Il Giardino dei ciliegi

di
genere
etero

Il vapore saturava l'aria, denso e pregno del dolce profumo di ciliegio e sandalo. Ogni respiro era un bagno caldo per i polmoni. Mi trovavo ne "Il Giardino di Ciliegi", un luogo di cui avevo sentito solo sussurri, un posto dove il piacere era elevato a forma d'arte. La ragazza che mi aveva accolto, piccola e con curve generose ben delineate dal suo kimono di seta azzurra, mi aveva condotto con un silenzioso cenno del capo in uno spogliatoio minimalista, con pareti di legno chiaro e un unico, morbido tatami a terra.
Mi spogliai, i miei vestiti da città sembravano fuori luogo, goffi e pieni della frettolosa energia del mondo esterno. Una doccia rapida ma purificatrice, e poi l’applicazione meticolosa di oli essenziali: legno di cipresso per la concentrazione, un accenno di yuzu per ravvivare lo spirito. Avvolsi i miei fianchi con un `tanzu`, una fascia di lino bianco e immacolato, sentendo già un’anticipazione elettrica fremere sotto la stoffa.
La guida mi condusse poi attraverso un corridoio silenzioso fino a una porta scorrevole di carta. La aprì.
Il respiro mi si bloccò in gola.
La sala era un sogno. Pavimento di tatami, pareti spoglie che esaltavano la bellezza di un'unica, gigantesca vetrata a scorrimento che si affacciava su un giardino. E non un giardino qualunque. Era un mare di ciliegi in piena fioritura, un'esplosione di un rosa così tenero e perfetto che sembrava dipinto. I petali danzavano in una lenta, ipnotica pioggia ad ogni alito di vento.
Al centro della stanza, un basso tavolo di legno laccato nero. Accanto, un braciere dove un piccolo bollitore di ferro emetteva un sibilo sottile, un respiro costante. Mi inginocchiai su un cuscino di seta, il mio cuore batteva a un ritmo spedito. L'attesa era un profumo, un suono, un formicolio sulla pelle.
La porta scorrevole si aprì senza un rumore.
Lei entrò come un fiocco di neve che cade in un paesaggio già perfetto. Yukio. Il suo kimono era di seta bianchissima, contrastato violentemente da un `obi` rosso sangue stretto in un complicato nodo sul davanti. Motivi d'oro, finissimi, raffiguravano gru in volo lungo le maniche. I suoi capelli, neri come l'inchiostro, erano raccolti in un'elegante acconciatura trafitta da uno spillone d'avorio. Il suo volto era un ovale perfetto, dipinto con la tradizionale maschera di biacco, le labbra rosse e piene disegnate in un enigmatico sorriso.
I suoi occhi, due pozzi di ambrata oscurità, mi incontrarono. Un inchino formale, grazioso. "Sono Yukio. Sono qui per la tua cerimonia."
Il suo sorriso si fece più caldo, più personale. Le sue mani, con movimenti che erano pura danza, andarono alla fibbia del suo `obi`. Il nodo si sciolse. Con una lentezza che era tortura e beatitudine, scivolò le maniche dal suo corpo, lasciando che il kimono scivolasse con un fruscio sommesso ai suoi piedi, formando una nuvola di seta bianca sul pavimento scuro.
Rimase in piedi, magnificamente nuda di fronte a me, alla vetrata, al cielo rosa dei ciliegi. Il mio sguardo, impossibilitato a fare altro, la bevve. I suoi seni erano pieni e alti, con areole larghe e di un marrone scuro intenso, i capezzoli già eretti, duri come bacche. La curva dei suoi fianchi si insinuava in un ventre piatto, portando lo sguardo verso il triangolo ricco e folto di riccioli neri e brillanti che incorniciavano il suo sesso. Le sue gambe erano forti, eleganti.
"Prima volta?" chiese, la sua voce un miele caldo.
"Si," ammisi, la mia voce un po' roca. "Si, prima volta."
"Allora rilassati," sussurrò, avvicinandosi. "Faccio tutto io."
Si inginocchiò davanti a me con una grazia che spezzava il cuore. Le sue mani, calde e leggere, si posarono sui miei fianchi. Le dita scivolarono sotto il bordo del mio `tanzu`, e con un movimento lento, lo slegò. La stoffa cedette, e la mia erezione, dura e ansiosa, si liberò nell'aria fresca della stanza.
