Elena alla partita di calcio
di
Ironwriter2025
genere
tradimenti
I sabati pomeriggio avevano preso la forma di un rituale obbligato: i campi di periferia, l’odore dell’erba appena tagliata, le panchine di metallo gelide d’inverno e roventi d’estate, i ragazzi in maglia numerata che correvano senza sosta e un gruppo di genitori raccolto ai bordi del campo, costretto a condividere quelle ore sempre uguali. Giorgio non perdeva un attimo della partita, seguiva ogni movimento del figlio con la concentrazione di un osservatore tecnico, commentava a bassa voce le azioni e scuoteva la testa davanti agli errori. Elena invece sorrideva, si lasciava coinvolgere più dai discorsi degli altri genitori che dalla partita.
Col passare delle settimane i volti
iniziavano a diventare familiari. Si imparavano i nomi, ci si scambiava battute
sul meteo, sulle vacanze estive, sul lavoro che non lasciava mai abbastanza
tempo. Alcuni padri si scoprivano tifosi di vecchia data, altri parlavano di
calcio come di una scienza esatta, le madri condividevano consigli su scuole,
compiti e piccole noie domestiche. Lentamente quel gruppo di sconosciuti si
trasformava in una piccola comunità, che si ritrovava ogni settimana a fare da
cornice alle partite dei figli.
Per Elena erano pomeriggi che
scorrevano sempre uguali, punteggiati da chiacchiere leggere e sorrisi di
circostanza.
Le prime settimane sugli spalti
avevano il sapore di un dovere: lo stesso campo, gli stessi novanta minuti, lo
stesso brusio di genitori che faticavano a riempire il tempo. Ma con il passare
delle partite le distanze cominciarono a sciogliersi. I saluti diventarono più
cordiali, i commenti più lunghi, finché non si formarono piccoli gruppi
stabili, come isole di familiarità dentro quella cornice rumorosa.
Giorgio si inserì naturalmente tra
i padri più appassionati, quelli che discutevano di schemi, ruoli e futuri
campioni. La sua attenzione era tutta per il figlio e per il confronto acceso
su ogni decisione dell’allenatore. Elena invece trovò più congeniale l’altro
lato, quello fatto di chiacchiere leggere e risate, di aneddoti di lavoro,
viaggi e battute innocue. In quel contesto la sua presenza risaltava ancora di
più. Non era solo il fisico tonico, messo in risalto da abiti sempre ricercati,
mai casuali, ma studiati per esaltare la linea dei fianchi o la lunghezza delle
gambe. Era anche il suo modo di sorridere, di spostare una ciocca di capelli,
di inclinare il corpo mentre ascoltava qualcuno parlare.
Non le sfuggì che alcuni padri la
osservavano con un’attenzione diversa, uno sguardo che si tratteneva un istante
di più del necessario, che indugiava prima di distogliersi. Occhiate a volte
velate, a volte palesi, che si mescolavano a battute galanti dette a mezza
voce. Elena non si sottraeva: accoglieva quegli sguardi con naturalezza, come
se le appartenessero, continuando a parlare e sorridere senza mostrare alcuna
forzatura.
La divisione dei ruoli divenne così
abituale: Giorgio immerso nelle sue disamine tecniche, lei immersa in un clima
di complicità leggera, sempre più affiatata con chi, settimana dopo settimana,
le stava accanto sugli spalti. I sabati pomeriggio non erano più un peso, ma un
piccolo teatro in cui lei poteva sentirsi osservata, desiderata e al centro di
attenzioni che il marito, distratto dal gioco, non notava affatto.
Con il passare delle settimane,
oltre alle chiacchiere sugli spalti, si instaurò una piccola routine che rese
quei sabati ancora più definiti. Durante l’intervallo, quando i ragazzi
correvano negli spogliatoi e gli allenatori urlavano le ultime indicazioni, un
gruppetto di genitori si muoveva verso il baretto del campo. Giorgio preferiva
restare seduto, convinto che fosse il momento migliore per analizzare la
partita e discutere con chi condivideva la sua passione tecnica. Elena invece
seguiva gli altri: era diventato il suo quarto d’ora d’aria, un momento per
distrarsi davvero.
Il baretto era piccolo, con il
bancone stretto e un via vai continuo. Ogni volta bisognava stringersi,
accalcarsi per ordinare un caffè, una bibita, qualcosa di caldo d’inverno. In
quelle situazioni di confusione Elena cominciò a notare piccoli dettagli che
non le sfuggirono affatto. Una mano che le sfiorava il fianco nel passare, un
contatto leggero sul braccio, un tocco alla schiena che poteva sembrare casuale
ma che si prolungava un attimo più del necessario. All’inizio rimase sorpresa,
poi capì che non era un episodio isolato: accadeva quasi ogni volta, in mezzo
alla calca del bancone, nascosto dalla scusa dello spazio angusto.
Quelle pause, da semplici
intermezzi, divennero sempre più lunghe. Il caffè si beveva in fretta, ma le
chiacchiere si allungavano, le risate diventavano più libere, e lei si trovava
spesso a rimandare il ritorno sugli spalti. Sapeva che Giorgio era ancora lì,
con lo sguardo fisso sul campo, ignaro di quei minuti in cui lei era immersa in
un’attenzione diversa, fatta di vicinanza, sguardi e sfioramenti che le davano
una sensazione segreta di elettricità.
