Il nostro primo incontro
di
Shadowline
genere
etero
Non ricordo esattamente quando avevamo iniziato a scriverci, ma ricordo benissimo la sensazione: quella curiosità che diventa abitudine, poi attesa, poi dipendenza. Ogni notifica era un battito in più. E ora ero lì, sul marciapiede davanti a Santa Maria Novella, con il cuore che pestava come se dovesse farsi riconoscere prima di lei.
Avevo immaginato quell’istante decine di volte, in mille versioni diverse: io che la riconosco subito, lei che mi sorride, o forse mi guarda con aria di sfida. E invece quando il treno si è fermato e la folla è scesa, è stato come vedere apparire un volto familiare in mezzo a tanti sconosciuti — familiare ma diverso, più vero, più tridimensionale, più intrigante.
Matilde aveva un cappotto beige, i capelli sciolti che le cadevano sulle spalle e uno sguardo che cercava, incerto ma luminoso. Mi ha visto, e per un istante entrambi abbiamo avuto la stessa esitazione: come si fa, dopo mesi di messaggi, a trasformare tutto in un gesto reale? Alla fine è bastato un sorriso. Non un abbraccio, non subito — solo un sorriso. Ma bastava.
Camminare accanto a lei è stato strano. Conoscevo, il suo modo di scrivere, la sua ironia, ma non sapevo come muoveva le mani quando parlava, come si illuminava quando rideva davvero. Le ho proposto un caffè, ma sapevo che entrambi volevamo solo prenderci tempo per guardarci, studiarci, capire se l’immaginazione aveva indovinato almeno in parte la realtà.
Abbiamo camminato lungo via Tornabuoni, poi verso l’Arno. Firenze sembrava sospesa — un pomeriggio limpido di marzo, la luce che scivolava sui palazzi e sulle pietre. “È strano vederti così”, ha detto lei, con un mezzo sorriso, quasi imbarazzata. “Anche per me”, le ho risposto. “È come se ti conoscessi da sempre e allo stesso tempo fossi una perfetta sconosciuta.” Ha riso piano, guardando altrove. Quella risata mi è entrata sotto pelle.
Ci siamo seduti sul muretto che costeggia il fiume. Lei ha raccontato del viaggio, del treno in ritardo, del marito che l’avrebbe raggiunta l’indomani, dei figli lasciati per un paio di giorni. Io ascoltavo, ma in realtà la mente correva altrove: mi chiedevo se anche lei sentisse quell’elettricità sottile, quella specie di corrente che attraversava ogni parola. Ogni tanto le nostre mani si sfioravano, e nessuno dei due sembrava farlo apposta, ma nessuno dei due ritraeva la propria.
Siamo rimasti così a lungo, a parlare del nulla, ma con la sensazione che sotto la superficie stesse succedendo qualcosa di enorme, come un fiume che scava lentamente sotto la roccia. Quando il sole è calato, le ho chiesto se voleva bere qualcosa prima di rientrare in hotel. “Solo un bicchiere”, ha detto. Ma entrambi sapevamo che non era il vino a importarci.
Il locale era piccolo, luci basse, tavoli in legno. Abbiamo continuato a parlare, a ridere, ma le parole cominciavano a svuotarsi, come se non servissero più. A un certo punto, senza che me ne accorgessi davvero, lei ha posato la mano sul tavolo, vicino alla mia. Non l’ho toccata subito. Ho lasciato passare qualche secondo, poi le dita si sono trovate. Non c’era nulla di esplicito, eppure tutto era già lì.
Fuori la città era quasi deserta. L’ho accompagnata fino all’albergo. Ci siamo fermati davanti all’ingresso, nessuno dei due riusciva a dire “buonanotte”. Lei mi ha guardato, poi ha detto piano: “Vuoi salire un momento? Solo un momento però.
”E lì il tempo si è fermato. In ascensore non abbiamo parlato. Le sue mani tremavano appena.
