La nascita di Marika 7
di
Marika Traves Dressi
genere
trans
La nascita di Marika 7
La personalità di Marco 2
Era il mio primo anno di liceo quando conobbi Fabrizio. La nostra amicizia nacque in modo piuttosto inaspettato, dopo un acceso scambio di vedute mentre giocavamo a basket in palestra. Ci fu uno scontro davanti a tutti, ma, sorprendentemente, riuscimmo poi a chiarire tra noi. Fu proprio questo episodio a gettare le basi della nostra profonda amicizia. Fabrizio era un ragazzo dal carattere forte, a tratti dominante; non aveva paura di nessuno e molti lo temevano per il suo passato, già segnato da qualche problema con la giustizia. Con me, però, era leale e fraterno, e questo apprezzavo. Mi lasciai trascinare in diverse storie che rasentavano il limite, ritrovandomi spesso a fianco a lui in scontri fisici per i motivi più disparati: dalla politica allo sport, ogni pretesto era buono per arrivare alle mani. Fu con lui che cominciai a frequentare lo stadio e alcuni ambienti politici di estrema destra. La politica, in sé, non mi interessava affatto; lo seguivo solo perché eravamo amici, e lui aveva un'influenza notevole su di me. L'onda lunga di quell'influenza continuò a portarmi sempre più addentro in un mondo che, in fondo, non era il mio. Le domeniche allo stadio divennero un rito, un luogo dove il tifo si trasformava spesso in scontro, e io, quasi per inerzia, mi ritrovavo in prima linea, più per fedeltà a Fabrizio che per convinzione personale. Le discussioni sui fatti di cronaca, spesso filtrate attraverso una lente ideologica che non mi apparteneva, diventavano il terreno fertile per nuove tensioni. A volte, mi sentivo un estraneo in mezzo a parole e gesti che sembravano appartenere a un codice che non riuscivo a decifrare del tutto, ma l'amicizia con Fabrizio, quel suo modo di essere così sicuro di sé e protettivo nei miei confronti, mi impediva di farmi da parte. Ero giovane, ingenuo, e la forza della sua personalità mi avvolgeva come una coperta, offrendomi un senso di appartenenza che, forse, cercavo senza saperlo.
Fu in quel periodo, mentre mi dibattevo tra il fascino pericoloso dell'estremismo e la lealtà incrollabile verso Fabrizio, che nella mia vita fece irruzione Katia. L'incontrai per caso, in un bar del centro, un pomeriggio qualsiasi. Lei era diversa da chiunque avessi conosciuto fino ad allora: solare, con un sorriso che sapeva di speranza e un modo di parlare che mi catturò all'istante. Non c'era traccia di rabbia o di sfida nei suoi occhi, solo una curiosità genuina e una leggerezza che contrastava con il peso che spesso sentivo sulle spalle. Le nostre conversazioni fluirono con una naturalezza disarmante. Mi raccontava dei suoi sogni, delle sue passioni, di un mondo fatto di libri, musica e progetti per il futuro, e io, per la prima volta da tempo, mi sentivo me stesso, senza filtri o maschere. Iniziò così una nuova fase, quella in cui Katia diventò la mia ragazza. Con lei, il mondo di Fabrizio, con i suoi rumori e le sue tensioni, cominciò a sbiadire in sottofondo. Era come se un raggio di sole avesse squarciato la foschia, illuminando un percorso diverso, più sereno, pieno di promesse. Sentivo di aver trovato un'ancora, qualcuno che mi ricordava che esisteva una realtà al di là degli scontri e delle ideologie, una realtà in cui era possibile respirare a pieni polmoni. La presenza di Katia nella mia vita portava con sé un'aria nuova, un'ebbrezza che non avevo mai provato. Il legame che si stava creando tra noi era fatto di complicità, di risate, di lunghe passeggiate in cui le nostre mani si sfioravano, accendendo scintille sottili. Le serate trascorse con lei erano un antidoto alla frenesia che avevo fino a quel momento conosciuto; le sue parole mi disarmavano, mi facevano scoprire lati di me che avevo dimenticato o forse mai conosciuto.