Tra i genitori che frequentavano il
baretto durante l’intervallo, due padri in particolare iniziarono a spiccare
nella routine di Elena. Erano fumatori, e proprio per non lasciarli soli lei si
attardava con loro all’esterno, sorseggiando lentamente il suo caffè mentre
loro accendevano una sigaretta. All’inizio lo faceva per gentilezza, per non
rientrare subito sugli spalti, ma presto si rese conto che quelle soste si
stavano trasformando in qualcosa di più sottile.
I due sembravano sempre alla
ricerca di un contatto, e non perdeva occasione di accorgersene. Una mano che
le scivolava sulla spalla nel mezzo di una battuta, il gesto di spostarle una
ciocca di capelli quando il vento gliela portava davanti agli occhi, un tocco
leggero sul gomito mentre le parlavano. All’inizio quelle attenzioni la
mettevano a disagio, c’era un senso di invasione che non riusciva a ignorare.
Ma settimana dopo settimana, la costanza con cui quei gesti si ripetevano
trasformò la percezione: da fastidio, divennero consuetudine.
E da consuetudine si fecero piccola
abitudine. Ormai sapeva che sarebbe accaduto, quasi lo attendeva, e dentro di
sé cominciava a provare una sottile compiacenza. Quelle mani che trovavano
sempre il modo di sfiorarla, quei gesti che in apparenza avevano la leggerezza
di un nulla ma che le restituivano la certezza di essere osservata, desiderata,
scelta come punto focale. E così, mentre Giorgio rimaneva sugli spalti a
discutere di pressing e diagonali, lei iniziava a sentire che i suoi sabati
pomeriggio avevano assunto un nuovo sapore, fatto di piccole attenzioni che, da
importune, erano diventate un segreto piacere.
Col passare delle settimane fu
Elena stessa a introdurre una variazione silenziosa nella sua presenza sugli
spalti e al baretto. Senza quasi accorgersene, i suoi abiti cominciarono a
trasformarsi. Le gonne si fecero più corte e aderenti, i leggings lucidi che
fasciavano le gambe catturavano i riflessi del sole, le magliette scollate
lasciavano intravedere ciò che un tempo nascondeva con maggiore pudore. E
presto la rinuncia al reggiseno, gesto minimo ma dirompente, rese la sua figura
ancora più evidente agli occhi maschili: curve libere sotto il tessuto,
movimenti che non lasciavano nulla all’immaginazione.
I due padri notarono subito il
cambiamento. Non solo con gli sguardi, che si fecero più insistenti, ma anche
con parole che rompevano la barriera della convenzione. I complimenti si
moltiplicarono, mai apertamente sconci, ma sempre più mirati: sulla forma delle
gambe, sulla freschezza della pelle, sulla sensualità che traspariva anche da
un gesto banale. Elena li accoglieva con sorrisi leggeri, senza smentire, senza
schermirsi.
E pian piano gli argomenti di
conversazione cambiarono colore. Non più solo battute su lavoro e viaggi, ma
cenni a relazioni, a desideri, a ricordi che sconfinavano nel piccante. Frasi a
doppio senso dette con naturalezza, occhi che cercavano la sua reazione, mani
che trovavano ancora più occasioni per sfiorarla. Lei, che inizialmente si era
irrigidita davanti a tanta invadenza, cominciò invece a percepirla come un
gioco complice, un filo sottile che la teneva legata a quei sabati.
Il campo, la partita, la voce
dell’allenatore e il brusio degli altri genitori diventavano sfondo lontano,
mentre per lei il centro dell’attenzione era ormai quel piccolo cerchio fatto
di sguardi, gesti e parole che la accarezzavano più di qualsiasi mano.
Col tempo fu Elena a cambiare le
regole del gioco. Se all’inizio era stata lei a subire quelle attenzioni,
adesso cominciava a ricercarle, quasi a guidarle. Non c’era più soltanto il
sorriso che accoglieva i complimenti o il lasciarsi sfiorare con apparente
indifferenza. Adesso, in mezzo a quel gruppetto di genitori, erano le sue mani
a muoversi con leggerezza studiata.
Mentre parlava, rideva o ascoltava,
le capitava di posare la mano sul braccio di uno dei due, come a sottolineare
una frase. E in quell’attimo il pollice accarezzava appena il rilievo del
bicipite, testandone la solidità. Altre volte, scherzando, lasciava la mano più
in alto, sul petto, un gesto che agli occhi degli altri poteva sembrare
naturale, ma che per lei era tutto fuorché innocente: il calore che sentiva
sotto la stoffa la elettrizzava, e la consapevolezza di poterlo fare senza
destare sospetti aumentava il piacere.
I due uomini non si tiravano
indietro, anzi, accoglievano quei tocchi con sorrisi complici e frasi che
accentuavano il sottinteso. Per gli altri genitori erano scene comuni, gesti
tra persone che fraternizzavano con spontaneità. Per Elena, invece, era
diventata la parte più attesa del sabato: quel gioco di mani mascherato da
casualità, quella possibilità di assaporare la forza dei loro corpi senza che
nessuno potesse davvero imputarle nulla.
Ogni volta che la sua mano
scivolava su un petto o si stringeva appena a un braccio, sentiva crescere un
calore intimo, come se stesse alimentando un segreto incendio che solo lei
poteva percepire. E più lo faceva, più le riusciva naturale, fino a trasformare
quei piccoli contatti in una sua personale, raffinata forma di trasgressione.
