La Professoressa e l’Allieva. Cap 4
di
Fuuka
genere
dominazione
La notte fu un susseguirsi di stati di dormiveglia, tormentati e febbricitanti. Ogni volta che scivolavo nel sonno, la sensazione del plug dentro di me mi riportava a una coscienza acuta della mia nuova realtà. Non era doloroso, ma era una presenza aliena, un nucleo di fredda sottomissione annidato nel profondo del mio corpo. Al mattino, ero esausta, ma attraversata da una corrente elettrica di ansia ed eccitazione.
Fare la doccia fu un'esperienza quasi extracorporea. L'acqua calda che mi scorreva addosso, il sapone che scivolava sulla mia pelle, tutto era amplificato. Quando mi lavai, sentii con le dita la base liscia del plug, un promontorio estraneo sulla mappa intima del mio corpo. L'atto di pulirmi attorno a quell'oggetto, di accettarlo come parte di me, fu un'umiliazione profonda e stranamente rassicurante. Vestirmi fu un'altra prova. Scelsi un paio di jeans attillati, una decisione masochistica. Il tessuto ruvido premeva contro di me, rendendo ogni passo, ogni movimento, una fonte di attrito sottile e costante contro la base del plug, che a sua volta premeva leggermente dall'interno. Era una stimolazione a bassa frequenza, una tortura che mi teneva costantemente sull'orlo della consapevolezza sessuale.
Entrare nell'aula magna fu come camminare sul patibolo. Trovai il mio posto, mi sedetti con una cautela innaturale, cercando di non tradire il segreto che portavo dentro. La sedia di legno duro era uno strumento di tortura. Ad ogni minimo spostamento del peso, sentivo il plug muoversi dentro di me, premendo contro pareti incredibilmente sensibili, inviando piccole scosse di piacere proibito direttamente al mio centro nervoso. Ero bagnata prima ancora che la lezione iniziasse.
Quando la Professoressa Suzuka entrò, il mio corpo ebbe un sussulto violento. Il mio sfintere si strinse involontariamente attorno all'oggetto, una reazione pavloviana alla vista della mia dominatrice. Lei iniziò la sua lezione sulla semiotica del desiderio nel post-strutturalismo. Le sue parole, normalmente così affascinanti, erano un ronzio lontano. Tutta la mia realtà era ridotta a quel punto di pressione dentro di me e allo sguardo di lei, che vagava per l'aula.
Cercai di prendere appunti, ma la mia mano tremava. La frizione dei jeans, la durezza della sedia, il peso del plug... tutto si combinava per creare un'eccitazione lenta e strisciante. Sentivo il calore accumularsi nel basso ventre, le mutandine che diventavano sempre più umide.
Poi accadde. I suoi occhi, neri e impenetrabili, si fermarono sui miei. Non fu uno sguardo casuale. Fu un atto deliberato. Mi fissò per un tempo che parve infinito. Il suo volto era impassibile, ma io vidi tutto. Vidi la consapevolezza, il possesso, la domanda silenziosa: "Lo senti, Aiko? Senti il mio marchio dentro di te, anche ora, mentre ti parlo di teorie accademiche?".
Fu come se mi avesse toccata. Un'ondata di calore mi esplose nel petto e si riversò tra le mie gambe. I muscoli attorno al plug si contrassero in un piccolo spasmo di piacere. Arrossii violentemente, abbassando lo sguardo sul mio quaderno vuoto, il cuore che batteva all'impazzata. Lei mantenne lo sguardo su di me per un altro secondo, un predatore che si gode la paura della sua preda, prima di continuare la sua lezione come se niente fosse. Io rimasi lì, tremante, umiliata e più eccitata di quanto fossi mai stata in vita mia.
Quel pomeriggio, mentre cercavo di studiare in biblioteca, il mio telefono vibrò. Un messaggio da un numero sconosciuto.
"Mio appartamento. Ora."