Una sera, dopo averla accompagnata a casa, l'aria si fece più densa di attesa. Ci guardammo, e in quello sguardo c'era tutta la dolcezza, la timidezza e il desiderio che avevano maturato tra noi in quelle settimane. Le parole sembravano superflue. Fu un gesto quasi impercettibile, un suo avvicinarsi, un mio ritorno a stringerla, a suggellare l'inizio di qualcosa di più intimo. Entrammo nel suo piccolo appartamento, e il mondo fuori, con i suoi echi di scontri e le voci di Fabrizio, sembrò dissolversi. C'era solo il silenzio ovattato delle stanze, il battito accelerato dei nostri cuori, il profumo dei suoi capelli. Non c'era fretta, solo la scoperta reciproca, lenta e delicata. Ogni bacio era una promessa sussurrata, ogni carezza un'esplorazione tenera. Senza una parola, ci buttammo l'uno sull'altra. I nostri vestiti volarono via, le nostre mani avide che si cercarono, si toccarono, si strinsero. I suoi capezzoli erano già duri, la sua fica gocciolava per l'attesa. Le sue labbra divorarono le mie, le mie mani esplorarono ogni curva del suo corpo, stuzzicando la sua fica già bollente, la penetrai con una forza incredibile, con spinte profonde, ritmiche, che la facevano gemere senza controllo. Si aggrappo alle mie spalle, mentre la sua fica stringeva ogni millimetro del mio cazzo. Si mosse con me, in una sintonia perfetta, il suo corpo che rispondeva a ogni mia spinta con una libidine che sapeva di amore, fino a raggiungere il piacere, un orgasmo intenso, fu un'esplosione di piacere, la riempivo con il mio sperma caldo che gocciolava dalla sua fica ad ogni estrazione, bagnando le nostre cosce unite. I suoi baci erano ovunque, mentre mi accarezzava.
Quel pomeriggio fu un vortice di emozioni, un sesso che andava oltre il corpo, che coinvolgeva l'anima. Il mondo esterno era definitivamente scomparso, ridotto a un lontano brusio inudibile. C'eravamo solo noi, immersi in quel vortice di sensazioni, uniti in un abbraccio che sembrava contenere la promessa di ogni bellezza e di ogni tenerezza, ci ritrovammo stremati, legati da quell'esperienza, con la consapevolezza di aver varcato una soglia importante, uniti non solo da un legame d'affetto, ma da un'intimità fisica che consolidava tutto ciò che stavamo costruendo.Nei giorni successivi, la dolcezza di Katia divenne il mio rifugio. Ogni istante trascorso con lei era un balsamo per l'anima, un invito a vedere il mondo con occhi più limpidi. Mi faceva sentire protetto, amato, desiderato per quello che ero, senza filtri, senza giudizi. Il nostro rapporto era un'oasi di serenità in mezzo a un mare di incertezze, e io, attratto da quella calma apparente, rischiavo di dimenticare le acque più torbide da cui venivo. Eppure, ogni volta che il telefono squillava, o che un messaggio di Fabrizio mi avvisava di un nuovo appuntamento, una sottile inquietudine mi saliva. Fabrizio, il mio amico, quello che mi aveva accolto nel suo mondo, che mi aveva fatto sentire forte e protetto con la sua lealtà incondizionata. Era come se due poli opposti della mia vita stessero lottando per la mia attenzione, per la mia lealtà.
Da un lato c'era Katia, la promessa di un futuro radioso, un amore puro che mi spingeva verso una versione migliore di me stesso. Dall'altro c'era Fabrizio, la radice dei miei legami, l'amicizia che mi aveva plasmato, che mi aveva insegnato a difendermi, anche se in modi discutibili. Mi ritrovavo diviso, attratto da una sponda di serenità e fedeltà che non avrei mai pensato potesse esistere, ma contemporaneamente legato a un passato turbolento, a un'amicizia che, nonostante tutto, sentivo di non poter tradire. Le serate con Katia erano piene di risate e progetti, mentre quelle con Fabrizio, spesso, finivano con il rumore degli scontri, con la sensazione di un pericolo imminente. E io, nel mezzo, cercavo disperatamente di mantenere un equilibrio precario, temendo di dover scegliere, di dover deludere qualcuno, o peggio, di deludere me stesso.La dualità che sentivo dentro di me si rifletteva nelle mie uscite. Le domeniche allo stadio, in particolare, diventavano un campo di battaglia non solo tra le tifoserie, ma anche dentro di me. Fabrizio, con la sua solita energia travolgente, mi trascinava nel vortice del tifo più acceso, tra cori urlati e provocazioni che sfioravano il limite. Io, mentre cercavo di mantenere un certo distacco, mi ritrovavo spesso stretto nella morsa del gruppo, gli occhi puntati su di lui, quasi a cercare una conferma del mio posto lì.
In una di queste domeniche, l'atmosfera si fece particolarmente tesa. Una coreografia di ultrà particolarmente aggressiva scatenò una reazione furiosa da parte dei tifosi avversari. Il settore che occupavamo divenne un focolaio di caos. Volavano insulti, spintoni, e ben presto la situazione degenerò in uno scontro fisico generalizzato.