Ormai i suoi tocchi erano diventati
naturali, parte di quella complicità silenziosa che nessun altro sembrava
notare. Ma fu proprio in quei gesti che iniziò ad accorgersi di qualcosa di
nuovo. Ogni volta che la sua mano indugiava un istante sul petto o sul braccio,
notava una reazione sottile, quasi impercettibile, che però non poteva
sfuggirle.
Un respiro che si faceva più
profondo, le spalle che si irrigidivano appena, un movimento rapido come per
ricomporsi. Qualche volta, quando si trovavano accalcati al bancone, la
vicinanza le permetteva di percepire una tensione diversa, un rigonfiamento
sotto i pantaloni che non lasciava spazio a dubbi. Non era mai palese, mai
dichiarato, ma per lei che aveva imparato a leggere i dettagli, era chiarissimo.
All’inizio fingeva di non
accorgersene, continuando a sorridere e a parlare come se nulla fosse. Ma
dentro sentiva crescere una scarica di eccitazione che le percorreva la pelle.
Il pensiero che bastasse un suo gesto, un suo tocco apparentemente innocuo, per
scatenare in loro quel tipo di reazione la faceva sentire potente, desiderata,
femmina fino in fondo.
Con il passare delle settimane
cominciò quasi a cercare quei segnali: sfiorava con più decisione, sostava un
attimo in più con la mano, piegava il corpo più vicino del necessario. Ogni
volta restava in ascolto, cogliendo quei piccoli movimenti che per gli altri
erano invisibili, ma che per lei erano come scintille in un fuoco che cresceva
silenzioso.
Quella volta Elena decise di alzare
la posta. Quando scese dall’auto, i tacchi che battevano sull’asfalto
catturarono l’attenzione ancor prima dell’abito. La minigonna grigio chiaro
aderentissima, corta al punto da sfiorare l’imprudenza, le disegnava le gambe
con un’armonia che nessuna calza avrebbe potuto migliorare. Sopra, la maglietta
rossa tesa sul seno, senza alcun reggiseno a contenerla, lasciava intravedere
il gioco netto dei capezzoli che pungevano contro il tessuto leggermente
trasparente. Ogni passo era una promessa.
Il volto completava la
provocazione: eyeliner allungato ben oltre l’occhio, che le dava uno sguardo
tagliente e felino; labbra scolpite da un rossetto rosso lucido, vivo come il
peccato; i capelli raccolti in una coda alta, tirata a lasciare il collo e le
spalle nudi, offerti senza difese. Non era un caso, non era leggerezza: era una
dichiarazione.
Giorgio, accanto a lei, la guardò
di traverso più volte, con un misto di sorpresa e sospetto. Non disse nulla, ma
il suo silenzio parlava. Elena, invece, si comportò come se tutto fosse
naturale, salutando i soliti volti, sorridendo, occupando il suo posto sugli
spalti. Le chiacchiere scorrevano tranquille, la partita teneva occupato il
marito, e lei sembrava parte della routine di sempre.
Fu solo nell’intervallo, quando il
gruppetto si mosse verso il baretto, che la tensione nascosta prese forma.
Accalcati al bancone, in mezzo a spintoni e strettoie, Elena sentì addosso a sé
quegli sguardi che conosceva bene. I due padri non persero occasione di notare ogni
dettaglio: il tessuto che cedeva, la curva che si intravedeva, il rosso che le
incendiava la bocca. Le parole si fecero più basse, i sorrisi più insistenti. E
bastò un movimento, una spinta apparente, perché la sua schiena si trovasse
sfiorata, un braccio le cingesse appena il fianco per "farle spazio",
le dita si posassero con troppa naturalezza dove non avrebbero dovuto.
Elena trattenne un sorriso,
sollevando appena lo sguardo. Non serviva dire nulla: l’equilibrio era già
cambiato.
Il momento arrivò in un battito di
ciglia. Elena, stretta al bancone, percepì distinto un palmo posarsi sulla sua
natica. Un gesto pieno, deciso, che non poteva essere confuso con la casualità
della calca. Si voltò di scatto, istintivamente pronta a esplodere in un urlo, a
difendersi davanti a tutti. Ma lo sguardo si incrociò con quello di uno dei due
padri, che non ritrasse la mano: anzi, rimase lì, con un sorriso sfrontato e
sicuro, come se quel contatto fosse naturale.
Il cuore di Elena ebbe un sussulto.
Attimi che sembrarono eterni, fino a quando lei, invece di respingerlo, rispose
con lo stesso linguaggio: un sorriso lento, carico di complicità. In
quell’istante avvertì un nuovo tocco, questa volta più in basso: dita che le
risalivano la coscia nuda, scivolando appena sotto l’orlo della minigonna. Si
voltò dall’altra parte, e trovò l’altro padre, lo stesso sorriso sulle labbra,
lo stesso ardire negli occhi.
Nessuno degli altri genitori
sembrava essersi accorto di nulla. Il brusio copriva tutto, i corpi stretti
rendevano quei contatti invisibili agli sguardi esterni. Era solo lei, al
centro di un gioco che fino a qualche tempo prima avrebbe giudicato
impensabile. Invece, in quel momento, la scelta fu netta: decise di lasciarsi
andare.
