La Professoressa e l’Allieva. Cap 3
di
Fuuka
genere
dominazione
I giorni che seguirono la mia prima "lezione" furono un delirio sensoriale. Il mio corpo era diventato un archivio segreto. Il bruciore acuto delle natiche si era assestato in un dolore profondo e pulsante, un promemoria carnale che sentivo a ogni passo, ogni volta che i miei muscoli si flettevano per sedermi. Non era sgradevole. Era un marchio, un sigillo invisibile che mi legava a lei, una firma a fuoco sulla mia carne. Camminavo per i corridoi dell'università sentendomi un'aliena, come se fossi l'unica a conoscere un segreto tanto oscuro e magnifico. Guardavo i miei compagni, le loro vite banali, e mi sentivo infinitamente superiore e, al tempo stesso, un oggetto di proprietà.
Giovedì, l'aula magna era un'arena. Quando la Professoressa Suzuka entrò, impeccabile nel suo tailleur grigio antracite, il mio corpo reagì istintivamente. Sentii un calore umido tra le gambe, una contrazione involontaria dei muscoli anali, come a ricordare l'impatto della sua mano. Era tornata a essere la divinità inaccessibile, ma io conoscevo il fuoco che si celava sotto quel ghiaccio.
La lezione fu un atto di sadismo intellettuale. Fui il suo unico bersaglio. Mi interrogò su Foucault, mi interruppe, definì la mia analisi "infantile". Davanti a tutti, smontò ogni mia affermazione, lasciandomi intellettualmente nuda e umiliata. Ma ogni sua critica era un messaggio in codice. L'umiliazione pubblica era solo un altro preliminare, un modo per ricordarmi a chi appartenevo. E io accettai tutto in silenzio, abbassando la testa non per la vergogna, ma per una devozione che mi eccitava fino a farmi tremare.
Quella sera, mi presentai alla sua porta con una trepidazione carica di desiderio. Mi accolse indossando un kimono di seta scura, i cui lembi si aprivano leggermente a ogni suo passo, lasciando intravedere la pelle nuda delle caviglie e del collo. Non disse una parola, indicandomi lo studio con un cenno del capo.
«Spogliati. Inginocchiati al centro della stanza. A quattro zampe», ordinò, la voce un sussurro che era più potente di un urlo. «Voglio trovarti pronta».
Mentre lei si allontanava, obbedii. I miei vestiti caddero a terra. Mi misi nella posizione richiesta, nuda, esposta, il sedere puntato verso la porta in un'offerta silenziosa. L'attesa fu una tortura deliziosa. Sentivo l'aria fresca sulla pelle sudata, ogni terminazione nervosa tesa in previsione del suo ritorno.
Quando tornò, teneva un vassoio di legno nero. Sopra, i tre plug d'acciaio brillavano come strumenti chirurgici. Accanto, un barattolo di lubrificante a base d'acqua, denso e trasparente.
«Stasera, Aiko», disse, la sua voce alle mie spalle che mi fece rabbrividire, «ti insegnerò a essere un recipiente. Il tuo corpo imparerà ad accogliere, ad allargarsi, a contenere la mia volontà. Il tuo ano è una porta testardamente chiusa. Io la sfonderò».
Si inginocchiò dietro di me. Sentii il rumore del barattolo che si apriva, poi una generosa quantità di lubrificante freddo mi fu versata direttamente sull'ano e tra le natiche. Sussultai, stringendo i muscoli per reazione.
«Rilassati», sibilò. Fece scivolare il lubrificante con le dita, massaggiando lentamente l'esterno, la sua mano sicura che mi costringeva a cedere. Poi, sentii la punta del suo dito indice premere contro il mio sfintere. «Apriti per me».
Il dito scivolò dentro con una lentezza esasperante. Sentii ogni millimetro della sua invasione, il muscolo che si tendeva, si opponeva e infine, sconfitto, si lasciava allargare. Un gemito mi morì in gola. Il suo dito si mosse dentro di me, un movimento circolare, stirando le pareti, abituandole alla sua presenza. Poi, inserì un secondo dito. La sensazione di pienezza aumentò, quasi dolorosa. Sentii il mio corpo produrre altro lubrificante naturale dalla vagina, una risposta involontaria alla stimolazione. Stavo gocciolando sul tappeto.