Fabrizio, come sempre, era al centro dell'azione, la sua figura imponente un faro nella confusione. Io, più defilato, cercavo di non farmi trascinare troppo oltre, ma la vicinanza era inevitabile. In quel frangente, la polizia, che aveva presidiato l'area, intervenne con decisione. Le sirene urlarono, le divise si mossero rapide tra la folla.
Fu in quel momento concitato che vidi Fabrizio venire afferrato con forza da due agenti. Cercò di divincolarsi, gridando, ma era inutile. Pochi istanti dopo, vidi anche me stesso circondato. Mi fecero cenno di allontanarmi, di non creare problemi, ma il panico mi assalì quando vidi uno degli agenti puntare un dito verso di me, con un tono autoritario: "Tu, con lui."
Sentii un gelo attraversarmi la schiena. Non ero pronto. Non avevo fatto nulla di concreto, ero solo lì, con Fabrizio. Eppure, mi trovai a essere fermato, insieme a lui, mentre intorno a noi si disperdeva la folla, lasciando solo il rumore delle sirene e il pugno serrato di Fabrizio che mi guardava, incredulo e con una punta di rabbia negli occhi. La dolcezza di Katia e la serenità che mi aveva trasmesso sembravano improvvisamente lontanissime, quasi un sogno irraggiungibile. Il fermo fu un'esperienza surreale e umiliante. Ci portarono in questura, dove fummo separati e interrogati. Le domande erano pressanti, ma io rispondevo con la verità, spiegando di essere lì solo per amicizia, che non avevo partecipato attivamente agli scontri. Fabrizio, dal canto suo, mantenne il suo solito atteggiamento sprezzante, ma anche lui, fortunatamente, non si inimicò completamente gli agenti. Alla fine, dopo ore che sembravano eterne, ci comunicarono che saremmo stati denunciati a piede libero. Un sollievo amaro, perché sapevamo che le conseguenze, anche se non penali nell'immediato, sarebbero state pesanti.
La chiamata ai miei genitori fu la parte peggiore. Il tono preoccupato di mia madre, l'incredulità e la delusione nella voce di mio padre quando appresero dove mi avevano trovato, furono un pugno nello stomaco. L'indomani, mi ritrovarono ad aspettarli sulla soglia di casa, un groviglio di vergogna e stanchezza. Il discorso che ne seguì fu doloroso. Tra silenzi tesi e accuse sussurrate, mi affrontarono con la loro apprensione, con la paura di vedermi scivolare in un mondo che non approvavano. Mio padre, con la sua solita calma severa, mi fece capire che quella era l'ultima occasione. Mi guardò negli occhi, con una tristezza che mi fece sentire ancora più colpevole, e mi disse che la mia vita era mia, ma che le scelte avevano delle conseguenze, e che io dovevo imparare a farle con più saggezza. Sentivo il peso delle loro parole, il senso di colpa per averli preoccupati e delusi. Ma la cosa che mi tormentava di più era il pensiero di Fabrizio. Tornato a casa, esausto, lo chiamai. La sua voce, al telefono, era più pacata del solito, priva della sua solita arroganza. Ci accordammo per vederci, in un luogo neutro, lontano da occhi indiscreti.
Quando ci trovammo, l'imbarazzo iniziale fu palpabile. Lo scontro allo stadio e il fermo avevano gettato un'ombra sulla nostra amicizia. "Mi dispiace," esordii, la voce incrinata. "Non avrei dovuto esserci."
Fabrizio mi guardò a lungo, poi sospirò. "E io mi dispiace per aver messo anche te in quella situazione," disse, con una sincerità che mi sorprese. "A volte perdo il controllo, lo so. Ma con te... con te mi sento diverso. Ti rispetto troppo per volerti vedere nei guai."
Fu un chiarimento sincero, liberatorio. Per la prima volta, sentii che Fabrizio riconosceva il peso delle sue azioni e l'impatto che avevano su di me. Mi disse che a volte il suo modo di dimostrare amicizia era proprio quello di proteggermi dai pericoli, anche se il suo modo di farlo era, a suo modo, pericoloso. Capii che, nonostante tutto, la lealtà che ci legava era forte, ma che dovevamo entrambi imparare a gestirla con più responsabilità. Quel giorno, si aprì una nuova prospettiva nella nostra amicizia, una che, forse, poteva iniziare a fare i conti con le conseguenze delle nostre scelte. La reazione di Katia al mio fermo fu un misto di incredulità, paura e, in fondo, una profonda delusione. Quando le raccontai l'accaduto, il suo volto si fece pallido, i suoi occhi si riempirono di una tristezza che mi trafisse. Mi strinse forte, tremando, come se avesse paura di perdermi.