Non mosse le mani per fermarli, non
fece un passo indietro. Restò lì, accettando quei tocchi come un segreto
condiviso, sentendo la pelle che bruciava sotto il tessuto e un calore che le
saliva dentro, potente e irresistibile. E mentre sorrideva ancora, Elena capì
che il confine era stato superato.
Uscirono come sempre, con la
naturalezza di un rito che nessuno metteva in discussione. Il gruppetto si
divise tra chi restava al bancone e chi preferiva sgranchirsi le gambe, e loro
tre imboccarono la solita direzione verso l’esterno del baretto. Giorgio era
rimasto sugli spalti, gli occhi fissi sulla partita: una certezza che dava ad
Elena quella libertà segreta.
Appena fuori, l’aria fresca le
accarezzò le gambe nude sotto la minigonna cortissima. I due uomini accesero le
sigarette con gesti lenti, chiacchierando come se nulla fosse cambiato. Eppure,
nel giro di pochi istanti, le mani cominciarono a farsi vive. Una le scivolò
alla vita, stringendola con naturalezza, ma invece di fermarsi restò lì, il
pollice che tracciava cerchi appena sopra il gluteo. L’altra le passò sulla
schiena, proprio dove la maglietta aderente si tendeva, e risalì fino al collo,
sfiorandole la pelle liscia sotto la coda tirata.
Elena sorrise, fingendo che fosse
solo un gesto amichevole, ma dentro sentì il cuore accelerare. Quando lui
inspirò dal filtro e avvicinò la bocca al suo orecchio per dirle una battuta,
la mano già era scesa sotto l’orlo della minigonna, adagiata sulla curva piena
della natica. L’altro, non meno audace, infilò le dita all’interno del braccio,
risalendo fino al fianco, sfiorandole il seno senza la barriera del reggiseno:
un tocco rapido, ma deciso, che fece trasparire sotto la stoffa il tremito dei
capezzoli già in evidenza.
I movimenti restavano coperti
dall’apparenza: tre adulti che ridevano, che parlavano fitto, che si
stringevano in uno spazio ridotto. Ma nel dettaglio i loro corpi dicevano
altro. Una mano sulla coscia, che saliva fino a lambire l’attaccatura; l’altra
che, fingendo di sistemarle la maglietta, indugiava sul petto, le dita che
sfioravano il contorno del capezzolo teso. E lei non li fermava. Restava
immobile, complice, con il sorriso sulle labbra e il respiro appena più
profondo.
Sapeva che si stavano prendendo la
libertà di esplorarla ovunque, lì, a pochi metri dagli altri genitori. E non solo
lo accettava: il brivido di quel rischio la incendiava dentro, fino a farle
percepire ogni tocco come un segreto marchio di desiderio inciso sulla pelle.
Le voci degli altri genitori
arrivavano ovattate dal campo, eppure per Elena era come se esistessero solo
quelle due mani che la stringevano, la esploravano, la facevano vibrare. Una
sulla natica, che affondava con decisione, l’altra che non smetteva di
indugiare sul seno libero, sfiorando il capezzolo teso attraverso la maglietta.
E poi le sue mani, che ormai si muovevano senza esitazione, stringendo a turno
le erezioni dei due uomini, saggiandone la forza e la durezza, con un
compiacimento che le incendiava l’anima.
Non era il tocco in sé a portarla
oltre, ma la situazione. L’essere lì, all’aperto, a pochi passi da chiunque, e
vivere qualcosa che non avrebbe mai pensato di permettersi. Sentiva il calore
del sangue accelerare nelle vene, le gambe diventare leggere, un tremito che le
saliva dalla pancia fino al petto. Ogni risata che fingeva per coprire l’evidenza
era in realtà un gemito trattenuto, e dentro di sé sapeva che stava già godendo.
Il piacere esplose silenzioso,
invisibile agli altri, ma devastante per lei. Il respiro divenne irregolare, la
pelle bollente, il ventre contratto in una scossa che nessuna mano aveva
davvero provocato: era l’eccitazione della situazione a travolgerla, l’osceno
contrasto tra la normalità apparente e la realtà segreta. Godette in silenzio,
con le mani ancora strette sui due uomini, i sorrisi scambiati come maschere di
un gioco che ormai non poteva più essere fermato.
Elena, scossa dal piacere che
l’aveva travolta, sente le gambe cedere per un istante. I due uomini la
sorreggono con naturalezza, come se fosse parte del gioco: le mani che fino a
un attimo prima l’avevano esplorata ora la tengono in piedi, stringendole i
fianchi e le braccia per non farle vacillare. Lei inspira a fondo, cerca di
ricomporsi, il cuore che martella ancora.
È allora che uno dei due si china
appena verso il suo orecchio. Il tono è basso, ma non lascia spazio a dubbi:
«Adesso sei in debito con noi.» L’altro completa la frase, con lo stesso
sorriso sicuro che aveva avuto quando per primo l’aveva toccata: «Il prossimo
sabato saprai come sdebitarti.»
Elena resta immobile, lo sguardo
che si accende e il petto che ancora si solleva rapido sotto la maglietta
rossa. Non risponde, non nega, non finge indignazione. Si limita a trattenere
quel sorriso che le sfiora le labbra, segno che ha capito e che, dentro di sé,
sa già che non potrà tornare indietro.