Non c'era firma. Non ce n'era bisogno. Raccolsi le mie cose in fretta e furia, il cuore in gola. La convocazione improvvisa era un altro livello di controllo. Non ero più padrona del mio tempo.
Quando arrivai, la porta era socchiusa. Entrai in un appartamento quasi buio, illuminato solo dalle luci della città che filtravano dalla vetrata. Lo studio, di solito così austero, era stato trasformato. Al centro della stanza, dove prima c'era il tavolo basso, ora si ergeva una croce di Sant'Andrea di legno scuro e acciaio. Era un marchingegno brutale ed elegante, un altare sacrificale.
Suzuka emerse dall'ombra. Indossava pantaloni di pelle nera attillati e un corsetto che le stringeva la vita, accentuando la curva dei fianchi e del seno. Sembrava una dea della guerra. In mano, teneva delle cinghie di cuoio.
«Vedo che hai obbedito al mio ordine», disse, la sua voce un mormorio roco. «Sento l'odore della tua eccitazione e della tua paura. È inebriante. Ora, togliti i vestiti. Tutti. Compreso il mio piccolo regalo. Lo ispezionerò più tardi».
Obbedii, le dita che tremavano mentre mi spogliavo sotto il suo sguardo famelico. Quando fui nuda, mi fece cenno di avvicinarmi alla croce.
«Posizionati», ordinò. «Braccia e gambe larghe. Mostrami la tua resa».
Mi appoggiai alla struttura, la schiena contro il legno freddo. Lei iniziò a legarmi. Il processo fu lento, ritualistico. Il cuoio freddo e liscio delle cinghie si strinse attorno ai miei polsi, poi alle mie caviglie. Tirò le cinghie fino a tendere i miei arti, fissandole agli anelli d'acciaio. Ero completamente immobilizzata, il corpo offerto, il petto e il pube esposti. La vulnerabilità era totale, terrificante. Il mio istinto urlava di lottare, ma un'altra parte di me, più profonda e oscura, si stava sciogliendo in quella resa assoluta.
«Ora non puoi più scappare, Aiko», sussurrò al mio orecchio, le sue labbra che sfioravano il mio lobo. «Non puoi contrarti, non puoi opporti. Puoi solo sentire. E sentirai esattamente quello che voglio io».
Si allontanò e tornò con un vassoio. Sopra, c'erano nuovi strumenti. Un vibratore a bacchetta, grande e potente, il cui cavo nero pendeva come la coda di un serpente. Piume di pavone, una piccola frusta a code multiple e un secchiello d'argento con dentro dei cubetti di ghiaccio.
Iniziò con le piume, tracciando linee leggere su tutto il mio corpo, dai piedi al collo, evitando deliberatamente le zone più sensibili. La mia pelle si coprì di brividi, i miei sensi amplificati a dismisura dall'immobilità. Poi prese un cubetto di ghiaccio. Lo fece scivolare lentamente sul mio ventre, facendomi sussultare per il freddo. Tracciò cerchi attorno ai miei capezzoli, che si indurirono all'istante, poi scese più in basso, sfiorando le mie grandi labbra, lasciando una scia di freddo umido che mi fece ansimare.
Infine, accese la bacchetta vibrante. Il ronzio profondo e potente riempì la stanza, facendomi tremare di anticipazione. Appoggiò la testa vibrante sul mio stomaco. La vibrazione si propagò attraverso di me, una scossa sismica che scuoteva ogni mia fibra. La spostò sulle mie cosce, facendole tremare in modo incontrollabile. Poi la passò sui miei capezzoli induriti, e un urlo di piacere mi sfuggì dalle labbra. La sensazione era così intensa da essere quasi dolorosa.
Mi stava portando sull'orlo della follia. Ero un caos di sensazioni, di caldo e di freddo, di solletico e di dolore. E poi, finalmente, avvicinò la testa della bacchetta al mio clitoride. Non lo toccò. La tenne a un millimetro di distanza. Le vibrazioni da sole erano abbastanza potenti da mandarmi in estasi.