Nei giorni successivi, notai un cambiamento sottile nel suo atteggiamento. Era ancora affettuosa, ma una sottile ombra di preoccupazione aleggiava tra noi. Una sera, mentre eravamo seduti a cena, mi guardò con la serietà che solo lei sapeva infondere nei suoi sguardi e disse: "Non posso continuare così. Non posso vivere nella costante paura che ti succeda qualcosa, che tu ti cacci nei guai." Poi arrivò la domanda, quella che temevo più di ogni altra: "Devi scegliere. Non puoi continuare a dividerti tra questo mondo, quello di Fabrizio, e noi. Non posso. Non ti voglio perdere, ma non posso nemmeno accettare che la tua vita sia un continuo rischio."
Sentii il terreno tremare sotto i piedi. L'idea di dover scegliere tra Katia, il mio amore, la mia speranza, e Fabrizio, l'amico fraterno che mi aveva introdotto in quel complesso mondo, mi paralizzò. La dolcezza di Katia, il suo desiderio di un futuro sereno, si scontravano brutalmente con la lealtà e il senso di debito che provavo verso Fabrizio.
Nel frattempo, anche i miei genitori non avevano smesso di manifestare la loro preoccupazione. Oltre al fermo di polizia, erano i miei voti a destare allarme. Le mie assenze, la distrazione, il rendimento scolastico che precipitava, erano sintomi evidenti di una vita che stava prendendo una piega pericolosa. Mio padre, in particolare, mi ricordava continuamente l'importanza di un buon futuro, di un percorso di studi che mi avrebbe aperto delle porte. Mi parlava con il peso della sua esperienza, con la speranza che io non commettessi gli stessi errori, o che non mi lasciassi trascinare in vicoli ciechi. La loro preoccupazione, seppur carica di rammarico, mi faceva sentire ancora più solo. Ero intrappolato tra le richieste di chi mi amava e mi voleva al sicuro, e il richiamo di un'amicizia che, nonostante tutto, sentivo ancora forte. La scelta che mi si presentava era lacerante, e il peso di ogni possibile decisione mi schiacciava.In mezzo a questo turbinio di tensioni, mio padre decise che era ora di un intervento più deciso. Una sera, dopo aver visionato il mio pagellino, con un misto di rassegnazione e fermezza, mi disse: "Senti, ragazzo mio, così non si può andare avanti. I guai con la giustizia e la scuola che va a rotoli sono un campanello d'allarme troppo forte. Voglio che ti concentri su te stesso, sul tuo futuro."
Poi, con un tono quasi definitivo, aggiunse: "Domani mattina vai a scuola. Ma non solo per assistere alle lezioni. Vai da Piero, il professor Rossi. È uno dei tuoi professori, un uomo di principi. Parla con lui, spiegagli la situazione. Chiedigli se può darti una mano, se può aiutarti a recuperare il tempo perduto. Voglio che tu ti metta seriamente a studiare, e lui, che ti conosce, potrebbe essere la persona giusta."
L 'ordine di mio padre fu come una pioggia fredda che mi risvegliò brutalmente. Non era una richiesta, era un imperativo. L'idea di dover affrontare il professor Rossi, figura che fino a quel momento avevo considerato un po' distante, mi metteva a disagio, ma sapevo che non potevo sottrarmi. Era un tentativo concreto di ancorarmi a una realtà più costruttiva, lontano dagli strascichi delle mie frequentazioni pericolose.
Nel frattempo, la pressione di Katia cresceva. La sua richiesta di una scelta definitiva era diventata più esplicita, più urgente. Una sera, mentre eravamo seduti al parco, mi prese le mani, i suoi occhi lucidi di un misto di amore e esasperazione. "Ti prego," sussurrò, "non posso più aspettare. Ogni volta che ti vedo preoccupato, ogni volta che sento che il tuo pensiero è altrove, il mio cuore si stringe. Ho bisogno di sapere che ci sei per me, che il tuo futuro è con me. Non posso competere con quel mondo, con quella vita. O scegli me, o... o non so cosa succederà."
Le sue parole mi lacerarono. La scelta era diventata un bivio ineludibile, un punto di non ritorno. Da un lato, la possibilità di un futuro luminoso con Katia, un amore che mi spingeva verso il meglio di me; dall'altro, il richiamo di un'amicizia che, sebbene a caro prezzo, mi aveva segnato profondamente. E poi, c'era l'ombra del passato, la minaccia di ulteriori guai, e la voce dei miei genitori che mi supplicava di ritrovare la retta via. La decisione che dovevo prendere era destinata a cambiare tutto, a definire non solo il mio presente, ma anche il mio futuro.