Ci siamo guardati, come se ci scoprissimo davvero per la prima volta. Il silenzio era pieno, denso, elettrico.E prima che potessi pensare, prima che potessi dire qualcosa, lei ha fatto un passo verso di me.
L’ascensore si è fermato con un piccolo sobbalzo, un suono metallico, poi le porte si sono aperte. Abbiamo camminato lungo il corridoio in silenzio, lei davanti, io dietro, seguendo il ritmo lento dei suoi passi e il profumo che lasciava nell’aria, una scia sottile di vaniglia e qualcosa di più intenso, forse nervosismo.
La stanza era semplice ma elegante. Un letto ampio, le tende chiuse, una luce calda accesa sul comodino. Si è tolta il cappotto con un gesto distratto, posandolo sulla sedia. Io non riuscivo a distogliere lo sguardo: non da qualcosa in particolare, ma da tutto, dal modo in cui occupava quello spazio, come se ogni dettaglio fosse una promessa non detta.
“Volevo solo ringraziarti per oggi,” ha detto, voltandosi. “Non pensavo sarebbe stato così… naturale.” Le ho sorriso, ma non ho risposto. Non serviva.
Mi sono avvicinato piano, mentre lei si spostava vicino alla finestra. Fuori, Firenze brillava appena, lontana, come se il mondo intero stesse trattenendo il respiro. Mi sono fermato a un passo da lei. Ho potuto vedere il battito del suo cuore sotto la stoffa sottile della camicia, il modo in cui il suo petto si sollevava appena più veloce.
Le nostre voci si sono fatte sempre più basse, fino quasi a sparire. Le distanze si sono sciolte, centimetro dopo centimetro. Le dita si sono sfiorate per un attimo, poi lei ha intrecciato le sue alle mie. Non c’era più ironia, più curiosità, solo quella vibrazione sospesa che avevamo trattenuto per mesi.
E a quel punto il silenzio ha fatto il resto. Lei ha sollevato il viso, gli occhi lucidi, e il mondo intorno è scomparso. Le mie mani hanno trovato la sua schiena, calda, viva, tremante. E quando le nostre labbra si sono sfiorate per la prima volta, è stato come se tutte le conversazioni, le attese, le sere dietro uno schermo si fossero fuse in quell’unico gesto. Un bacio timido all’inizio, esitante, come se dovessimo ancora abituarci alla realtà dell’altro. Ma presto si è trasformato in qualcosa di più profondo: le sue labbra morbide, calde, con un sapore di vino e di desiderio trattenuto. Le mie mani hanno scivolato lungo la sua schiena, sentendo la curva delicata della spina dorsale sotto la camicia leggera, mentre lei si premeva contro di me, il suo corpo che cedeva piano, come se ogni resistenza si dissolvesse nel calore del momento.
Ci siamo spostati verso il letto senza staccarci, i passi incerti, guidati solo dal tatto. Lei ha slacciato i bottoni della mia camicia con dita tremanti, esplorando la pelle del mio petto con una curiosità che mi ha fatto accelerare il cuore. Io ho fatto lo stesso con la sua, rivelando la pelle liscia e pallida, segnata da piccole lentiggini che non avevo mai immaginato, ma che ora sembravano parte di un segreto condiviso. Il suo reggiseno era semplice, di pizzo bianco, e quando l’ho slacciato, i suoi seni si sono liberati, morbidi e invitanti. Li ho baciati piano, tracciando con la lingua cerchi lenti intorno ai capezzoli, sentendola inarcare la schiena e emettere un sospiro soffocato, un suono che echeggiò nella stanza come una confessione.
Le sue mani hanno trovato la fibbia della mia cintura, armeggiando con impazienza finché i pantaloni non sono scivolati via. Io ho fatto scorrere le dita lungo i suoi fianchi, sotto l’orlo della gonna, sollevandola piano per scoprire le sue cosce, la sua intimità già calda e umida sotto le mutandine. Lei ha gemuto quando l’ho toccata lì, un tocco leggero all’inizio, poi più insistente, esplorando con le dita il suo calore, sentendola contrarsi intorno a me. “Non fermarti,” ha sussurrato, la voce rotta, e quelle parole mi hanno incendiato.