«Supplica, Aiko», ordinò. «Supplicami di toccarti. Supplicami di farti venire».
«Ti prego... Professoressa... ti prego... toccami...», piagnucolai, la testa che si girava da un lato all'altro, impotente.
Lei sorrise, un sorriso crudele e bellissimo. Appoggiò finalmente la bacchetta su di me.
L'esplosione fu istantanea e assoluta. Venni proiettata in un'altra dimensione. Il mio corpo si inarcò contro i legami con una forza che non credevo di possedere. Un urlo primitivo, selvaggio, mi squarciò la gola. Le contrazioni del mio orgasmo erano così profonde e violente da farmi male, un'onda dopo l'altra, senza sosta. Ma proprio quando pensavo di aver raggiunto il culmine, lei aumentò la velocità della bacchetta.
Fu troppo. Un secondo orgasmo, ancora più forte, si schiantò sul primo. Il mio mondo si dissolse in pura luce bianca. Non ero più un corpo, ero solo una sensazione, un nervo scoperto che veniva suonato da lei, la mia maestra. Continuò a tenermi lì, sul picco, finché dalla mia bocca non uscirono solo suoni sconnessi, singhiozzi e rantoli.
Quando finalmente spense la macchina, il silenzio fu assordante. Il mio corpo, flaccido e tremante, era appeso ai suoi legami. Ero coperta di sudore, le mie cosce bagnate e appiccicose. Non riuscivo a muovere un muscolo.
Suzuka si avvicinò, mi prese il mento e mi costrinse a guardarla. «Questo, Aiko», disse, la voce calma e bassa, «è un orgasmo concesso. Un dono. Ricordalo. Ora rimarrai qui finché non deciderò che la tua lezione è veramente finita».
Si allontanò, lasciandomi legata, esposta e completamente svuotata. Chiusi gli occhi, il mio corpo che ancora sussultava per le scosse di assestamento del piacere. Ero sua. Ogni dubbio, ogni residuo di resistenza era stato annientato. Ero solo un corpo in attesa del prossimo comando.
Fare la doccia fu un'esperienza quasi extracorporea. L'acqua calda che mi scorreva addosso, il sapone che scivolava sulla mia pelle, tutto era amplificato. Quando mi lavai, sentii con le dita la base liscia del plug, un promontorio estraneo sulla mappa intima del mio corpo. L'atto di pulirmi attorno a quell'oggetto, di accettarlo come parte di me, fu un'umiliazione profonda e stranamente rassicurante. Vestirmi fu un'altra prova. Scelsi un paio di jeans attillati, una decisione masochistica. Il tessuto ruvido premeva contro di me, rendendo ogni passo, ogni movimento, una fonte di attrito sottile e costante contro la base del plug, che a sua volta premeva leggermente dall'interno. Era una stimolazione a bassa frequenza, una tortura che mi teneva costantemente sull'orlo della consapevolezza sessuale.
Entrare nell'aula magna fu come camminare sul patibolo. Trovai il mio posto, mi sedetti con una cautela innaturale, cercando di non tradire il segreto che portavo dentro. La sedia di legno duro era uno strumento di tortura. Ad ogni minimo spostamento del peso, sentivo il plug muoversi dentro di me, premendo contro pareti incredibilmente sensibili, inviando piccole scosse di piacere proibito direttamente al mio centro nervoso. Ero bagnata prima ancora che la lezione iniziasse.
Quando la Professoressa Suzuka entrò, il mio corpo ebbe un sussulto violento. Il mio sfintere si strinse involontariamente attorno all'oggetto, una reazione pavloviana alla vista della mia dominatrice. Lei iniziò la sua lezione sulla semiotica del desiderio nel post-strutturalismo. Le sue parole, normalmente così affascinanti, erano un ronzio lontano. Tutta la mia realtà era ridotta a quel punto di pressione dentro di me e allo sguardo di lei, che vagava per l'aula.