Il sabato successivo Elena scese
dall’auto con passo lento, quasi studiato. La minigonna nera, lucida come pelle
tirata, le aderiva senza margine, corta al punto che ogni movimento lasciava
intuire la promessa nascosta. Sopra portava un top bianco senza spalline, teso
sul seno libero, i capezzoli ben visibili sotto il tessuto sottile. Una
giacchina corta, lasciata aperta, completava l’insieme senza coprirla davvero,
mentre i tacchi sottili obbligavano il suo corpo a oscillare sensuale a ogni
passo.
Il trucco, marcato, non lasciava
dubbi: eyeliner allungato che le scavava lo sguardo, rossetto rosso vivo, lo
stesso del sabato precedente, lucido come un sigillo. I capelli raccolti ancora
in alto, a scoprire il collo e le spalle nude, lisce, perfette. Non c’era nulla
di casuale: ogni dettaglio parlava per lei, per il debito che portava dentro.
Giorgio, accanto, la guardò di
nuovo in tralice, quasi rassegnato a quell’esibizione che non riusciva più a
spiegarsi. Ma non disse nulla, come al solito. Sugli spalti la solita routine
prese forma, i gruppetti di genitori a chiacchierare, il brusio del campo, le
urla dei ragazzi. Ma per Elena nulla era come prima. Sapeva che, non appena
sarebbe scattato l’intervallo, il suo ruolo non sarebbe stato quello di
semplice spettatrice o madre, ma di donna chiamata a pagare ciò che aveva
concesso sette giorni prima.
E quando il primo tempo si chiuse,
i due uomini si alzarono insieme, lanciandole uno sguardo che non aveva bisogno
di parole. Lei sorrise appena, si alzò senza esitare, e li seguì verso il
baretto, con la minigonna che ondeggiava e gli occhi addosso che non le
importava più di nascondere.
Allo scadere del primo tempo Elena
si alzò come sempre, pronta a seguire i due verso il baretto. Ma stavolta non
andarono in quella direzione. Uno di loro le posò una mano sulla schiena,
l’altro le si affiancò stretto e, con un cenno appena accennato, la guidarono
lontano dal flusso dei genitori. Un “andiamo” sussurrato bastò. Lei non chiese
nulla, non oppose resistenza: si lasciò condurre, con il cuore che già batteva
più forte.
Il brusio sugli spalti copriva
tutto, e tra genitori distratti e ragazzi che correvano urlando, tre figure che
si allontanavano non richiamarono alcuna attenzione. Percorsero un corridoio
laterale, poi ancora più dietro, verso una zona dimenticata del campo: il retro
della tribuna, un passaggio che portava agli spogliatoi e a un magazzino
chiuso. Lì non c’era nessuno, solo il vento che muoveva i cartelloni e il
rumore ovattato della partita in lontananza.
Fu in quell’angolo isolato che le
mani cominciarono a prendersi libertà nuove. Non più sfioramenti coperti
dall’alibi della folla, ma tocchi aperti, audaci, senza esitazione. Una la
spinse leggermente contro la parete ruvida, i palmi a stringerle i glutei sotto
la minigonna lucida, le dita che salivano con forza lungo le cosce. L’altro le
aprì la giacchina corta, lasciando il top bianco in piena vista, e vi affondò
subito, pizzicandole il capezzolo già eretto, duro, che tradiva la sua
eccitazione.
Elena trattenne un respiro, gli
occhi socchiusi, il corpo che tremava non di paura ma di piacere. Nessuna
parola, solo gesti. E per la prima volta capì che il debito reclamato sette
giorni prima stava prendendo forma, lì, nascosto ma vicinissimo al mondo di
fuori.
Le mani forti la staccarono dal
muro, spingendola un passo avanti. Si ritrovò tra loro due, i fianchi stretti
dai corpi caldi, e un ordine basso le tagliò l’aria.
«In ginocchio, adesso.»
Elena rabbrividì. Non ci fu
esitazione: scivolò giù lentamente, i tacchi che graffiavano il cemento, lo
sguardo rivolto in alto verso quei due sguardi bramosi. Li vide sbottonarsi in
fretta, e l’evidenza della loro eccitazione apparve davanti al suo viso.
«Dai, troia, succhiali adesso,»
sibilò uno, avvicinandosi ancora.
Il cuore le esplose nel petto, le
mani tremanti che li afferrarono entrambi. Li strinse, saggiando la durezza
sotto le dita, e subito abbassò il capo per sfiorare con le labbra l’uno e poi
l’altro, alternando baci rapidi e umidi sulla punta.
«Così, brava… continua.» La voce
roca le scivolò nelle orecchie come una frustata.
Elena gemette piano, il suono
soffocato mentre lasciava un bacio più lungo, poi rideva a mezza bocca,
sollevando lo sguardo: «Vi piace, eh? Non vi basta mai…»
«Zitta e fai il tuo dovere,»
ringhiò l’altro, poggiandole una mano dietro la testa per guidarne i movimenti.
Lei mugolò ancora, il respiro caldo
che avvolgeva la pelle tesa sotto le labbra, le mani che continuavano a
muoversi in un ritmo alternato, avvolgendo, stringendo, provocando. Ogni volta
che baciava la punta di uno, l’altro gemeva accanto, le dita che le stringevano
le spalle.