Prese il plug più piccolo. Sentii il freddo intenso del metallo contro la mia carne bagnata e sensibile. La punta arrotondata premette contro l'apertura allargata dalle sue dita. «Non contrarti», ordinò. E iniziò a spingere.
Fu una pressione lenta, brutale e costante. Sentii la mia pelle tendersi fino al limite, il metallo che si faceva strada dentro di me, allargando ciò che non era fatto per essere allargato. Chiusi gli occhi, mordendomi il labbro. «Apri gli occhi, Aiko. E non distogliere lo sguardo dal pavimento». Il plug scivolò dentro con un suono umido, e la base fredda e rotonda si posò contro le mie natiche. La sensazione era travolgente: una pienezza fredda e pesante nel profondo del mio ventre.
«Mentre il tuo corpo impara, la tua mente lavorerà. La dialettica hegeliana del servo-padrone. Inizia».
Parlare era un'agonia. Ogni parola richiedeva uno sforzo immenso, mentre tutta la mia consapevolezza era concentrata sull'oggetto estraneo che mi possedeva. La mia voce era un sussurro roco. «Il... il servo... attraverso il lavoro... trascende la sua... condizione...». Ogni esitazione era punita da una leggera ma decisa spinta del plug, che mi faceva sussultare e perdere il filo.
Quando la mia analisi fu giudicata "appena sufficiente", estrasse il primo plug con un movimento fluido e doloroso, lasciandomi vuota e ansimante per un istante, prima di prendere il secondo.
La preparazione fu più breve, la mia carne già arresa. L'inserimento del secondo plug, più largo, fu un'altra battaglia. Questa volta il dolore fu più acuto, un bruciore che mi fece inarcare la schiena. Sentii una lacrima scivolare sulla guancia. «Le lacrime sono permesse», disse lei, quasi dolcemente. «Sono un segno che il corpo sta imparando la sua lezione». Quando fu dentro, la sensazione di pienezza era quasi insostenibile. La pressione contro le pareti interne era intensa, quasi al limite. «Barthes e la morte dell'autore. Spiega il concetto di "testo" come tessuto di citazioni». E io parlai, la mia mente aggrappata disperatamente ai concetti astratti mentre il mio corpo veniva colonizzato.
L'ultimo plug era spaventosamente grande. Quando lo vidi, un "no" silenzioso si formò sulle mie labbra. Suzuka lo vide. «Non hai voce in capitolo, Aiko. Accetterai ciò che ti do».
La penetrazione fu una lenta agonia. Dovette usare tutto il suo peso, spingendo con una forza metodica mentre io ansimavo, le unghie piantate nel tappeto. Il metallo sembrava lacerarmi, allargandomi oltre ogni limite. Ma poi, con un ultimo, profondo respiro di resa, il mio corpo cedette. Il plug scivolò completamente dentro, riempiendomi in un modo così totale da cancellare ogni altro pensiero. Ero piena, tesa, impalata.
«Alzati».
Muoversi era quasi impossibile. Mi alzai tremando, le gambe larghe, ogni passo un'agonia e un promemoria della mia condizione. Mi misi di fronte a lei.
«Ora sei mia, dentro e fuori». Si avvicinò e mi baciò. Fu un bacio famelico, di conquista. La sua lingua si intrecciò con la mia, mentre la sua mano scendeva sul mio ventre e premeva con forza, facendomi sentire la pressione del plug dall'interno. Gemetti nella sua bocca, un suono di dolore e di piacere assoluto.
Quando mi lasciò andare, prese il piccolo, discreto plug di silicone. Dopo aver rimosso l'enorme strumento d'acciaio con un risucchio che mi lasciò debole, inserì quello nuovo. La sua presenza era quasi confortante dopo la violenza precedente, un segreto caldo e costante dentro di me.
«Lo indosserai domani. E sempre, finché non ti dirò io di toglierlo. Sarai seduta nella mia aula, e mentre io parlerò di letteratura, tu sentirai il mio possesso dentro di te, a ogni respiro, a ogni movimento. Sarà il nostro segreto. La prova che la tua sottomissione non è un atto, ma uno stato dell'essere. Ora va'».