Cercai di prendere appunti, ma la mia mano tremava. La frizione dei jeans, la durezza della sedia, il peso del plug... tutto si combinava per creare un'eccitazione lenta e strisciante. Sentivo il calore accumularsi nel basso ventre, le mutandine che diventavano sempre più umide.
Poi accadde. I suoi occhi, neri e impenetrabili, si fermarono sui miei. Non fu uno sguardo casuale. Fu un atto deliberato. Mi fissò per un tempo che parve infinito. Il suo volto era impassibile, ma io vidi tutto. Vidi la consapevolezza, il possesso, la domanda silenziosa: "Lo senti, Aiko? Senti il mio marchio dentro di te, anche ora, mentre ti parlo di teorie accademiche?".
Fu come se mi avesse toccata. Un'ondata di calore mi esplose nel petto e si riversò tra le mie gambe. I muscoli attorno al plug si contrassero in un piccolo spasmo di piacere. Arrossii violentemente, abbassando lo sguardo sul mio quaderno vuoto, il cuore che batteva all'impazzata. Lei mantenne lo sguardo su di me per un altro secondo, un predatore che si gode la paura della sua preda, prima di continuare la sua lezione come se niente fosse. Io rimasi lì, tremante, umiliata e più eccitata di quanto fossi mai stata in vita mia.
Quel pomeriggio, mentre cercavo di studiare in biblioteca, il mio telefono vibrò. Un messaggio da un numero sconosciuto.
"Mio appartamento. Ora."
Non c'era firma. Non ce n'era bisogno. Raccolsi le mie cose in fretta e furia, il cuore in gola. La convocazione improvvisa era un altro livello di controllo. Non ero più padrona del mio tempo.
Quando arrivai, la porta era socchiusa. Entrai in un appartamento quasi buio, illuminato solo dalle luci della città che filtravano dalla vetrata. Lo studio, di solito così austero, era stato trasformato. Al centro della stanza, dove prima c'era il tavolo basso, ora si ergeva una croce di Sant'Andrea di legno scuro e acciaio. Era un marchingegno brutale ed elegante, un altare sacrificale.
Suzuka emerse dall'ombra. Indossava pantaloni di pelle nera attillati e un corsetto che le stringeva la vita, accentuando la curva dei fianchi e del seno. Sembrava una dea della guerra. In mano, teneva delle cinghie di cuoio.
«Vedo che hai obbedito al mio ordine», disse, la sua voce un mormorio roco. «Sento l'odore della tua eccitazione e della tua paura. È inebriante. Ora, togliti i vestiti. Tutti. Compreso il mio piccolo regalo. Lo ispezionerò più tardi».
Obbedii, le dita che tremavano mentre mi spogliavo sotto il suo sguardo famelico. Quando fui nuda, mi fece cenno di avvicinarmi alla croce.
«Posizionati», ordinò. «Braccia e gambe larghe. Mostrami la tua resa».
Mi appoggiai alla struttura, la schiena contro il legno freddo. Lei iniziò a legarmi. Il processo fu lento, ritualistico. Il cuoio freddo e liscio delle cinghie si strinse attorno ai miei polsi, poi alle mie caviglie. Tirò le cinghie fino a tendere i miei arti, fissandole agli anelli d'acciaio. Ero completamente immobilizzata, il corpo offerto, il petto e il pube esposti. La vulnerabilità era totale, terrificante. Il mio istinto urlava di lottare, ma un'altra parte di me, più profonda e oscura, si stava sciogliendo in quella resa assoluta.
«Ora non puoi più scappare, Aiko», sussurrò al mio orecchio, le sue labbra che sfioravano il mio lobo. «Non puoi contrarti, non puoi opporti. Puoi solo sentire. E sentirai esattamente quello che voglio io».