Yukio non afferrò. Non si gettò. Inclinò appena la testa, uno studio. "La Cerimonia del Tè comincia con la purificazione degli strumenti," mormorò.
Si chinò e, invece della bocca, usò la lingua. Una sola, lunga, lentissima passata dalla base all'estremità del mio glande. Fu un contatto freddo, bagnato, assolutamente devastante. Un brivido violento mi percorse la schiena. Il calore umido del suo respito che avvolge la pelle tesa, la punta della sua lingua che traccia un solco di fuoco liquido.
Poi, le sue labbra. Non mi prese in bocca. Mi baciò. Piccoli, leggeri baci sulla punta, sui lati, sul frenulo. Baci che erano preghiere, che erano promesse. Ogni bacio era un'onda di piacere concentrato che si irradiava dal mio sesso a tutto il corpo.
Si voltò per prendere una ciotolina di porcellana bianca dal tavolo. All'interno, un olio caldo profumato di gelsomino. Ne intinse le punte delle dita e, tornando su di me, iniziò a strofinarlo sulla mia asta con un movimento circolare, delicatissimo. La sensazione dello scivoloso, caldo unguento che viene steso su ogni millimetro di pelle, dalle palle tese fino alla corona sensibile, rendendo tutto lucido e iper-sensibile.
"Ora, la prima degustazione," sussurrò.
Finalmente, la sua bocca mi accoglierà. Ma non fu un’improvvisa immersione. Fu un’accoglienza. Le sue labbra, morbidissime, si serrarono solo sulla punta, creando un vuoto delicato. Poi, la sua lingua iniziò a danzare. Il ritmo è ipnotico: una pressione leggera sotto la testa, un vortice lento sulla corona, la punta che scivola nell'uretra. È un'attenzione maniacale, un'ossessione per quel centimetro quadrato di pelle che la fa impazzire. Lei emise un piccolo gemito, un suono di genuino piacere che vibrò attraverso di me, facendomi contrarre lo stomaco.
La sua mano libera continuava a lavorare alla base, una pressione costante e ritmica, mentre la sua testa iniziava a muoversi con piccoli cenni, prendendomi in bocca un poco più a fondo ogni volta. Non è una sveltà, è un’esplorazione. Sento ogni millimetro del calore umido e avvolgente del suo interno, il delicato sfiorare dei suoi denti, il modo in cui il palato si stringe su di me quando si ritrae.
La vista era surreale. I suoi occhi chiusi in concentrazione estatica, le sue labbra rosse che si stringevano sul mio membro lucido, lo sfondo dei ciliegi in fiore che danzavano nella brezza. Il suono sommesso dei nostri respiri, il suo gemito basso, il mio sospiro spezzato.
Si ritrasse lentamente, lasciandomi scoperto e tremante nell'aria.
"L'acqua deve essere alla giusta temperatura," disse, la voce velata di passione, prendendo il bollitore. Con una precisione incredibile, fece colare un filo d'acqua calda, non bollente ma perfettamente calda, sulla mia asta. Lo shock del calore umido che scorre lungo la lunghezza, mescolandosi con l'olio, scivolando fino a gocciolare sulle mie palle. È una sensazione nuova, incredibilmente stimolante. Lei osservava, studiando le mie reazioni, con uno sguardo da artista soddisfatta.
Posò il bollitore. "Ora, l'infusione completa."
Le mie dita si affondarono nei suoi capelli, non per guidarla, ma per ancorarmi a una realtà che stava svanendo in un turbine di pura sensazione. La sua bocca è un caldo, umido abbraccio che mi consuma, che mi assorbe, che mi fa suo. Questa volta, quando mi prese tutto, non fu un’esplorazione. Fu una conquista. Un’immersione profonda, senza esitazione, finché non sentii l’inconfondibile, morbida resistenza della sua gola che accoglieva la punta del mio sesso. Un leggero, impercettibile conato, subito controllato, che mi fece trasalire per il suo brivido di autenticità.