Uscii nella notte, ogni passo una pulsazione segreta. Non ero più solo la sua allieva. Ero il suo tabernacolo, il suo segreto vivente, un corpo marchiato e riempito dalla sua volontà. E l'idea di sedere nella sua classe il giorno dopo, con il suo sigillo nascosto dentro di me, mi riempì di una vergogna e di un'eccitazione così potenti da farmi quasi svenire.
Giovedì, l'aula magna era un'arena. Quando la Professoressa Suzuka entrò, impeccabile nel suo tailleur grigio antracite, il mio corpo reagì istintivamente. Sentii un calore umido tra le gambe, una contrazione involontaria dei muscoli anali, come a ricordare l'impatto della sua mano. Era tornata a essere la divinità inaccessibile, ma io conoscevo il fuoco che si celava sotto quel ghiaccio.
La lezione fu un atto di sadismo intellettuale. Fui il suo unico bersaglio. Mi interrogò su Foucault, mi interruppe, definì la mia analisi "infantile". Davanti a tutti, smontò ogni mia affermazione, lasciandomi intellettualmente nuda e umiliata. Ma ogni sua critica era un messaggio in codice. L'umiliazione pubblica era solo un altro preliminare, un modo per ricordarmi a chi appartenevo. E io accettai tutto in silenzio, abbassando la testa non per la vergogna, ma per una devozione che mi eccitava fino a farmi tremare.
Quella sera, mi presentai alla sua porta con una trepidazione carica di desiderio. Mi accolse indossando un kimono di seta scura, i cui lembi si aprivano leggermente a ogni suo passo, lasciando intravedere la pelle nuda delle caviglie e del collo. Non disse una parola, indicandomi lo studio con un cenno del capo.
«Spogliati. Inginocchiati al centro della stanza. A quattro zampe», ordinò, la voce un sussurro che era più potente di un urlo. «Voglio trovarti pronta».
Mentre lei si allontanava, obbedii. I miei vestiti caddero a terra. Mi misi nella posizione richiesta, nuda, esposta, il sedere puntato verso la porta in un'offerta silenziosa. L'attesa fu una tortura deliziosa. Sentivo l'aria fresca sulla pelle sudata, ogni terminazione nervosa tesa in previsione del suo ritorno.
Quando tornò, teneva un vassoio di legno nero. Sopra, i tre plug d'acciaio brillavano come strumenti chirurgici. Accanto, un barattolo di lubrificante a base d'acqua, denso e trasparente.
«Stasera, Aiko», disse, la sua voce alle mie spalle che mi fece rabbrividire, «ti insegnerò a essere un recipiente. Il tuo corpo imparerà ad accogliere, ad allargarsi, a contenere la mia volontà. Il tuo ano è una porta testardamente chiusa. Io la sfonderò».
Si inginocchiò dietro di me. Sentii il rumore del barattolo che si apriva, poi una generosa quantità di lubrificante freddo mi fu versata direttamente sull'ano e tra le natiche. Sussultai, stringendo i muscoli per reazione.
«Rilassati», sibilò. Fece scivolare il lubrificante con le dita, massaggiando lentamente l'esterno, la sua mano sicura che mi costringeva a cedere. Poi, sentii la punta del suo dito indice premere contro il mio sfintere. «Apriti per me».
Il dito scivolò dentro con una lentezza esasperante. Sentii ogni millimetro della sua invasione, il muscolo che si tendeva, si opponeva e infine, sconfitto, si lasciava allargare. Un gemito mi morì in gola. Il suo dito si mosse dentro di me, un movimento circolare, stirando le pareti, abituandole alla sua presenza. Poi, inserì un secondo dito. La sensazione di pienezza aumentò, quasi dolorosa. Sentii il mio corpo produrre altro lubrificante naturale dalla vagina, una risposta involontaria alla stimolazione. Stavo gocciolando sul tappeto.
Prese il plug più piccolo. Sentii il freddo intenso del metallo contro la mia carne bagnata e sensibile. La punta arrotondata premette contro l'apertura allargata dalle sue dita. «Non contrarti», ordinò. E iniziò a spingere.
