La professoressa e l'allieva. Cap 2
di
Fuuka
genere
dominazione
Il silenzio nello studio era denso, rotto solo dal mio respiro affannoso e dal fruscio dei miei stessi vestiti. Ogni movimento era un'impresa. Le mie dita, goffe e insensibili, faticavano a slacciare i bottoni della camicetta. Sentivo lo sguardo della Professoressa Suzuka su di me, non lascivo, ma analitico, come quello di uno scienziato che osserva un campione al microscopio. Non mi stava spogliando con gli occhi; mi stava dissezionando.
Feci scivolare la camicetta dalle spalle. L'aria fredda della stanza mi accarezzò la pelle accaldata, facendomi venire la pelle d'oca. Poi toccò ai jeans. Li sbottonai e li abbassai lentamente, rivelando le mutandine di pizzo e, soprattutto, i segni rossi che la sua mano aveva lasciato sulla mia pelle. Per un istante, un'ondata di vergogna mi travolse. Poi, slacciai il reggiseno. Infine, con un'esitazione che mi costò un'occhiata severa da parte sua, abbassai anche l'ultimo velo di tessuto, rimanendo completamente nuda di fronte a lei, in ginocchio sul suo tappeto.
«In piedi», ordinò. La sua voce non ammetteva repliche.
Mi alzai, sentendomi goffa, esposta, vulnerabile come non mai in vita mia. Le braccia mi pendevano inerti lungo i fianchi, non sapendo dove nascondermi.
«Girati. Lentamente».
Obbedii, compiendo una rotazione completa su me stessa. Lei si alzò dalla poltrona per la prima volta, muovendosi con una grazia felina. Si avvicinò, e sentii il suo calore alle mie spalle. Le sue dita fredde mi sfiorarono la schiena, tracciando la linea della mia spina dorsale. Sussultai.
«Ferma», mormorò. «Non un muscolo. Il tuo corpo deve imparare la stasi assoluta, l'immobilità di un oggetto. Solo io ho il diritto di animarlo».
Le sue mani iniziarono un'ispezione metodica. Palparono le mie spalle, le mie braccia, scesero lungo i miei fianchi. La sua non era una carezza, ma una valutazione. Sentii le sue dita premere sulla mia vita, poi sui miei fianchi.
«La struttura è buona», commentò, con lo stesso tono con cui avrebbe giudicato la sintassi di una frase. «Ma sei flaccida. Ti manca tonicità. Da domani, aggiungerai un'ora di allenamento al tuo programma giornaliero. Voglio che questo corpo diventi un tempio di disciplina, non un giardino incolto».
Si spostò di fronte a me. I suoi occhi scuri scrutarono il mio seno, il mio ventre. Un dito tracciò il contorno del mio ombelico, facendomi contrarre i muscoli addominali.
«Hai paura, Aiko?», chiese, vedendo il mio tremito.
«Sì, Professoressa», ammisi a voce bassa.
«Bene. La paura è un eccellente strumento pedagogico. Ti tiene sveglia. Ti rende ricettiva». Si inginocchiò davanti a me, portando il suo viso all'altezza del mio ventre. Il suo sguardo risalì lentamente, fino a incrociare il mio. «Ma la paura non basta. Serve anche il desiderio. E io ti insegnerò a desiderare ciò che decido io, quando lo decido io».
Si alzò e si diresse verso un elegante armadietto di legno laccato nero. Lo aprì, rivelando un interno foderato di velluto rosso. Dentro, disposti con una precisione chirurgica, c'era un arsenale di oggetti che mi fece mancare il respiro. Non erano volgari sex toys di plastica colorata, ma strumenti di una bellezza inquietante: vibratori di vetro nero, plug anali d'acciaio che sembravano gioielli, fruste sottili di cuoio intrecciato, manette di pelle. Erano oggetti che parlavano la sua lingua: controllo, potere, estetica del dolore e del piacere.
Prese un oggetto lungo e sottile, un vibratore di silicone nero opaco, e tornò verso di me.
«Sdraiati sulla schiena», ordinò. «Gambe divaricate».
Il mio corpo si mosse quasi da solo, un automa che rispondeva ai suoi comandi. Mi sdraiai sul tappeto, esponendole la mia totale vulnerabilità. Il cuore mi batteva all'impazzata, un ritmo selvaggio che contrastava con la calma glaciale che mi circondava.
«Voglio che tu guardi», disse, posizionandosi tra le mie gambe. «Voglio che tu veda come il tuo corpo reagisce ai miei stimoli. Non chiudere gli occhi. Mai».