La personalità di Marco 2
Era il mio primo anno di liceo quando conobbi Fabrizio. La nostra amicizia nacque in modo piuttosto inaspettato, dopo un acceso scambio di vedute mentre giocavamo a basket in palestra. Ci fu uno scontro davanti a tutti, ma, sorprendentemente, riuscimmo poi a chiarire tra noi. Fu proprio questo episodio a gettare le basi della nostra profonda amicizia. Fabrizio era un ragazzo dal carattere forte, a tratti dominante; non aveva paura di nessuno e molti lo temevano per il suo passato, già segnato da qualche problema con la giustizia. Con me, però, era leale e fraterno, e questo apprezzavo. Mi lasciai trascinare in diverse storie che rasentavano il limite, ritrovandomi spesso a fianco a lui in scontri fisici per i motivi più disparati: dalla politica allo sport, ogni pretesto era buono per arrivare alle mani. Fu con lui che cominciai a frequentare lo stadio e alcuni ambienti politici di estrema destra. La politica, in sé, non mi interessava affatto; lo seguivo solo perché eravamo amici, e lui aveva un'influenza notevole su di me. L'onda lunga di quell'influenza continuò a portarmi sempre più addentro in un mondo che, in fondo, non era il mio. Le domeniche allo stadio divennero un rito, un luogo dove il tifo si trasformava spesso in scontro, e io, quasi per inerzia, mi ritrovavo in prima linea, più per fedeltà a Fabrizio che per convinzione personale. Le discussioni sui fatti di cronaca, spesso filtrate attraverso una lente ideologica che non mi apparteneva, diventavano il terreno fertile per nuove tensioni. A volte, mi sentivo un estraneo in mezzo a parole e gesti che sembravano appartenere a un codice che non riuscivo a decifrare del tutto, ma l'amicizia con Fabrizio, quel suo modo di essere così sicuro di sé e protettivo nei miei confronti, mi impediva di farmi da parte. Ero giovane, ingenuo, e la forza della sua personalità mi avvolgeva come una coperta, offrendomi un senso di appartenenza che, forse, cercavo senza saperlo.
Fu in quel periodo, mentre mi dibattevo tra il fascino pericoloso dell'estremismo e la lealtà incrollabile verso Fabrizio, che nella mia vita fece irruzione Katia. L'incontrai per caso, in un bar del centro, un pomeriggio qualsiasi. Lei era diversa da chiunque avessi conosciuto fino ad allora: solare, con un sorriso che sapeva di speranza e un modo di parlare che mi catturò all'istante. Non c'era traccia di rabbia o di sfida nei suoi occhi, solo una curiosità genuina e una leggerezza che contrastava con il peso che spesso sentivo sulle spalle. Le nostre conversazioni fluirono con una naturalezza disarmante. Mi raccontava dei suoi sogni, delle sue passioni, di un mondo fatto di libri, musica e progetti per il futuro, e io, per la prima volta da tempo, mi sentivo me stesso, senza filtri o maschere. Iniziò così una nuova fase, quella in cui Katia diventò la mia ragazza. Con lei, il mondo di Fabrizio, con i suoi rumori e le sue tensioni, cominciò a sbiadire in sottofondo. Era come se un raggio di sole avesse squarciato la foschia, illuminando un percorso diverso, più sereno, pieno di promesse. Sentivo di aver trovato un'ancora, qualcuno che mi ricordava che esisteva una realtà al di là degli scontri e delle ideologie, una realtà in cui era possibile respirare a pieni polmoni. La presenza di Katia nella mia vita portava con sé un'aria nuova, un'ebbrezza che non avevo mai provato. Il legame che si stava creando tra noi era fatto di complicità, di risate, di lunghe passeggiate in cui le nostre mani si sfioravano, accendendo scintille sottili. Le serate trascorse con lei erano un antidoto alla frenesia che avevo fino a quel momento conosciuto; le sue parole mi disarmavano, mi facevano scoprire lati di me che avevo dimenticato o forse mai conosciuto.