Ci siamo distesi sul letto, i corpi intrecciati in un groviglio di braccia e gambe. Lei si è posizionata sopra di me per un momento, i capelli che le cadevano sul viso come una cascata scura, gli occhi fissi nei miei mentre si abbassava piano, prendendomi dentro di sé con un movimento fluido, un’unione che ci ha fatto trattenere il fiato entrambi. Il ritmo è iniziato lento, quasi esitante, come se stessimo ancora scoprendo i confini dell’altro: le sue anche che ondeggiavano, il mio bacino che saliva a incontrarla, ogni spinta un rilascio di mesi di tensione accumulata. Le sue unghie hanno graffiato leggermente la mia schiena, lasciando tracce rosse che bruciavano piacevolmente, mentre io le stringevo i fianchi, guidandola più in profondità.
Il piacere è montato piano, come una marea, fino a diventare travolgente. Lei ha accelerato, i gemiti che si facevano più intensi, il suo corpo che si tendeva come un arco pronto a scoccare. L’ho sentita raggiungere l’apice per prima: un tremore che le ha percorso tutto il corpo, le labbra schiuse in un grido silenzioso, gli occhi chiusi mentre si abbandonava completamente. Io l’ho seguita poco dopo, un’onda di calore che mi ha travolto, crollando in un abbraccio esausto, la pelle sudata che si attaccava alla sua, i respiri che si sincronizzavano in un ritmo affannoso.
Siamo rimasti così per un tempo indefinito, avvolti nel silenzio della stanza, con solo il suono distante del traffico di Firenze a ricordarci che il mondo esisteva ancora fuori da quella bolla. C'erano parole, solo tocchi leggeri, baci pigri sul collo, una tenerezza postuma che sigillava ciò che era accaduto. Sapevamo entrambi che l’indomani sarebbe arrivato il marito, i figli, la vita reale con le sue complicazioni, ma in quel momento nulla importava. Eravamo solo noi, nudi e veri, in una stanza d’albergo che aveva ospitato il nostro segreto.
Avevo immaginato quell’istante decine di volte, in mille versioni diverse: io che la riconosco subito, lei che mi sorride, o forse mi guarda con aria di sfida. E invece quando il treno si è fermato e la folla è scesa, è stato come vedere apparire un volto familiare in mezzo a tanti sconosciuti — familiare ma diverso, più vero, più tridimensionale, più intrigante.
Matilde aveva un cappotto beige, i capelli sciolti che le cadevano sulle spalle e uno sguardo che cercava, incerto ma luminoso. Mi ha visto, e per un istante entrambi abbiamo avuto la stessa esitazione: come si fa, dopo mesi di messaggi, a trasformare tutto in un gesto reale? Alla fine è bastato un sorriso. Non un abbraccio, non subito — solo un sorriso. Ma bastava.
Camminare accanto a lei è stato strano. Conoscevo, il suo modo di scrivere, la sua ironia, ma non sapevo come muoveva le mani quando parlava, come si illuminava quando rideva davvero. Le ho proposto un caffè, ma sapevo che entrambi volevamo solo prenderci tempo per guardarci, studiarci, capire se l’immaginazione aveva indovinato almeno in parte la realtà.
Abbiamo camminato lungo via Tornabuoni, poi verso l’Arno. Firenze sembrava sospesa — un pomeriggio limpido di marzo, la luce che scivolava sui palazzi e sulle pietre. “È strano vederti così”, ha detto lei, con un mezzo sorriso, quasi imbarazzata. “Anche per me”, le ho risposto. “È come se ti conoscessi da sempre e allo stesso tempo fossi una perfetta sconosciuta.” Ha riso piano, guardando altrove. Quella risata mi è entrata sotto pelle.