Si allontanò e tornò con un vassoio. Sopra, c'erano nuovi strumenti. Un vibratore a bacchetta, grande e potente, il cui cavo nero pendeva come la coda di un serpente. Piume di pavone, una piccola frusta a code multiple e un secchiello d'argento con dentro dei cubetti di ghiaccio.
Iniziò con le piume, tracciando linee leggere su tutto il mio corpo, dai piedi al collo, evitando deliberatamente le zone più sensibili. La mia pelle si coprì di brividi, i miei sensi amplificati a dismisura dall'immobilità. Poi prese un cubetto di ghiaccio. Lo fece scivolare lentamente sul mio ventre, facendomi sussultare per il freddo. Tracciò cerchi attorno ai miei capezzoli, che si indurirono all'istante, poi scese più in basso, sfiorando le mie grandi labbra, lasciando una scia di freddo umido che mi fece ansimare.
Infine, accese la bacchetta vibrante. Il ronzio profondo e potente riempì la stanza, facendomi tremare di anticipazione. Appoggiò la testa vibrante sul mio stomaco. La vibrazione si propagò attraverso di me, una scossa sismica che scuoteva ogni mia fibra. La spostò sulle mie cosce, facendole tremare in modo incontrollabile. Poi la passò sui miei capezzoli induriti, e un urlo di piacere mi sfuggì dalle labbra. La sensazione era così intensa da essere quasi dolorosa.
Mi stava portando sull'orlo della follia. Ero un caos di sensazioni, di caldo e di freddo, di solletico e di dolore. E poi, finalmente, avvicinò la testa della bacchetta al mio clitoride. Non lo toccò. La tenne a un millimetro di distanza. Le vibrazioni da sole erano abbastanza potenti da mandarmi in estasi.
«Supplica, Aiko», ordinò. «Supplicami di toccarti. Supplicami di farti venire».
«Ti prego... Professoressa... ti prego... toccami...», piagnucolai, la testa che si girava da un lato all'altro, impotente.
Lei sorrise, un sorriso crudele e bellissimo. Appoggiò finalmente la bacchetta su di me.
L'esplosione fu istantanea e assoluta. Venni proiettata in un'altra dimensione. Il mio corpo si inarcò contro i legami con una forza che non credevo di possedere. Un urlo primitivo, selvaggio, mi squarciò la gola. Le contrazioni del mio orgasmo erano così profonde e violente da farmi male, un'onda dopo l'altra, senza sosta. Ma proprio quando pensavo di aver raggiunto il culmine, lei aumentò la velocità della bacchetta.
Fu troppo. Un secondo orgasmo, ancora più forte, si schiantò sul primo. Il mio mondo si dissolse in pura luce bianca. Non ero più un corpo, ero solo una sensazione, un nervo scoperto che veniva suonato da lei, la mia maestra. Continuò a tenermi lì, sul picco, finché dalla mia bocca non uscirono solo suoni sconnessi, singhiozzi e rantoli.
Quando finalmente spense la macchina, il silenzio fu assordante. Il mio corpo, flaccido e tremante, era appeso ai suoi legami. Ero coperta di sudore, le mie cosce bagnate e appiccicose. Non riuscivo a muovere un muscolo.
Suzuka si avvicinò, mi prese il mento e mi costrinse a guardarla. «Questo, Aiko», disse, la voce calma e bassa, «è un orgasmo concesso. Un dono. Ricordalo. Ora rimarrai qui finché non deciderò che la tua lezione è veramente finita».
Si allontanò, lasciandomi legata, esposta e completamente svuotata. Chiusi gli occhi, il mio corpo che ancora sussultava per le scosse di assestamento del piacere. Ero sua. Ogni dubbio, ogni residuo di resistenza era stato annientato. Ero solo un corpo in attesa del prossimo comando.
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