«Guarda come gode… la puttanella
non vedeva l’ora,» sussurrò uno dei due.
Elena li interruppe con un gemito
più forte, un suono gutturale che tradiva la sua eccitazione. «Sì… sì, vi
voglio così…»
«Apri bene la bocca, fai vedere che
sei brava,» ordinò uno, la mano che le premeva sulla nuca.
Elena obbedì, le labbra lucide che
scivolarono su di lui con lentezza, mentre l’altro gemeva al solo guardare. Un
suono gutturale le riempì la gola, mescolato al loro respiro caldo. Le mani
continuavano a stringerli entrambi, ma ora il ritmo era diverso: serio, deciso,
come se ogni movimento fosse una prova.
«Guarda come ci succhia… sembra
nata per questo,» disse l’altro con una risata bassa, eccitata.
Lei mugolò, la bocca piena,
incapace di rispondere, ma lo sguardo sollevato diceva tutto. Gli occhi lucidi,
le ciglia sbattute, un gemito che vibrava attorno alla carne che la colmava.
«Più forte… sì, così… prendi tutto
dentro,» la incalzò il primo, muovendole il capo con forza regolare.
Elena gorgogliò, le mani sempre
strette sull’altro, che gemeva piano, la punta baciata e tormentata dai suoi
pollici e dalle carezze delle dita. Ogni volta che lo lasciava per respirare,
ci passava la lingua sopra, lenta, maliziosa.
«Sei la nostra troia adesso, hai
capito?» La voce roca calò su di lei.
Un mugolio gutturale fu l’unica
risposta, un suono che fece ridere entrambi, eccitati ancora di più. Le
spinsero la testa avanti e indietro, imponendole il ritmo, mentre lei si
abbandonava al gesto, la bocca che lavorava senza tregua, le mani che non
smettevano di stringerli con avidità.
«Così… non fermarti… sì, continua,»
gemettero in coro, e ogni parola cadeva su di lei come una catena, come un
marchio di possesso che la spingeva ancora più in basso.
Uno dei due le afferrò il viso,
costringendola a sollevare lo sguardo. Le labbra erano arrossate, lucide, un
filo di saliva che le colava al mento. «Brava… ma adesso basta con i giochini.
Sei in debito, ricordi?»
L’altro rise, piegandosi su di lei:
«La nostra troia deve darci molto di più.»
Elena ansimò, le mani ancora
strette su entrambi, il respiro che le bruciava la gola. «Sì… ditemi cosa
volete…»
La sollevarono in piedi quasi di
peso, spingendola di nuovo contro la parete ruvida. Una mano le tirò su la
minigonna nera, l’altra le fece scivolare il top bianco fino a scoprire il
seno. Le dita rudi si strinsero attorno ai capezzoli eretti, strappandole un
gemito alto.
«Guarda come li ha duri… non aspettava
altro,» commentò uno, mentre l’altro rideva a bassa voce: «Questa viene solo a
farsi scopare.»
Elena mugolò, la schiena inarcata,
il corpo che vibrava tra loro due. «Sì… sì, vi voglio… fatemi vostra…»
Le mani maschili scesero ovunque,
audaci, sfacciate. Una le separava le cosce, affondando tra l’umidità calda che
già li aspettava, l’altra le stringeva i glutei con forza. I loro mormorii si
alternavano a parole crude: «Apriti bene…», «Così, troia…», «Non provare a
fermarti.»
Il respiro di Elena si spezzava in
gemiti continui, la voce rotta: «Sì… più forte… non fermatevi…»
Uno dei due le afferrò i fianchi
con forza, piegandola in avanti contro la parete. Elena gemette, le mani tese a
reggersi, la minigonna già sollevata a scoprire le curve. Dietro di lei, sentì
la pressione dura che la penetrava con impeto, strappandole un urlo spezzato.
«Così, troia, prendi tutto dentro,»
ringhiò alle sue spalle, le mani che la tenevano ferma come un trofeo.
Davanti, l’altro le afferrò il
mento, portandole il membro contro le labbra. «Apri bene la bocca, fai vedere
quanto sei brava.»
Elena gorgogliò, accogliendolo tra
le labbra mentre già gemeva per la spinta da dietro. I suoni si mescolavano: il
colpo dei fianchi, i mugolii soffocati, il respiro rotto.
«Guarda come li prende entrambi…
una vera troia da usare,» sibilò l’uomo davanti, muovendo la mano sulla sua
testa per imporre il ritmo.
Il compagno dietro rise, spingendo
con più forza: «La senti? È già bagnata fradicia, non vedeva l’ora.»
Elena mugolò, la bocca piena, gli
occhi lucidi mentre il suo corpo tremava stretto tra i due. Ogni colpo da
dietro le faceva spingere la bocca ancora più avanti, e ogni affondo davanti le
rubava il respiro. Ma tra i gemiti trovò la forza di mormorare: «Sì… usatemi…
voglio tutto…»
Le risero entrambi addosso,
eccitati dal suo abbandono. «Continua a succhiare, troia.»
«Spalanca bene le gambe, voglio sentirti
tutta.»
E lei obbediva, ansimando,
mugolando, la gola piena di suoni gutturali, il corpo che vibrava in quella
doppia invasione, in quell’alternanza che la faceva esplodere dentro.