Fu una pressione lenta, brutale e costante. Sentii la mia pelle tendersi fino al limite, il metallo che si faceva strada dentro di me, allargando ciò che non era fatto per essere allargato. Chiusi gli occhi, mordendomi il labbro. «Apri gli occhi, Aiko. E non distogliere lo sguardo dal pavimento». Il plug scivolò dentro con un suono umido, e la base fredda e rotonda si posò contro le mie natiche. La sensazione era travolgente: una pienezza fredda e pesante nel profondo del mio ventre.
«Mentre il tuo corpo impara, la tua mente lavorerà. La dialettica hegeliana del servo-padrone. Inizia».
Parlare era un'agonia. Ogni parola richiedeva uno sforzo immenso, mentre tutta la mia consapevolezza era concentrata sull'oggetto estraneo che mi possedeva. La mia voce era un sussurro roco. «Il... il servo... attraverso il lavoro... trascende la sua... condizione...». Ogni esitazione era punita da una leggera ma decisa spinta del plug, che mi faceva sussultare e perdere il filo.
Quando la mia analisi fu giudicata "appena sufficiente", estrasse il primo plug con un movimento fluido e doloroso, lasciandomi vuota e ansimante per un istante, prima di prendere il secondo.
La preparazione fu più breve, la mia carne già arresa. L'inserimento del secondo plug, più largo, fu un'altra battaglia. Questa volta il dolore fu più acuto, un bruciore che mi fece inarcare la schiena. Sentii una lacrima scivolare sulla guancia. «Le lacrime sono permesse», disse lei, quasi dolcemente. «Sono un segno che il corpo sta imparando la sua lezione». Quando fu dentro, la sensazione di pienezza era quasi insostenibile. La pressione contro le pareti interne era intensa, quasi al limite. «Barthes e la morte dell'autore. Spiega il concetto di "testo" come tessuto di citazioni». E io parlai, la mia mente aggrappata disperatamente ai concetti astratti mentre il mio corpo veniva colonizzato.
L'ultimo plug era spaventosamente grande. Quando lo vidi, un "no" silenzioso si formò sulle mie labbra. Suzuka lo vide. «Non hai voce in capitolo, Aiko. Accetterai ciò che ti do».
La penetrazione fu una lenta agonia. Dovette usare tutto il suo peso, spingendo con una forza metodica mentre io ansimavo, le unghie piantate nel tappeto. Il metallo sembrava lacerarmi, allargandomi oltre ogni limite. Ma poi, con un ultimo, profondo respiro di resa, il mio corpo cedette. Il plug scivolò completamente dentro, riempiendomi in un modo così totale da cancellare ogni altro pensiero. Ero piena, tesa, impalata.
«Alzati».
Muoversi era quasi impossibile. Mi alzai tremando, le gambe larghe, ogni passo un'agonia e un promemoria della mia condizione. Mi misi di fronte a lei.
«Ora sei mia, dentro e fuori». Si avvicinò e mi baciò. Fu un bacio famelico, di conquista. La sua lingua si intrecciò con la mia, mentre la sua mano scendeva sul mio ventre e premeva con forza, facendomi sentire la pressione del plug dall'interno. Gemetti nella sua bocca, un suono di dolore e di piacere assoluto.
Quando mi lasciò andare, prese il piccolo, discreto plug di silicone. Dopo aver rimosso l'enorme strumento d'acciaio con un risucchio che mi lasciò debole, inserì quello nuovo. La sua presenza era quasi confortante dopo la violenza precedente, un segreto caldo e costante dentro di me.
«Lo indosserai domani. E sempre, finché non ti dirò io di toglierlo. Sarai seduta nella mia aula, e mentre io parlerò di letteratura, tu sentirai il mio possesso dentro di te, a ogni respiro, a ogni movimento. Sarà il nostro segreto. La prova che la tua sottomissione non è un atto, ma uno stato dell'essere. Ora va'».
Uscii nella notte, ogni passo una pulsazione segreta. Non ero più solo la sua allieva. Ero il suo tabernacolo, il suo segreto vivente, un corpo marchiato e riempito dalla sua volontà. E l'idea di sedere nella sua classe il giorno dopo, con il suo sigillo nascosto dentro di me, mi riempì di una vergogna e di un'eccitazione così potenti da farmi quasi svenire.
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