Le sue labbra erano serrate alla base, la sua testa ferma. Trattiene. Trattiene il respito, trattiene me, trattiene il momento in un’infinità sospesa. I suoi occhi ambrati si sollevarono per incontrare i miei, e in quegli occhi vedevo non solo la concentrazione di un’artista, ma un fuoco oscuro di godimento personale. Le piace, le piace sentirsi piena, sentirsi sfidata, sentire il mio corpo che trema sotto il suo controllo.
La tensione era un filo di seta teso, pronto a spezzarsi. I miei muscoli addominali erano contratti in un crampo di piacere, le mie natiche serrate. Poi, un piccolo gemito soffocato le uscì dal naso, vibrando lungo tutta la mia lunghezza, ed era la scintilla. Iniziò a muoversi. Non erano più i piccoli cenni di prima, ma movimenti lunghi, lenti, profondi. Su e giù, con una fluidità ipnotica, ogni volta che scendeva mi prendeva tutto, ogni volta che risaliva la sua lingua si appiattiva per accarezzare la parte inferiore, sensuale, viziosa.
La sua mano non era oziosa. Le dita leggere ma esperte accarezzavano il sacco dei miei testicoli, tirandoli dolcemente, massaggiandoli con una pressione che sapeva esattamente dove e quanto premere. Una sensazione duplice, contrastante: la profondità assoluta della sua bocca e il tocco volatile, quasi di sfida, sulle mie palle. È una tortura divina.
Poi, ritirandosi quasi completamente, lasciò solo la punta tra le sue labbra. La sua lingua divenne un’arma di precisione, picchiettando rapidamente e con insistenza sul mio frenulo, quella minuscola corda di piacere che sembrava collegata direttamente alla base della mia spina dorsale. Era troppo. Sentii l’onda iniziare a formarsi, inarrestabile, un’esplosione nucleare nel mio basso ventre.
“Sto per…” riuscii a gorgogliare, un avvertimento, una preghiera.
I suoi occhi sorrisero prima della sua bocca. Annuì, quasi impercettibilmente, un cenno di assenso, di comando. È il suo cenno, il suo permesso, che mi fa finalmente, completamente, crollare.
E poi mi persi. Un conato profondo, un grido soffocato che mi lacerò la gola. Il primo scatto è violento, un getto potentissimo che le riempie la bocca, caldo e denso. Lei non si ritrasse di un millimetro. Accolse tutto, con un gemito basso e soddisfatto, le palpebre che si abbassavano per metà in un’espressione di estasi. Sentii il movimento convulso della sua gola mentre deglutiva avidamente, prendendo tutto di me, non lasciando neanche una goccia. Continuò a succhiare, con movimenti più dolci ora, prolungando le contrazioni fino a farmi contorcere per la sensibilità estrema, fino a quando l’ultima, sottile scossa si esaurì.
Si ritrasse lentamente, con un ultimo, tenero bacio sulla punta super sensibile che mi fece sobbalzare. Un filo bianco stillò dall’angolo della sua bocca e lei lo raccolse con un dito, portandolo alle labbra senza mai rompere il contatto visivo. Un gesto così intenzionalmente volgare eppure eseguito con la grazia di un rituale.
“La prima degustazione è completa,” sussurrò, la voce roca, consumata. Con un panno di lino imbevuto di un profumo caldo di sandalo, mi asciugò con delicatezza, pulendo ogni traccia dalla mia pelle che fremeva ancora.
Poi, con una forza che non mi aspettavo da un corpo così apparentemente fragile, mi guidò all’indietro, facendomi sdraiare supino sul tatami. La paglia intrecciata è fresca contro la mia pelle calda, il profumo di ciliegio penetra più intenso ora che sono orizzontale, il cielo rosa dei fiori è tutto ciò che vedo.
Lei si inginocchiò a cavalcioni su di me. Iniziò un nuovo rituale. Le sue mani, ancora unte del prezioso olio di gelsomino, iniziarono a scivolare sul mio petto. Non è un massaggio, è una mappatura. Le sue dita premono i muscoli pettorali, scendono lungo gli addominali, tracciando ogni linea, ogni contrazione. È un’esplorazione tattile che riaccende i miei nervi, uno dopo l’altro.
