Scoparsi la giornalista

di
genere
etero


Quando sei arrivata a casa mia, ho capito subito che non sarebbe stata una semplice intervista.
Il taxi ti aveva lasciata davanti al cancello, e tu ti eri presentata con l’eleganza sobria e controllata di chi vuole essere presa sul serio: tailleur scuro, camicetta bianca che lasciava solo intuire le forme, tacchi discreti, il registratore già pronto in mano.

Ti ho accolto nello studio. Le librerie, piene fino a traboccare, il tavolo antico in noce lucidato di recente, due poltrone in pelle vissuta disposte una di fronte all’altra. La luce del pomeriggio filtrava morbida dalle tende pesanti, e c’era odore di carta e vino nell’aria.
«È qui che scrive i suoi romanzi?» hai chiesto, cercando subito di rompere il ghiaccio con una domanda neutra.
«Qui vivo più che scrivere» ho risposto, accennando un sorriso.

Ti sei seduta composta, il busto dritto, le gambe accavallate. Hai posato il registratore sul tavolo con un gesto deciso, come a dire: sono qui per lavorare, niente distrazioni.

Ho aperto una bottiglia di rosso e ho versato due bicchieri. Te ne ho porto uno.
Hai scosso la testa. «No grazie, preferisco restare lucida.»
La voce era ferma, ma i tuoi occhi avevano seguito il vino versato, e per un istante il tuo sguardo si era fatto più morbido.

Le domande sono arrivate fitte, ordinate. Mi chiedi dei miei romanzi, dei personaggi, del successo, del premio imminente. Io rispondevo, ma ogni tanto infilavo una battuta, una provocazione leggera, solo per farti reagire. Tu sorridevi appena, poi subito tornavi seria, quasi a rimproverarti da sola di aver ceduto a quella distrazione.

A un certo punto, hai segnato qualcosa sul taccuino, e ho colto il nervosismo nel modo in cui la tua caviglia si muoveva, oscillando avanti e indietro.
«Sai qual è il problema delle interviste?» ti ho detto, con tono basso, più confidenziale. «Restano troppo razionali. La verità si mostra solo quando si smette di controllare.»
Hai sollevato lo sguardo, sorpresa. «E lei pensa che io stia controllando?»
«So che lo stai facendo. Ma so anche che non durerà.»

Hai alzato il bicchiere che avevi rifiutato prima. «Solo un sorso, allora. Ma non pensi di farmi dire cose che non voglio dire.»
«Non ti farò dire nulla» ho sorriso. «Ti farò sentire.»

Hai bevuto piano, e il vino ti è rimasto sulle labbra lucide. Non le ho baciate subito, anche se la tentazione era lì. Ho lasciato che il silenzio diventasse pesante, che la tensione ti scavasse dentro.

Per lunghi minuti hai continuato con le domande, ostinandoti a mantenere il tono professionale. Ma io mi ero già alzato dalla mia poltrona, sedendomi di lato, più vicino. Non mi guardavi dritto, fissavi il taccuino, il registratore, tutto pur di evitare i miei occhi. Ogni tanto, però, lo sguardo ti scappava, e ti tradiva.

Ho lasciato scivolare la mia mano verso la tua, sfiorandoti appena le dita. Hai scosso la testa, ma non ti sei ritratta.
«Non dovrei» hai mormorato.
«Allora dimmi di fermarmi.»
Hai stretto più forte il bicchiere, senza dire nulla.

Il bacio non è arrivato subito. Ho aspettato. Ti ho lasciata nel tuo silenzio carico di battiti accelerati. Poi, piano, ho avvicinato il volto al tuo. Le tue labbra tremavano.
«Non è professionale» hai sussurrato, ancora una volta.
«È inevitabile» ho risposto.
E ti ho baciata.

All’inizio hai resistito, le labbra serrate, le mani ancora sul registratore come se fosse un’àncora. Poi, poco a poco, ti sei sciolta. La tua bocca ha ceduto, la lingua ha incontrato la mia, e il tuo respiro si è fatto irregolare.

Quando ti sei staccata, ansimavi. «Basta…»
Ma le tue mani si erano aggrappate alla mia camicia.

Ti ho sollevata piano dalla poltrona e ti ho fatta indietreggiare fino al tavolo. Il registratore è rimasto acceso, un testimone muto. Ti ho spinta dolcemente contro il legno, e tu hai lasciato che la mia bocca scendesse sul tuo collo, mentre un brivido ti scuoteva.

Ho slacciato lentamente la tua camicetta, uno a uno i bottoni, scoprendo il reggiseno sotto, semplice ma teso sulle tue forme. Le tue mani si muovevano incerte: mi respingevano un istante, poi mi attiravano a te con forza.

Quando ti ho fatto sedere sul bordo del tavolo, le tue gambe si sono divaricate quasi senza che tu lo volessi. Le ho accarezzate sopra i collant, sentendo i tuoi muscoli tendersi e rilassarsi a ogni mio tocco. Poi la mia mano è scivolata più in alto, e tu hai gemuto piano, voltando il volto di lato, come se volessi nasconderti dal tuo stesso desiderio.

«Dimmi di fermarmi» ti ho sussurrato ancora.
«Non… non posso» hai risposto, e quello è stato il tuo vero cedimento.

Il resto è stato un crescendo. Ho sollevato la tua gonna, ho fatto scivolare le dita sotto il bordo dei collant, fino a trovarti calda, già pronta. Hai chiuso gli occhi, mordendoti le labbra, mentre ti accarezzavo senza smettere di guardarti.

Ti ho sfilato le mutandine lentamente, lasciandole cadere a terra. Hai tentato un ultimo gesto di resistenza, ma le tue gambe si sono aperte di più, tradendo la tua volontà.

Ti ho baciata lì, a lungo, con la lingua che esplorava e assaporava. Le tue mani si aggrappavano al tavolo, poi ai miei capelli, tirando forte, guidandomi. Hai gemuto, prima piano, poi più forte, mentre il tuo corpo tremava contro il legno.

Quando sei esplosa nel primo orgasmo, il tuo grido si è perso nella stanza ovattata, e io ti ho tenuta ferma, continuando a baciarti lì finché non ti sei piegata in avanti, senza più fiato.

Poi ti ho preso, lì, sul tavolo. Un colpo netto, profondo, e il tuo corpo mi ha accolto con un sussulto. Hai affondato le unghie nelle mie spalle, graffiandomi, mentre io affondavo dentro di te con spinte sempre più forti. Ogni tuo «no» era seguito da un gemito spezzato che diceva l’opposto.

Abbiamo perso la misura del tempo. Il tavolo scricchiolava sotto i nostri movimenti, i bicchieri tremavano, e ogni colpo era più forte del precedente. Tu gridavi il mio nome, annullando ogni distanza, ogni regola.

Il tuo secondo orgasmo è arrivato improvviso, violento, con le tue gambe che mi serravano come catene. Io ti ho seguito subito dopo, colando dentro di te, mentre il tuo corpo continuava a tremare, esausto.

Siamo rimasti un attimo immobili, sudati, ansimanti, fino a quando tu hai riaperto gli occhi, confusa e arrossata. Ti sei ricomposta in fretta, allacciando la camicetta, rimettendo a posto la giacca. Hai raccolto il registratore, evitando il mio sguardo.

«Questa parte non finirà mai nell’articolo» hai detto, con un filo di voce.
Ho sorriso, accendendo una sigaretta.
«Peccato. Sarebbe stato il miglior pezzo.»
scritto il
2025-09-29
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