La punta fredda del vibratore mi toccò l'interno coscia. Sussultai, un gemito strozzato in gola. Lei lo fece scivolare lentamente verso l'alto, esplorando la mia pelle con una lentezza esasperante. Quando raggiunse il mio clitoride, lo accese.
Una scossa elettrica mi attraversò. La vibrazione era bassa, profonda, un ronzio che sembrava risuonare direttamente nelle mie ossa. Istintivamente, strinsi le cosce, ma la sua mano libera si posò sul mio ginocchio, fermandomi.
«Rilassati. Apriti. Accetta».
La sensazione era travolgente. Un piacere acuto, quasi doloroso, cominciò a montare dentro di me, un'onda inarrestabile. Mi morsi il labbro per non urlare.
«No», disse lei, leggendomi nel pensiero. «La tua bocca deve rimanere aperta. Il tuo respiro, libero. Non devi soffocare nulla».
Il piacere cresceva, diventava un bisogno disperato. Sentivo l'orgasmo avvicinarsi, una supernova pronta a esplodere. Stavo per venire, non potevo fermarlo. Ma nel momento esatto in cui stavo per raggiungere l'apice, lei spense il vibratore e lo allontanò.
Il mio corpo si contorse per la frustrazione. Un lamento mi uscì dalle labbra. Ero sospesa in un limbo intollerabile, un abisso di desiderio insoddisfatto.
«Vedi, Aiko?», la sua voce era calma, didattica. «Il tuo corpo è un animale stupido. Brama il rilascio, la gratificazione immediata. Ma io ti insegnerò il controllo. Tu verrai solo quando io ti darò il permesso. Il tuo orgasmo non ti appartiene più. È mio. Un privilegio che ti concederò solo quando te lo sarai guadagnato».
Lo riaccese. Di nuovo, mi portò sull'orlo del baratro, facendomi sentire le prime contrazioni dell'orgasmo, solo per poi fermarsi di nuovo. E poi di nuovo, e di nuovo ancora. Ogni volta, la frustrazione era più acuta, il desiderio più lancinante. Il piacere era diventato una forma di tortura squisita. Stavo piangendo in silenzio, le lacrime che scivolavano sulle tempie, il corpo scosso da tremiti incontrollabili.
«Basta... per favore...», supplicai, la voce irriconoscibile.
I suoi occhi si indurirono. «Non sarai tu a decidere quando è abbastanza. Non supplicherai mai per farmi smettere. Supplicherai per avere di più. Supplicherai per avere il permesso di venire. Dillo».
Ero distrutta, svuotata di ogni volontà. C'era solo lei, il suo potere, e il mio corpo che urlava.
«La prego, Professoressa... mi dia il permesso...», sussurrai, l'ultima briciola di orgoglio sbriciolata.
Mi guardò per un lungo istante, un giudice che pondera una sentenza. Poi, un sorriso quasi crudele le increspò le labbra.
«Guadagnatelo».
Riportò il vibratore su di me, questa volta premendo con più forza, aumentando l'intensità delle vibrazioni. Era troppo. L'onda tornò, più forte di prima, un tsunami di sensazioni. Stavo per perdere il controllo, ma il suo sguardo mi teneva prigioniera.
«Ora, Aiko», sussurrò. «Puoi venire. Per me».
Fu come se avesse aperto una diga. L'orgasmo mi travolse con una violenza inaudita, una scarica elettrica che mi fece inarcare la schiena e urlare il suo nome. Il mio corpo fu scosso da spasmi profondi e incontrollabili, un rilascio così totale da lasciarmi senza fiato, tremante e svuotata sul suo tappeto.
Quando riaprii gli occhi, lei era in piedi sopra di me, che mi guardava con un'espressione di fredda soddisfazione. Aveva spento e pulito il vibratore, riponendolo al suo posto. Era di nuovo la Professoressa Watanabe, composta e inavvicinabile.
«La lezione è finita. Rivestiti», disse, con un tono che non lasciava trasparire nulla di ciò che era appena accaduto. «La prossima volta, lavoreremo sulla tua capacità di accettare oggetti più grandi. Voglio che il tuo corpo impari a essere un recipiente vuoto, pronto a essere riempito dalla mia volontà. Ci vediamo giovedì, in aula. E non aspettarti un trattamento di favore. Anzi».