Elena era piegata contro la parete,
il respiro spezzato, la bocca piena, mentre dietro di lei le spinte si facevano
sempre più forti, profonde, violente. Ogni affondo le strappava un gemito
gutturale che si mescolava al gorgoglio dei movimenti davanti.
«Guarda come ci succhia…» ringhiò
quello che la teneva per i capelli, imponendole il ritmo.
«E
guarda come stringe qui dietro… questa troia è fatta per noi,» ribatté l’altro,
spingendo ancora più a fondo.
Elena mugolava, gli occhi lucidi,
le mani che cercavano di afferrare la parete per reggere quell’assalto doppio.
Dentro, però, sentiva crescere l’ondata: non era solo il piacere fisico, era la
situazione, il rischio, il fatto di essere lì, usata e posseduta in pieno. «Sì…
sì… vi prego… non fermatevi!» riuscì a gemere tra un respiro e l’altro.
Quando la sentirono tremare, i due
si scambiarono con brutalità. Quello che era dietro le afferrò i capelli e la
spinse subito in bocca, mentre l’altro la piegava ancora di più, occupando il
posto alle sue spalle.
«Ora vediamo se la tua gola regge
davvero,» sibilò il nuovo davanti, facendole riempire la bocca fino al limite.
«E tu
stringi bene, troia, ti voglio sentire tutta,» grugnì quello dietro, mentre la
penetrava con forza.
Elena gorgogliò, mugolò, i suoni
strozzati che si facevano più forti, il corpo scosso da brividi continui. Le
gambe le cedettero, ma loro la tenevano ferma, piegata, incatenata dai loro
corpi. La sensazione la travolse: esplose in un orgasmo violento, improvviso,
che le fece urlare anche con la bocca piena, un suono roco, viscerale, che li
eccitò ancora di più.
«La senti? Sta venendo come una
troia,» gemette quello dietro, accelerando.
«Non
smettere, falla tremare!» rise l’altro, tenendola stretta contro di sé.
E lei godeva davvero, senza più
freni, la pelle bagnata di sudore, il corpo piegato e scosso tra loro, mentre i
due continuavano a usarla, scambiandosi ruoli, parole, spinte, finché ogni
parte di lei non divenne il loro sfogo.
I colpi rallentarono appena,
abbastanza perché uno dei due potesse ringhiare contro il suo orecchio: «Dove
lo vuoi, troia? Dove vuoi che ti veniamo addosso?»
Elena gemette, la voce roca,
spezzata, con la bocca ancora lucida per quello che aveva appena accolto. Alzò
lo sguardo, gli occhi bagnati di lacrime di piacere, il rossetto sbavato in un
sorriso febbrile. «Sul mio corpo… marchiatemi… voglio sentire tutto addosso.»
«Hai sentito?» rise l’altro,
ansimando mentre la stringeva forte da dietro. «Vuole essere sporcata, la
nostra troia.»
«Tienila ferma,» ordinò il
compagno, e con un ultimo affondo le scivolò fuori, portandole la mano alla
testa per farle sollevare il viso. L’altro lo seguì, tirandosi indietro con il
respiro spezzato, le mani che non lasciavano andare le sue cosce.
Elena era lì, piegata ma fiera, il
seno scoperto, i capezzoli tesi, il trucco che colava. «Fatelo,» li incitò, la
voce un gemito impastato, «voglio sentirvi sulla pelle… sul viso… ovunque.»
«Troia… sei nostra,» ringhiò uno,
pompando veloce con la mano, mentre l’altro mugolava un «Apri bene… guardaci
negli occhi adesso.»
Lei li fissò entrambi, le labbra
socchiuse, la lingua che passava lenta sulle labbra rosse. Un istante dopo i
getti caldi esplosero, schizzi densi che le colpirono il petto, il collo, le
spalle, fino a spruzzarle il viso. Elena chiuse gli occhi, ma non si mosse:
lasciò che ogni goccia la marchiasse, che colasse tra i seni, che le disegnasse
striature lucide sulle guance.
«Brava… sporca troia…» ansimò il
primo, piegandosi su di lei.
«Sei
perfetta così, piena del nostro piacere,» sussurrò l’altro, con un ghigno
soddisfatto.
Elena gemette ancora, passandosi
lentamente la mano sul petto bagnato e sollevandola verso le labbra. «Questo è
mio adesso,» disse a mezza voce, succhiandosi le dita con un sorriso sfatto e
provocatorio.
Se avete commenti, suggerimenti e critiche potete lasciarli qua sotto o scrivere a mogliemonella2024@gmail.com
Col passare delle settimane i volti
iniziavano a diventare familiari. Si imparavano i nomi, ci si scambiava battute
sul meteo, sulle vacanze estive, sul lavoro che non lasciava mai abbastanza
tempo. Alcuni padri si scoprivano tifosi di vecchia data, altri parlavano di
calcio come di una scienza esatta, le madri condividevano consigli su scuole,
compiti e piccole noie domestiche. Lentamente quel gruppo di sconosciuti si
trasformava in una piccola comunità, che si ritrovava ogni settimana a fare da
cornice alle partite dei figli.
Per Elena erano pomeriggi che
scorrevano sempre uguali, punteggiati da chiacchiere leggere e sorrisi di
circostanza.
