a te, ti ho afferrata per i fianchi e ho messo la bocca su di te. Ho baciato le tue labbra umide, ho leccato a lungo il tuo clitoride, e ti ho sentita gemere. Le tue mani stringevano il bordo del lavandino con forza, e i tuoi fianchi si muovevano contro la mia lingua.
«Oh Dio…» hai sibilato, il respiro spezzato. Le tue gambe tremavano, i muscoli si contraevano, e poi ti ho sentita esplodere. Il tuo primo orgasmo mi è venuto addosso come un’ondata calda, il corpo che sobbalzava, il gemito che hai cercato di soffocare mordendoti la mano.
Non ti ho dato tregua. Ti ho sollevata sul lavandino, la schiena contro lo specchio, le gambe spalancate. Ti sono entrato con un colpo unico, profondo, e il tuo urlo soffocato ha riempito il bagno.
Ti scopavo forte, senza ritmo gentile, solo spinta dopo spinta. I tuoi seni si muovevano sotto la camicetta ormai aperta, le tue unghie mi graffiavano la schiena.
«Più forte» hai ansimato, e io ti ho preso in parola: ogni affondo ti faceva gemere più alto, ti faceva sbattere la testa contro lo specchio.
Le tue cosce mi stringevano, i tuoi piedi con i tacchi ancora addosso mi graffiavano i fianchi. Ti ho visto perdere completamente il controllo, la donna integra, la docente sicura, che si piegava davanti a me come una fiamma al vento.
Un orgasmo ti ha investita: il tuo corpo ha tremato, le tue unghie mi hanno lasciato segni sulla pelle, e i tuoi gemiti mi hanno riempito le orecchie. Poco dopo, il mio piacere è montato inarrestabile. Sono venuto dentro di te, forte, con un gemito spezzato, mentre le tue gambe mi serravano come catene e tu godevi ancora.
Siamo rimasti lì, sudati, ansimanti, incollati l’uno all’altra, con il rumore sordo dell’acqua che gocciolava dal rubinetto.
Poi, lentamente, ti sei sistemata. Hai raccolto le mutandine dal pavimento, hai riordinato la camicetta, lisciato la gonna. Ti sei guardata nello specchio, i capelli aggiustati in fretta, e ti sei trasformata di nuovo nella professionista impeccabile.
Mi hai rivolto un ultimo sguardo, glaciale e febbrile allo stesso tempo.
«Resta qui» mi hai detto, e sei uscita.
Un minuto dopo, la tua voce calma e professionale era tornata nella call, come se niente fosse successo. Ma io avevo ancora il tuo sapore sulle labbra, il tuo odore addosso, e sapevo di averti fatta crollare davvero.
Eri lì, in piedi davanti al proiettore, impeccabile. Indossavi una giacca chiara, taglio sartoriale, che scivolava addosso senza nascondere le forme. La camicetta era leggermente sbottonata, quanto bastava per stuzzicare l’immaginazione senza mai risultare fuori posto. La gonna nera, al ginocchio, disegnava le gambe fasciate in collant velati e i tacchi medi scandivano il passo con naturale autorità. Un equilibrio perfetto tra rigore professionale ed eleganza che, per me, era semplicemente irresistibile.
Appena hai iniziato a parlare, la sala è diventata silenziosa. La tua voce era ferma, chiara, sicura, ogni concetto espresso con precisione. Non c’era esitazione né incertezza, solo padronanza totale di ciò che dicevi. Io, all’inizio, ho cercato di seguire il corso con la stessa attenzione degli altri, ma dopo pochi minuti ho capito che ero distratto: i miei occhi continuavano a correre su di te, sui tuoi gesti, sul modo in cui ti muovevi davanti allo schermo.
Cercavo di dissimulare, ma ogni tanto mi sorprendevo a fissarti troppo a lungo. Mi perdevo nelle tue gambe quando camminavi tra i tavoli per coinvolgere i partecipanti, oppure seguivo la curva dei tuoi fianchi quando ti chinavi appena per controllare le slide dal portatile. Eppure, non era solo attrazione fisica: mi colpiva il contrasto tra la serietà della tua spiegazione e il desiderio che, in silenzio, cresceva dentro di me.
Per farmi notare, ho iniziato a fare domande. All’inizio pertinenti, giusto per mantenere il tono professionale. Ma dietro la mia voce tranquilla, ogni parola era un tentativo di catturare la tua attenzione, di farti soffermare su di me un istante in più. E ogni volta che rispondevi, con calma e competenza, io annuivo, ma in realtà pensavo solo a quanto fosse eccitante vederti in quella posizione di controllo.