Mi lasciò lì, nuda e distrutta sul pavimento del suo studio. Mentre mi rivestivo con gesti lenti e doloranti, capii. Quello era il mio nuovo mondo. Un mondo dove il dominio accademico e quello sessuale erano diventati una cosa sola. Un mondo dove io non ero più Aiko, la studentessa. Ero la sua creatura. E non desideravo altro.
Feci scivolare la camicetta dalle spalle. L'aria fredda della stanza mi accarezzò la pelle accaldata, facendomi venire la pelle d'oca. Poi toccò ai jeans. Li sbottonai e li abbassai lentamente, rivelando le mutandine di pizzo e, soprattutto, i segni rossi che la sua mano aveva lasciato sulla mia pelle. Per un istante, un'ondata di vergogna mi travolse. Poi, slacciai il reggiseno. Infine, con un'esitazione che mi costò un'occhiata severa da parte sua, abbassai anche l'ultimo velo di tessuto, rimanendo completamente nuda di fronte a lei, in ginocchio sul suo tappeto.
«In piedi», ordinò. La sua voce non ammetteva repliche.
Mi alzai, sentendomi goffa, esposta, vulnerabile come non mai in vita mia. Le braccia mi pendevano inerti lungo i fianchi, non sapendo dove nascondermi.
«Girati. Lentamente».
Obbedii, compiendo una rotazione completa su me stessa. Lei si alzò dalla poltrona per la prima volta, muovendosi con una grazia felina. Si avvicinò, e sentii il suo calore alle mie spalle. Le sue dita fredde mi sfiorarono la schiena, tracciando la linea della mia spina dorsale. Sussultai.
«Ferma», mormorò. «Non un muscolo. Il tuo corpo deve imparare la stasi assoluta, l'immobilità di un oggetto. Solo io ho il diritto di animarlo».
Le sue mani iniziarono un'ispezione metodica. Palparono le mie spalle, le mie braccia, scesero lungo i miei fianchi. La sua non era una carezza, ma una valutazione. Sentii le sue dita premere sulla mia vita, poi sui miei fianchi.
«La struttura è buona», commentò, con lo stesso tono con cui avrebbe giudicato la sintassi di una frase. «Ma sei flaccida. Ti manca tonicità. Da domani, aggiungerai un'ora di allenamento al tuo programma giornaliero. Voglio che questo corpo diventi un tempio di disciplina, non un giardino incolto».
Si spostò di fronte a me. I suoi occhi scuri scrutarono il mio seno, il mio ventre. Un dito tracciò il contorno del mio ombelico, facendomi contrarre i muscoli addominali.
«Hai paura, Aiko?», chiese, vedendo il mio tremito.
«Sì, Professoressa», ammisi a voce bassa.
«Bene. La paura è un eccellente strumento pedagogico. Ti tiene sveglia. Ti rende ricettiva». Si inginocchiò davanti a me, portando il suo viso all'altezza del mio ventre. Il suo sguardo risalì lentamente, fino a incrociare il mio. «Ma la paura non basta. Serve anche il desiderio. E io ti insegnerò a desiderare ciò che decido io, quando lo decido io».
Si alzò e si diresse verso un elegante armadietto di legno laccato nero. Lo aprì, rivelando un interno foderato di velluto rosso. Dentro, disposti con una precisione chirurgica, c'era un arsenale di oggetti che mi fece mancare il respiro. Non erano volgari sex toys di plastica colorata, ma strumenti di una bellezza inquietante: vibratori di vetro nero, plug anali d'acciaio che sembravano gioielli, fruste sottili di cuoio intrecciato, manette di pelle. Erano oggetti che parlavano la sua lingua: controllo, potere, estetica del dolore e del piacere.
Prese un oggetto lungo e sottile, un vibratore di silicone nero opaco, e tornò verso di me.
«Sdraiati sulla schiena», ordinò. «Gambe divaricate».
Il mio corpo si mosse quasi da solo, un automa che rispondeva ai suoi comandi. Mi sdraiai sul tappeto, esponendole la mia totale vulnerabilità. Il cuore mi batteva all'impazzata, un ritmo selvaggio che contrastava con la calma glaciale che mi circondava.
«Voglio che tu guardi», disse, posizionandosi tra le mie gambe. «Voglio che tu veda come il tuo corpo reagisce ai miei stimoli. Non chiudere gli occhi. Mai».
La punta fredda del vibratore mi toccò l'interno coscia. Sussultai, un gemito strozzato in gola. Lei lo fece scivolare lentamente verso l'alto, esplorando la mia pelle con una lentezza esasperante. Quando raggiunse il mio clitoride, lo accese.