Una sera, dopo averla accompagnata a casa, l'aria si fece più densa di attesa. Ci guardammo, e in quello sguardo c'era tutta la dolcezza, la timidezza e il desiderio che avevano maturato tra noi in quelle settimane. Le parole sembravano superflue. Fu un gesto quasi impercettibile, un suo avvicinarsi, un mio ritorno a stringerla, a suggellare l'inizio di qualcosa di più intimo. Entrammo nel suo piccolo appartamento, e il mondo fuori, con i suoi echi di scontri e le voci di Fabrizio, sembrò dissolversi. C'era solo il silenzio ovattato delle stanze, il battito accelerato dei nostri cuori, il profumo dei suoi capelli. Non c'era fretta, solo la scoperta reciproca, lenta e delicata. Ogni bacio era una promessa sussurrata, ogni carezza un'esplorazione tenera. Senza una parola, ci buttammo l'uno sull'altra. I nostri vestiti volarono via, le nostre mani avide che si cercarono, si toccarono, si strinsero. I suoi capezzoli erano già duri, la sua fica gocciolava per l'attesa. Le sue labbra divorarono le mie, le mie mani esplorarono ogni curva del suo corpo, stuzzicando la sua fica già bollente, la penetrai con una forza incredibile, con spinte profonde, ritmiche, che la facevano gemere senza controllo. Si aggrappo alle mie spalle, mentre la sua fica stringeva ogni millimetro del mio cazzo. Si mosse con me, in una sintonia perfetta, il suo corpo che rispondeva a ogni mia spinta con una libidine che sapeva di amore, fino a raggiungere il piacere, un orgasmo intenso, fu un'esplosione di piacere, la riempivo con il mio sperma caldo che gocciolava dalla sua fica ad ogni estrazione, bagnando le nostre cosce unite. I suoi baci erano ovunque, mentre mi accarezzava.
Quel pomeriggio fu un vortice di emozioni, un sesso che andava oltre il corpo, che coinvolgeva l'anima. Il mondo esterno era definitivamente scomparso, ridotto a un lontano brusio inudibile. C'eravamo solo noi, immersi in quel vortice di sensazioni, uniti in un abbraccio che sembrava contenere la promessa di ogni bellezza e di ogni tenerezza, ci ritrovammo stremati, legati da quell'esperienza, con la consapevolezza di aver varcato una soglia importante, uniti non solo da un legame d'affetto, ma da un'intimità fisica che consolidava tutto ciò che stavamo costruendo.Nei giorni successivi, la dolcezza di Katia divenne il mio rifugio. Ogni istante trascorso con lei era un balsamo per l'anima, un invito a vedere il mondo con occhi più limpidi. Mi faceva sentire protetto, amato, desiderato per quello che ero, senza filtri, senza giudizi. Il nostro rapporto era un'oasi di serenità in mezzo a un mare di incertezze, e io, attratto da quella calma apparente, rischiavo di dimenticare le acque più torbide da cui venivo. Eppure, ogni volta che il telefono squillava, o che un messaggio di Fabrizio mi avvisava di un nuovo appuntamento, una sottile inquietudine mi saliva. Fabrizio, il mio amico, quello che mi aveva accolto nel suo mondo, che mi aveva fatto sentire forte e protetto con la sua lealtà incondizionata. Era come se due poli opposti della mia vita stessero lottando per la mia attenzione, per la mia lealtà.
Da un lato c'era Katia, la promessa di un futuro radioso, un amore puro che mi spingeva verso una versione migliore di me stesso. Dall'altro c'era Fabrizio, la radice dei miei legami, l'amicizia che mi aveva plasmato, che mi aveva insegnato a difendermi, anche se in modi discutibili. Mi ritrovavo diviso, attratto da una sponda di serenità e fedeltà che non avrei mai pensato potesse esistere, ma contemporaneamente legato a un passato turbolento, a un'amicizia che, nonostante tutto, sentivo di non poter tradire. Le serate con Katia erano piene di risate e progetti, mentre quelle con Fabrizio, spesso, finivano con il rumore degli scontri, con la sensazione di un pericolo imminente. E io, nel mezzo, cercavo disperatamente di mantenere un equilibrio precario, temendo di dover scegliere, di dover deludere qualcuno, o peggio, di deludere me stesso.La dualità che sentivo dentro di me si rifletteva nelle mie uscite. Le domeniche allo stadio, in particolare, diventavano un campo di battaglia non solo tra le tifoserie, ma anche dentro di me. Fabrizio, con la sua solita energia travolgente, mi trascinava nel vortice del tifo più acceso, tra cori urlati e provocazioni che sfioravano il limite. Io, mentre cercavo di mantenere un certo distacco, mi ritrovavo spesso stretto nella morsa del gruppo, gli occhi puntati su di lui, quasi a cercare una conferma del mio posto lì.
In una di queste domeniche, l'atmosfera si fece particolarmente tesa. Una coreografia di ultrà particolarmente aggressiva scatenò una reazione furiosa da parte dei tifosi avversari. Il settore che occupavamo divenne un focolaio di caos. Volavano insulti, spintoni, e ben presto la situazione degenerò in uno scontro fisico generalizzato.