Più passavano i minuti, più i miei sguardi diventavano profondi. Non erano più quelli distratti di un alunno qualunque, ma di qualcuno che ti stava studiando, che cercava un varco, un cenno, qualsiasi cosa che mi dicesse che quell’elettricità che sentivo non era solo nella mia testa.
La mattinata è stata intensa, e non per gli argomenti trattati. Certo, spiegavi con sicurezza, con una competenza che catturava davvero l’attenzione, ma la verità è che io ero distratto da tutt’altro. Ogni tuo gesto, ogni volta che spostavi lo sguardo da un lato all’altro dell’aula, era per me motivo di fissarti con insistenza, forse troppo a lungo. Non potevo fare a meno di chiedermi se ti accorgessi, se percepissi quello sguardo più intenso degli altri.
Quando hai annunciato la pausa pranzo, mi sono mosso subito. Mi sono piazzato dietro di te in fila alla mensa, cercando di far sembrare casuale quel posizionamento, ma in realtà era l’unico posto in cui volevo essere. Il profumo leggero che lasciavi dietro di te mi stordiva.
Arrivati ai tavoli, ho puntato dritto: dovevo sedermi davanti a te. Non era un caso, non era destino: era pura scelta. Volevo averti di fronte, poterti osservare senza bisogno di girarmi. E così è stato. Mentre i colleghi chiacchieravano di lavoro e progetti, io mi ritrovavo a seguire con gli occhi ogni movimento delle tue mani sul bicchiere, ogni volta che portavi la forchetta alle labbra, ogni sorriso accennato a chi ti parlava.
Dentro di me ridevo: probabilmente nessuno degli altri notava nulla, ma io sapevo benissimo di star eccedendo. Ti stavo spogliando con lo sguardo, senza vergogna. E la domanda mi tormentava: “Te ne accorgi? O sei talmente assorta nella tua professionalità da ignorarmi del tutto?”.
Il pranzo è scivolato via, ma quella tensione è rimasta. Al rientro in aula, il clima era più lento, post-pranzo, ma io sentivo crescere dentro di me un’energia diversa.
Tu hai ricominciato con la stessa precisione di sempre, mentre io non facevo che fissarti. E allora ho iniziato a giocare da solo: ogni tua frase la leggevo in chiave ambigua, ogni termine tecnico lo caricavo mentalmente di doppi sensi, sorridendo tra me e me come un ragazzino al primo banco. Non ho detto nulla di esplicito, ovviamente, ma ogni volta che ti facevo una domanda — apparentemente innocente — la ponevo con un tono che lasciava spazio a un altro livello di interpretazione.
Il bello era proprio questo: il dubbio. Stavi cogliendo il mio gioco? O eri semplicemente ignara, immersa nella lezione? Il fatto di non saperlo mi eccitava più di qualsiasi contatto fisico.
La verità è che non riuscivo a distogliere lo sguardo da te. Tutto mi rapiva: il modo in cui la camicetta seguiva le curve del seno, le tue gambe accavallate che lasciavano intravedere la linea morbida delle cosce, il profilo del culo che intuivo appena quando ti alzavi dalla sedia. Era un’ossessione silenziosa, consumata dietro a un quaderno, ma che cresceva ora dopo ora, alimentata dalla tua stessa eleganza e dal fatto che tu, almeno in apparenza, restavi sempre impeccabile e irraggiungibile.
La sala riunioni si era svuotata lentamente. I colleghi avevano raccolto fogli e tazze di caffè, uno alla volta, lasciando dietro di sé soltanto il rumore sordo delle sedie spinte sotto il tavolo. Tu eri rimasta alla scrivania, assorta nella tua call con i colleghi collegati da remoto. La tua voce, calma e sicura, rimbalzava nella stanza vuota, scandita con quella fermezza che avevo ascoltato per ore.
Io non mi ero mosso. Ti osservavo da lontano, fingendo di sistemare i miei appunti, ma in realtà non riuscivo a staccare gli occhi da te. La giacca chiara ancora abbottonata, la camicetta leggermente aperta sul seno, la gonna che ti fasciava le cosce. Ogni dettaglio gridava rigore, ma a me arrivava solo come provocazione.
Mi sono alzato senza pensarci troppo, avvicinandomi alla tua scrivania, e alla fine mi sono seduto proprio accanto a te. Non avevo motivo per farlo, se non quella fame che ormai mi rodeva dentro. Hai voltato appena lo sguardo, sorpresa, ma hai continuato a parlare nella call. Io, intanto, ho mosso la mano verso di te, come a sfiorare la tua coscia.