Ci siamo seduti sul muretto che costeggia il fiume. Lei ha raccontato del viaggio, del treno in ritardo, del marito che l’avrebbe raggiunta l’indomani, dei figli lasciati per un paio di giorni. Io ascoltavo, ma in realtà la mente correva altrove: mi chiedevo se anche lei sentisse quell’elettricità sottile, quella specie di corrente che attraversava ogni parola. Ogni tanto le nostre mani si sfioravano, e nessuno dei due sembrava farlo apposta, ma nessuno dei due ritraeva la propria.
Siamo rimasti così a lungo, a parlare del nulla, ma con la sensazione che sotto la superficie stesse succedendo qualcosa di enorme, come un fiume che scava lentamente sotto la roccia. Quando il sole è calato, le ho chiesto se voleva bere qualcosa prima di rientrare in hotel. “Solo un bicchiere”, ha detto. Ma entrambi sapevamo che non era il vino a importarci.
Il locale era piccolo, luci basse, tavoli in legno. Abbiamo continuato a parlare, a ridere, ma le parole cominciavano a svuotarsi, come se non servissero più. A un certo punto, senza che me ne accorgessi davvero, lei ha posato la mano sul tavolo, vicino alla mia. Non l’ho toccata subito. Ho lasciato passare qualche secondo, poi le dita si sono trovate. Non c’era nulla di esplicito, eppure tutto era già lì.
Fuori la città era quasi deserta. L’ho accompagnata fino all’albergo. Ci siamo fermati davanti all’ingresso, nessuno dei due riusciva a dire “buonanotte”. Lei mi ha guardato, poi ha detto piano: “Vuoi salire un momento? Solo un momento però.
”E lì il tempo si è fermato. In ascensore non abbiamo parlato. Le sue mani tremavano appena.
Ci siamo guardati, come se ci scoprissimo davvero per la prima volta. Il silenzio era pieno, denso, elettrico.E prima che potessi pensare, prima che potessi dire qualcosa, lei ha fatto un passo verso di me.
L’ascensore si è fermato con un piccolo sobbalzo, un suono metallico, poi le porte si sono aperte. Abbiamo camminato lungo il corridoio in silenzio, lei davanti, io dietro, seguendo il ritmo lento dei suoi passi e il profumo che lasciava nell’aria, una scia sottile di vaniglia e qualcosa di più intenso, forse nervosismo.
La stanza era semplice ma elegante. Un letto ampio, le tende chiuse, una luce calda accesa sul comodino. Si è tolta il cappotto con un gesto distratto, posandolo sulla sedia. Io non riuscivo a distogliere lo sguardo: non da qualcosa in particolare, ma da tutto, dal modo in cui occupava quello spazio, come se ogni dettaglio fosse una promessa non detta.
“Volevo solo ringraziarti per oggi,” ha detto, voltandosi. “Non pensavo sarebbe stato così… naturale.” Le ho sorriso, ma non ho risposto. Non serviva.
Mi sono avvicinato piano, mentre lei si spostava vicino alla finestra. Fuori, Firenze brillava appena, lontana, come se il mondo intero stesse trattenendo il respiro. Mi sono fermato a un passo da lei. Ho potuto vedere il battito del suo cuore sotto la stoffa sottile della camicia, il modo in cui il suo petto si sollevava appena più veloce.
Le nostre voci si sono fatte sempre più basse, fino quasi a sparire. Le distanze si sono sciolte, centimetro dopo centimetro. Le dita si sono sfiorate per un attimo, poi lei ha intrecciato le sue alle mie. Non c’era più ironia, più curiosità, solo quella vibrazione sospesa che avevamo trattenuto per mesi.