Si chinò, e la sua bocca prese il posto delle mani. Baci. Non sono i baci frettolosi e famelici dell’eccitazione, sono baci lenti, deliberati. Baci sul collo, che succhia leggermente lasciando un segno rossastro. Baci sul torace, la sua lingua che fa roteare uno dei miei capezzoli, facendolo indurire all’istante sotto quella stimolazione inaspettata. Scende. Bacia l’addome, segue il percorso di un muscolo, la sua lunga chioma nera che mi scivola addosso come seta, una carezza dentro la carezza.
Scende ancora. I suoi baci diventano più leggeri, più vicini al mio sesso che già, miracolosamente, inizia a rispondere di nuovo. È una magia, un incantesimo tessuto dalle sue labbra, dalle sue mani, dalla sua totale devozione a questo momento. Bacia l’interno delle mie cosce, facendomi tremare. Bacia la base del mio pene, ormai semi-eretto, un bacio così tenero che è quasi più intimo di tutto il resto.
La sento sorridere contro la mia pelle. “Vedi?” mormora, la voce un alito caldo sull’inguine. “Il corpo è un tempio. Va risvegliato con pazienza.”
La sua bocca si chiude su uno dei miei testicoli, succhiando dolcemente, ingoiandolo per un attimo in quel calore umido, mentre la mano accarezza l’altro. Una doppia stimolazione che mi fa gemere, che fa ricominciare il mio sangue a scorrere violentemente verso il basso. Il mio pene è completamente eretto ora, duro come non mai, pulsante di una fiamma appena riaccesa.
Lei lo osserva, quell’oggetto della sua arte tornato alla vita, e nei suoi occhi vedo un orgoglio feroce. Si solleva, in ginocchio, le sue gambe che affiancano i miei fianchi. La luce dei ciliegi in fiore la illumina da dietro, creando un’aureola intorno ai suoi riccioli selvaggi e al suo corpo da dea. Con una mano, mi guida dentro di lei. Non c’è fretta. È un movimento lento, impercettibile, di una lussuria antica.
La punta del mio sesso incontra un calore diverso. Umido, accogliente, vivo. Un calore che pulsava. È la sua fitta peluria nera e riccia che mi sfiora le palle, è il suo calore che mi avvolge la punta, è il suo respiro che diventa affannoso. Lei fissa i miei occhi, e un piccolo gemito le sfugge quando, finalmente, finalmente, mi fa scivolare dentro.
L’impalamento è lento, graduale, centimetri di pura, delirante estasi. Sento ogni piega, ogni contrazione del suo interno che mi accoglie, che mi stringe, che mi adotta. Lei si abbassa completamente, fino a che i nostri corpi non si uniscono completamente, le sue natiche piene che poggiano sui miei fianchi. Si ferma lì, abbandonando la testa all’indietro in un’espressione di beatitudine assoluta, le sue mani che si posano sul mio petto.
“E ora,” ansimò, e la sua voce era roca, piena di un desiderio finalmente liberato, “la danza.”

Il suo movimento iniziò come il lento scorrere di un fiume. Un’oscillazione impercettibile dei fianchi che mi fece gemere, una vibrazione profonda che partiva dal punto dove eravamo uniti e si irradiava in onde concentriche di piacere puro. Non è sesso, pensai in un delirio estatico, è una cerimonia. È il suo corpo che celebra il mio, un rituale antico di dare e avere.
Le sue mani erano piantate sul mio petto, non per sostenersi, ma per sentire il martellare del mio cuore, per misurare l’effetto di ogni suo piccolo, calcolato spostamento. I suoi seni, pieni e magnifici, ondeggiavano davanti ai miei occhi in un ritmo ipnotico, i capezzoli scuri e duri che disegnavano nell’aria figure di un desiderio primordiale.
Non resisto. Le mie mani si sollevarono, attratte da quel magnetismo, e le afferrai. Erano soffici e pesanti, un pugno perfetto. I pollici passarono sui suoi capezzoli e lei chiuse gli occhi, un sussulto di piacere che si tradusse in una stretta più intensa, più profonda lì dentro. Mi stava stringendo, accarezzandomi dall’interno con muscoli che non sapevo nemmeno esistessero.