Fabrizio, come sempre, era al centro dell'azione, la sua figura imponente un faro nella confusione. Io, più defilato, cercavo di non farmi trascinare troppo oltre, ma la vicinanza era inevitabile. In quel frangente, la polizia, che aveva presidiato l'area, intervenne con decisione. Le sirene urlarono, le divise si mossero rapide tra la folla.
Fu in quel momento concitato che vidi Fabrizio venire afferrato con forza da due agenti. Cercò di divincolarsi, gridando, ma era inutile. Pochi istanti dopo, vidi anche me stesso circondato. Mi fecero cenno di allontanarmi, di non creare problemi, ma il panico mi assalì quando vidi uno degli agenti puntare un dito verso di me, con un tono autoritario: "Tu, con lui."
Sentii un gelo attraversarmi la schiena. Non ero pronto. Non avevo fatto nulla di concreto, ero solo lì, con Fabrizio. Eppure, mi trovai a essere fermato, insieme a lui, mentre intorno a noi si disperdeva la folla, lasciando solo il rumore delle sirene e il pugno serrato di Fabrizio che mi guardava, incredulo e con una punta di rabbia negli occhi. La dolcezza di Katia e la serenità che mi aveva trasmesso sembravano improvvisamente lontanissime, quasi un sogno irraggiungibile. Il fermo fu un'esperienza surreale e umiliante. Ci portarono in questura, dove fummo separati e interrogati. Le domande erano pressanti, ma io rispondevo con la verità, spiegando di essere lì solo per amicizia, che non avevo partecipato attivamente agli scontri. Fabrizio, dal canto suo, mantenne il suo solito atteggiamento sprezzante, ma anche lui, fortunatamente, non si inimicò completamente gli agenti. Alla fine, dopo ore che sembravano eterne, ci comunicarono che saremmo stati denunciati a piede libero. Un sollievo amaro, perché sapevamo che le conseguenze, anche se non penali nell'immediato, sarebbero state pesanti.
La chiamata ai miei genitori fu la parte peggiore. Il tono preoccupato di mia madre, l'incredulità e la delusione nella voce di mio padre quando appresero dove mi avevano trovato, furono un pugno nello stomaco. L'indomani, mi ritrovarono ad aspettarli sulla soglia di casa, un groviglio di vergogna e stanchezza. Il discorso che ne seguì fu doloroso. Tra silenzi tesi e accuse sussurrate, mi affrontarono con la loro apprensione, con la paura di vedermi scivolare in un mondo che non approvavano. Mio padre, con la sua solita calma severa, mi fece capire che quella era l'ultima occasione. Mi guardò negli occhi, con una tristezza che mi fece sentire ancora più colpevole, e mi disse che la mia vita era mia, ma che le scelte avevano delle conseguenze, e che io dovevo imparare a farle con più saggezza. Sentivo il peso delle loro parole, il senso di colpa per averli preoccupati e delusi. Ma la cosa che mi tormentava di più era il pensiero di Fabrizio. Tornato a casa, esausto, lo chiamai. La sua voce, al telefono, era più pacata del solito, priva della sua solita arroganza. Ci accordammo per vederci, in un luogo neutro, lontano da occhi indiscreti.
Quando ci trovammo, l'imbarazzo iniziale fu palpabile. Lo scontro allo stadio e il fermo avevano gettato un'ombra sulla nostra amicizia. "Mi dispiace," esordii, la voce incrinata. "Non avrei dovuto esserci."
Fabrizio mi guardò a lungo, poi sospirò. "E io mi dispiace per aver messo anche te in quella situazione," disse, con una sincerità che mi sorprese. "A volte perdo il controllo, lo so. Ma con te... con te mi sento diverso. Ti rispetto troppo per volerti vedere nei guai."
Fu un chiarimento sincero, liberatorio. Per la prima volta, sentii che Fabrizio riconosceva il peso delle sue azioni e l'impatto che avevano su di me. Mi disse che a volte il suo modo di dimostrare amicizia era proprio quello di proteggermi dai pericoli, anche se il suo modo di farlo era, a suo modo, pericoloso. Capii che, nonostante tutto, la lealtà che ci legava era forte, ma che dovevamo entrambi imparare a gestirla con più responsabilità. Quel giorno, si aprì una nuova prospettiva nella nostra amicizia, una che, forse, poteva iniziare a fare i conti con le conseguenze delle nostre scelte. La reazione di Katia al mio fermo fu un misto di incredulità, paura e, in fondo, una profonda delusione. Quando le raccontai l'accaduto, il suo volto si fece pallido, i suoi occhi si riempirono di una tristezza che mi trafisse. Mi strinse forte, tremando, come se avesse paura di perdermi.