E a quel punto il silenzio ha fatto il resto. Lei ha sollevato il viso, gli occhi lucidi, e il mondo intorno è scomparso. Le mie mani hanno trovato la sua schiena, calda, viva, tremante. E quando le nostre labbra si sono sfiorate per la prima volta, è stato come se tutte le conversazioni, le attese, le sere dietro uno schermo si fossero fuse in quell’unico gesto. Un bacio timido all’inizio, esitante, come se dovessimo ancora abituarci alla realtà dell’altro. Ma presto si è trasformato in qualcosa di più profondo: le sue labbra morbide, calde, con un sapore di vino e di desiderio trattenuto. Le mie mani hanno scivolato lungo la sua schiena, sentendo la curva delicata della spina dorsale sotto la camicia leggera, mentre lei si premeva contro di me, il suo corpo che cedeva piano, come se ogni resistenza si dissolvesse nel calore del momento.
Ci siamo spostati verso il letto senza staccarci, i passi incerti, guidati solo dal tatto. Lei ha slacciato i bottoni della mia camicia con dita tremanti, esplorando la pelle del mio petto con una curiosità che mi ha fatto accelerare il cuore. Io ho fatto lo stesso con la sua, rivelando la pelle liscia e pallida, segnata da piccole lentiggini che non avevo mai immaginato, ma che ora sembravano parte di un segreto condiviso. Il suo reggiseno era semplice, di pizzo bianco, e quando l’ho slacciato, i suoi seni si sono liberati, morbidi e invitanti. Li ho baciati piano, tracciando con la lingua cerchi lenti intorno ai capezzoli, sentendola inarcare la schiena e emettere un sospiro soffocato, un suono che echeggiò nella stanza come una confessione.
Le sue mani hanno trovato la fibbia della mia cintura, armeggiando con impazienza finché i pantaloni non sono scivolati via. Io ho fatto scorrere le dita lungo i suoi fianchi, sotto l’orlo della gonna, sollevandola piano per scoprire le sue cosce, la sua intimità già calda e umida sotto le mutandine. Lei ha gemuto quando l’ho toccata lì, un tocco leggero all’inizio, poi più insistente, esplorando con le dita il suo calore, sentendola contrarsi intorno a me. “Non fermarti,” ha sussurrato, la voce rotta, e quelle parole mi hanno incendiato.
Ci siamo distesi sul letto, i corpi intrecciati in un groviglio di braccia e gambe. Lei si è posizionata sopra di me per un momento, i capelli che le cadevano sul viso come una cascata scura, gli occhi fissi nei miei mentre si abbassava piano, prendendomi dentro di sé con un movimento fluido, un’unione che ci ha fatto trattenere il fiato entrambi. Il ritmo è iniziato lento, quasi esitante, come se stessimo ancora scoprendo i confini dell’altro: le sue anche che ondeggiavano, il mio bacino che saliva a incontrarla, ogni spinta un rilascio di mesi di tensione accumulata. Le sue unghie hanno graffiato leggermente la mia schiena, lasciando tracce rosse che bruciavano piacevolmente, mentre io le stringevo i fianchi, guidandola più in profondità.
Il piacere è montato piano, come una marea, fino a diventare travolgente. Lei ha accelerato, i gemiti che si facevano più intensi, il suo corpo che si tendeva come un arco pronto a scoccare. L’ho sentita raggiungere l’apice per prima: un tremore che le ha percorso tutto il corpo, le labbra schiuse in un grido silenzioso, gli occhi chiusi mentre si abbandonava completamente. Io l’ho seguita poco dopo, un’onda di calore che mi ha travolto, crollando in un abbraccio esausto, la pelle sudata che si attaccava alla sua, i respiri che si sincronizzavano in un ritmo affannoso.
Siamo rimasti così per un tempo indefinito, avvolti nel silenzio della stanza, con solo il suono distante del traffico di Firenze a ricordarci che il mondo esisteva ancora fuori da quella bolla. C'erano parole, solo tocchi leggeri, baci pigri sul collo, una tenerezza postuma che sigillava ciò che era accaduto. Sapevamo entrambi che l’indomani sarebbe arrivato il marito, i figli, la vita reale con le sue complicazioni, ma in quel momento nulla importava. Eravamo solo noi, nudi e veri, in una stanza d’albergo che aveva ospitato il nostro segreto.
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