“Sì,” sussurrò lei, la voce rotta dal ritmo che stava imprimendo. “Senti come ti accolgo.”
La sua danza si fece più decisa. Non era una cavalcata sfrenata, ma una serie di movimenti circolari, avvolgenti, che mi massaggiavano l’intera asta in modo delirante. Su e giù, ma anche a spirale, un vortice di carne e calore che non dà tregua. Poi si sollevava quasi completamente, lasciandomi solo la punta dentro di lei, e il mio gemito era una preghiera. Poi, con una lentezza che era sia tortura che beatitudine, si reimmergeva, riprendendomi tutto, riempiendosi di me con un sospiro profondo di soddisfazione.
Il mio corpo non era più mio. Era uno strumento nelle sue mani esperte, una corda tesa che lei pizzicava per far uscire la musica che desiderava. Le mie dita si serrarono sui suoi fianchi, cercando un appiglio in quel mare di sensazioni, sentendo il potente lavoro dei suoi muscoli sotto la pelle setosa.
La vedo, la dea. Illuminata dal sole rosa che filtra dai ciliegi, i capelli neri che iniziano a sfuggire dall’acconciatura e le si incollano alle tempie sudate, il viso contratto in un’espressione di concentrazione e di piacere fuso insieme. I suoi occhi ambrati erano socchiusi, persi in un mondo di sensazione che condivideva solo con me.
Il ritmo cambiò ancora. Divenne più regolare, più profondo, più insistente. Ogni discesa era un colpo preciso al centro del mio essere, ogni risalita una promessa di un ritorno ancora più totalizzante. Sentii la marea salire dentro di me, un calore che si coagulava nell’addome, un’irreprimibile pressione che reclamava rilascio.
“Yukio… io… sto…”
Lei annuì, il suo respiro affannoso. “Lascia andare,” ansimò, incalzando il ritmo, diventando più veloce, più potente. “Dammi tutto. È il dono.”
Fu l’ultima scintilla. Un urlo mi lacerò la gola, un suono primitivo che non riconoscevo come mio. E poi esplosi. Fu un cataclisma, un rilascio così violento e profondo che mi sentii svuotare l’anima. Onde calde e potenti che le riempivano l’interno, che le segnavano l’essenza, un pulsare infinito di piacere che sembrava non finire mai.
Lei gridò, un suono alto e liberatorio, i suoi muscoli interni che pulsavano intorno a me, stringendosi e rilasciandosi in perfetta sincronia con le mie scariche, succhiando ogni ultima goccia di quella essenza. Il suo corpo si irrigidì, poi si accasciò su di me, esausto, tremante.
Il silenzio che seguì fu rotto solo dal nostro respiro affannoso e dal fruscio dei petali di ciliegio fuori dalla vetrata. Il suo peso su di me era caldo, reale, perfetto. Sentivo il suo cuore battere furiosamente contro il mio. Il mio sesso, ancora dentro di lei, pulsava dolcemente in un ultimo, estremo saluto.
Lei sollevò il viso, i capelli scomposti, gli occhi velati e pieni di una tenerezza che mi spezzò il cuore. Si chinò e le sue labbra trovaron le mie in un bacio lento, profondo, saziato. Non c’era fretta, solo il dolce, salato sapore dell’estasi condivisa.
“Tu sei una dea scesa tra gli uomini, Yukio,” dissi in un soffio, quando le nostre bocche si separarono.
Lei sorrise, un’espressione dolce e stanca, e mi carezzò il petto con una mano tremante. “Torna pure quando vuoi,” sussurrò, prima di baciarmi un’ultima volta, così teneramente che mi sentii mancare.
Poco dopo, mi ritrovai fuori, nel viale alberato che portava via dal Giardino di Ciliegi. L’aria era fresca, la luce del pomeriggio dorata. Ma dentro di me, c’era solo un vuoto profondo, un’assenza. Il profumo di sandalo e gelsomino era ancora sulla mia pelle, ma il calore del suo corpo era solo un ricordo. Guardai indietro, verso quella porta silenziosa. Il desiderio di rivederla, di rivivere quel rituale, di perdermi di nuovo in quei suoi occhi ambrati, era già un’ossessione che mi mordeva le viscere. Dovevo tornare.

scritto il
2025-11-26
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