Una scossa elettrica mi attraversò. La vibrazione era bassa, profonda, un ronzio che sembrava risuonare direttamente nelle mie ossa. Istintivamente, strinsi le cosce, ma la sua mano libera si posò sul mio ginocchio, fermandomi.
«Rilassati. Apriti. Accetta».
La sensazione era travolgente. Un piacere acuto, quasi doloroso, cominciò a montare dentro di me, un'onda inarrestabile. Mi morsi il labbro per non urlare.
«No», disse lei, leggendomi nel pensiero. «La tua bocca deve rimanere aperta. Il tuo respiro, libero. Non devi soffocare nulla».
Il piacere cresceva, diventava un bisogno disperato. Sentivo l'orgasmo avvicinarsi, una supernova pronta a esplodere. Stavo per venire, non potevo fermarlo. Ma nel momento esatto in cui stavo per raggiungere l'apice, lei spense il vibratore e lo allontanò.
Il mio corpo si contorse per la frustrazione. Un lamento mi uscì dalle labbra. Ero sospesa in un limbo intollerabile, un abisso di desiderio insoddisfatto.
«Vedi, Aiko?», la sua voce era calma, didattica. «Il tuo corpo è un animale stupido. Brama il rilascio, la gratificazione immediata. Ma io ti insegnerò il controllo. Tu verrai solo quando io ti darò il permesso. Il tuo orgasmo non ti appartiene più. È mio. Un privilegio che ti concederò solo quando te lo sarai guadagnato».
Lo riaccese. Di nuovo, mi portò sull'orlo del baratro, facendomi sentire le prime contrazioni dell'orgasmo, solo per poi fermarsi di nuovo. E poi di nuovo, e di nuovo ancora. Ogni volta, la frustrazione era più acuta, il desiderio più lancinante. Il piacere era diventato una forma di tortura squisita. Stavo piangendo in silenzio, le lacrime che scivolavano sulle tempie, il corpo scosso da tremiti incontrollabili.
«Basta... per favore...», supplicai, la voce irriconoscibile.
I suoi occhi si indurirono. «Non sarai tu a decidere quando è abbastanza. Non supplicherai mai per farmi smettere. Supplicherai per avere di più. Supplicherai per avere il permesso di venire. Dillo».
Ero distrutta, svuotata di ogni volontà. C'era solo lei, il suo potere, e il mio corpo che urlava.
«La prego, Professoressa... mi dia il permesso...», sussurrai, l'ultima briciola di orgoglio sbriciolata.
Mi guardò per un lungo istante, un giudice che pondera una sentenza. Poi, un sorriso quasi crudele le increspò le labbra.
«Guadagnatelo».
Riportò il vibratore su di me, questa volta premendo con più forza, aumentando l'intensità delle vibrazioni. Era troppo. L'onda tornò, più forte di prima, un tsunami di sensazioni. Stavo per perdere il controllo, ma il suo sguardo mi teneva prigioniera.
«Ora, Aiko», sussurrò. «Puoi venire. Per me».
Fu come se avesse aperto una diga. L'orgasmo mi travolse con una violenza inaudita, una scarica elettrica che mi fece inarcare la schiena e urlare il suo nome. Il mio corpo fu scosso da spasmi profondi e incontrollabili, un rilascio così totale da lasciarmi senza fiato, tremante e svuotata sul suo tappeto.
Quando riaprii gli occhi, lei era in piedi sopra di me, che mi guardava con un'espressione di fredda soddisfazione. Aveva spento e pulito il vibratore, riponendolo al suo posto. Era di nuovo la Professoressa Watanabe, composta e inavvicinabile.
«La lezione è finita. Rivestiti», disse, con un tono che non lasciava trasparire nulla di ciò che era appena accaduto. «La prossima volta, lavoreremo sulla tua capacità di accettare oggetti più grandi. Voglio che il tuo corpo impari a essere un recipiente vuoto, pronto a essere riempito dalla mia volontà. Ci vediamo giovedì, in aula. E non aspettarti un trattamento di favore. Anzi».
Mi lasciò lì, nuda e distrutta sul pavimento del suo studio. Mentre mi rivestivo con gesti lenti e doloranti, capii. Quello era il mio nuovo mondo. Un mondo dove il dominio accademico e quello sessuale erano diventati una cosa sola. Un mondo dove io non ero più Aiko, la studentessa. Ero la sua creatura. E non desideravo altro.
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