Nei giorni successivi, notai un cambiamento sottile nel suo atteggiamento. Era ancora affettuosa, ma una sottile ombra di preoccupazione aleggiava tra noi. Una sera, mentre eravamo seduti a cena, mi guardò con la serietà che solo lei sapeva infondere nei suoi sguardi e disse: "Non posso continuare così. Non posso vivere nella costante paura che ti succeda qualcosa, che tu ti cacci nei guai." Poi arrivò la domanda, quella che temevo più di ogni altra: "Devi scegliere. Non puoi continuare a dividerti tra questo mondo, quello di Fabrizio, e noi. Non posso. Non ti voglio perdere, ma non posso nemmeno accettare che la tua vita sia un continuo rischio."
Sentii il terreno tremare sotto i piedi. L'idea di dover scegliere tra Katia, il mio amore, la mia speranza, e Fabrizio, l'amico fraterno che mi aveva introdotto in quel complesso mondo, mi paralizzò. La dolcezza di Katia, il suo desiderio di un futuro sereno, si scontravano brutalmente con la lealtà e il senso di debito che provavo verso Fabrizio.
Nel frattempo, anche i miei genitori non avevano smesso di manifestare la loro preoccupazione. Oltre al fermo di polizia, erano i miei voti a destare allarme. Le mie assenze, la distrazione, il rendimento scolastico che precipitava, erano sintomi evidenti di una vita che stava prendendo una piega pericolosa. Mio padre, in particolare, mi ricordava continuamente l'importanza di un buon futuro, di un percorso di studi che mi avrebbe aperto delle porte. Mi parlava con il peso della sua esperienza, con la speranza che io non commettessi gli stessi errori, o che non mi lasciassi trascinare in vicoli ciechi. La loro preoccupazione, seppur carica di rammarico, mi faceva sentire ancora più solo. Ero intrappolato tra le richieste di chi mi amava e mi voleva al sicuro, e il richiamo di un'amicizia che, nonostante tutto, sentivo ancora forte. La scelta che mi si presentava era lacerante, e il peso di ogni possibile decisione mi schiacciava.In mezzo a questo turbinio di tensioni, mio padre decise che era ora di un intervento più deciso. Una sera, dopo aver visionato il mio pagellino, con un misto di rassegnazione e fermezza, mi disse: "Senti, ragazzo mio, così non si può andare avanti. I guai con la giustizia e la scuola che va a rotoli sono un campanello d'allarme troppo forte. Voglio che ti concentri su te stesso, sul tuo futuro."
Poi, con un tono quasi definitivo, aggiunse: "Domani mattina vai a scuola. Ma non solo per assistere alle lezioni. Vai da Piero, il professor Rossi. È uno dei tuoi professori, un uomo di principi. Parla con lui, spiegagli la situazione. Chiedigli se può darti una mano, se può aiutarti a recuperare il tempo perduto. Voglio che tu ti metta seriamente a studiare, e lui, che ti conosce, potrebbe essere la persona giusta."
L 'ordine di mio padre fu come una pioggia fredda che mi risvegliò brutalmente. Non era una richiesta, era un imperativo. L'idea di dover affrontare il professor Rossi, figura che fino a quel momento avevo considerato un po' distante, mi metteva a disagio, ma sapevo che non potevo sottrarmi. Era un tentativo concreto di ancorarmi a una realtà più costruttiva, lontano dagli strascichi delle mie frequentazioni pericolose.
Nel frattempo, la pressione di Katia cresceva. La sua richiesta di una scelta definitiva era diventata più esplicita, più urgente. Una sera, mentre eravamo seduti al parco, mi prese le mani, i suoi occhi lucidi di un misto di amore e esasperazione. "Ti prego," sussurrò, "non posso più aspettare. Ogni volta che ti vedo preoccupato, ogni volta che sento che il tuo pensiero è altrove, il mio cuore si stringe. Ho bisogno di sapere che ci sei per me, che il tuo futuro è con me. Non posso competere con quel mondo, con quella vita. O scegli me, o... o non so cosa succederà."
Le sue parole mi lacerarono. La scelta era diventata un bivio ineludibile, un punto di non ritorno. Da un lato, la possibilità di un futuro luminoso con Katia, un amore che mi spingeva verso il meglio di me; dall'altro, il richiamo di un'amicizia che, sebbene a caro prezzo, mi aveva segnato profondamente. E poi, c'era l'ombra del passato, la minaccia di ulteriori guai, e la voce dei miei genitori che mi supplicava di ritrovare la retta via. La decisione che dovevo prendere era destinata a cambiare tutto, a definire non solo il mio presente, ma anche il mio futuro.
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