Non ti ho neppure toccata: tu hai abbassato subito lo sguardo sulla mia mano, poi, silenziando il microfono con un clic secco.
«Che pensi di fare?» avevi sussurrato, con un tono freddo che voleva essere un freno, ma nei tuoi occhi avevo letto già qualcosa di diverso.
«Quello che sogno da stamattina» ti ho detto.
Avevi esitato un istante, ma non ti ho dato tempo di reagire: ti ho baciata. La tua bocca si era serrata per un secondo, dura, ma poi ti sei aperta. Le tue labbra si sono ammorbidite, la tua lingua ha risposto alla mia, e il tuo respiro caldo mi ha investito. Era il primo crollo.
Ti ho afferrata per la nuca, intensificando il bacio, e ho sentito le tue dita aggrapparsi alla mia camicia. Ti stavi difendendo e arrendendo allo stesso tempo.
Ti ho preso per la mano e ti ho trascinata verso il bagno. Non avevi protestato, solo passi rapidi, quasi nervosi, e il rumore secco dei tuoi tacchi che rimbombava nel corridoio.
Dentro, ho chiuso la porta e ti ho portata contro il lavandino. Il tuo corpo ha fatto un tonfo leggero contro il marmo, e ti ho baciata di nuovo, più affamato. Ti stringevo i fianchi, ti schiacciavo contro di me, e tu tremavi.
Le mie mani sono scivolate sulle tue cosce, sotto la gonna. Sentivo il tessuto liscio dei collant, caldo, teso. Ti ho trovato già calda, bagnata, anche se ti mordevi le labbra per non ammetterlo.
«Non dovrei…» hai sussurrato, ma mentre lo dicevi ti aprivi di più alle mie mani.
Ti ho abbassato le mutandine piano, lentamente, facendole scendere lungo le gambe fino a farle cadere a terra. Ti ho guardata negli occhi mentre lo facevo: era come strapparti via l’ultimo frammento di difesa.
Mi sono inginocchiato davanti a te, ti ho afferrata per i fianchi e ho messo la bocca su di te. Ho baciato le tue labbra umide, ho leccato a lungo il tuo clitoride, e ti ho sentita gemere. Le tue mani stringevano il bordo del lavandino con forza, e i tuoi fianchi si muovevano contro la mia lingua.
«Oh Dio…» hai sibilato, il respiro spezzato. Le tue gambe tremavano, i muscoli si contraevano, e poi ti ho sentita esplodere. Il tuo primo orgasmo mi è venuto addosso come un’ondata calda, il corpo che sobbalzava, il gemito che hai cercato di soffocare mordendoti la mano.
Non ti ho dato tregua. Ti ho sollevata sul lavandino, la schiena contro lo specchio, le gambe spalancate. Ti sono entrato con un colpo unico, profondo, e il tuo urlo soffocato ha riempito il bagno.
Ti scopavo forte, senza ritmo gentile, solo spinta dopo spinta. I tuoi seni si muovevano sotto la camicetta ormai aperta, le tue unghie mi graffiavano la schiena.
«Più forte» hai ansimato, e io ti ho preso in parola: ogni affondo ti faceva gemere più alto, ti faceva sbattere la testa contro lo specchio.
Le tue cosce mi stringevano, i tuoi piedi con i tacchi ancora addosso mi graffiavano i fianchi. Ti ho visto perdere completamente il controllo, la donna integra, la docente sicura, che si piegava davanti a me come una fiamma al vento.
Un orgasmo ti ha investita: il tuo corpo ha tremato, le tue unghie mi hanno lasciato segni sulla pelle, e i tuoi gemiti mi hanno riempito le orecchie. Poco dopo, il mio piacere è montato inarrestabile. Sono venuto dentro di te, forte, con un gemito spezzato, mentre le tue gambe mi serravano come catene e tu godevi ancora.
Siamo rimasti lì, sudati, ansimanti, incollati l’uno all’altra, con il rumore sordo dell’acqua che gocciolava dal rubinetto.
Poi, lentamente, ti sei sistemata. Hai raccolto le mutandine dal pavimento, hai riordinato la camicetta, lisciato la gonna. Ti sei guardata nello specchio, i capelli aggiustati in fretta, e ti sei trasformata di nuovo nella professionista impeccabile.
Mi hai rivolto un ultimo sguardo, glaciale e febbrile allo stesso tempo.
«Resta qui» mi hai detto, e sei uscita.
Un minuto dopo, la tua voce calma e professionale era tornata nella call, come se niente fosse successo. Ma io avevo ancora il tuo sapore sulle labbra, il tuo odore addosso, e sapevo di averti fatta crollare davvero.
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