Le prime settimane sugli spalti
avevano il sapore di un dovere: lo stesso campo, gli stessi novanta minuti, lo
stesso brusio di genitori che faticavano a riempire il tempo. Ma con il passare
delle partite le distanze cominciarono a sciogliersi. I saluti diventarono più
cordiali, i commenti più lunghi, finché non si formarono piccoli gruppi
stabili, come isole di familiarità dentro quella cornice rumorosa.
Giorgio si inserì naturalmente tra
i padri più appassionati, quelli che discutevano di schemi, ruoli e futuri
campioni. La sua attenzione era tutta per il figlio e per il confronto acceso
su ogni decisione dell’allenatore. Elena invece trovò più congeniale l’altro
lato, quello fatto di chiacchiere leggere e risate, di aneddoti di lavoro,
viaggi e battute innocue. In quel contesto la sua presenza risaltava ancora di
più. Non era solo il fisico tonico, messo in risalto da abiti sempre ricercati,
mai casuali, ma studiati per esaltare la linea dei fianchi o la lunghezza delle
gambe. Era anche il suo modo di sorridere, di spostare una ciocca di capelli,
di inclinare il corpo mentre ascoltava qualcuno parlare.
Non le sfuggì che alcuni padri la
osservavano con un’attenzione diversa, uno sguardo che si tratteneva un istante
di più del necessario, che indugiava prima di distogliersi. Occhiate a volte
velate, a volte palesi, che si mescolavano a battute galanti dette a mezza
voce. Elena non si sottraeva: accoglieva quegli sguardi con naturalezza, come
se le appartenessero, continuando a parlare e sorridere senza mostrare alcuna
forzatura.
La divisione dei ruoli divenne così
abituale: Giorgio immerso nelle sue disamine tecniche, lei immersa in un clima
di complicità leggera, sempre più affiatata con chi, settimana dopo settimana,
le stava accanto sugli spalti. I sabati pomeriggio non erano più un peso, ma un
piccolo teatro in cui lei poteva sentirsi osservata, desiderata e al centro di
attenzioni che il marito, distratto dal gioco, non notava affatto.
Con il passare delle settimane,
oltre alle chiacchiere sugli spalti, si instaurò una piccola routine che rese
quei sabati ancora più definiti. Durante l’intervallo, quando i ragazzi
correvano negli spogliatoi e gli allenatori urlavano le ultime indicazioni, un
gruppetto di genitori si muoveva verso il baretto del campo. Giorgio preferiva
restare seduto, convinto che fosse il momento migliore per analizzare la
partita e discutere con chi condivideva la sua passione tecnica. Elena invece
seguiva gli altri: era diventato il suo quarto d’ora d’aria, un momento per
distrarsi davvero.
Il baretto era piccolo, con il
bancone stretto e un via vai continuo. Ogni volta bisognava stringersi,
accalcarsi per ordinare un caffè, una bibita, qualcosa di caldo d’inverno. In
quelle situazioni di confusione Elena cominciò a notare piccoli dettagli che
non le sfuggirono affatto. Una mano che le sfiorava il fianco nel passare, un
contatto leggero sul braccio, un tocco alla schiena che poteva sembrare casuale
ma che si prolungava un attimo più del necessario. All’inizio rimase sorpresa,
poi capì che non era un episodio isolato: accadeva quasi ogni volta, in mezzo
alla calca del bancone, nascosto dalla scusa dello spazio angusto.
Quelle pause, da semplici
intermezzi, divennero sempre più lunghe. Il caffè si beveva in fretta, ma le
chiacchiere si allungavano, le risate diventavano più libere, e lei si trovava
spesso a rimandare il ritorno sugli spalti. Sapeva che Giorgio era ancora lì,
con lo sguardo fisso sul campo, ignaro di quei minuti in cui lei era immersa in
un’attenzione diversa, fatta di vicinanza, sguardi e sfioramenti che le davano
una sensazione segreta di elettricità.
Tra i genitori che frequentavano il
baretto durante l’intervallo, due padri in particolare iniziarono a spiccare
nella routine di Elena. Erano fumatori, e proprio per non lasciarli soli lei si
attardava con loro all’esterno, sorseggiando lentamente il suo caffè mentre
loro accendevano una sigaretta. All’inizio lo faceva per gentilezza, per non
rientrare subito sugli spalti, ma presto si rese conto che quelle soste si
stavano trasformando in qualcosa di più sottile.
I due sembravano sempre alla
ricerca di un contatto, e non perdeva occasione di accorgersene. Una mano che
le scivolava sulla spalla nel mezzo di una battuta, il gesto di spostarle una
ciocca di capelli quando il vento gliela portava davanti agli occhi, un tocco
leggero sul gomito mentre le parlavano. All’inizio quelle attenzioni la
mettevano a disagio, c’era un senso di invasione che non riusciva a ignorare.
Ma settimana dopo settimana, la costanza con cui quei gesti si ripetevano
trasformò la percezione: da fastidio, divennero consuetudine.
E da consuetudine si fecero piccola
abitudine. Ormai sapeva che sarebbe accaduto, quasi lo attendeva, e dentro di
sé cominciava a provare una sottile compiacenza. Quelle mani che trovavano
sempre il modo di sfiorarla, quei gesti che in apparenza avevano la leggerezza
di un nulla ma che le restituivano la certezza di essere osservata, desiderata,
scelta come punto focale. E così, mentre Giorgio rimaneva sugli spalti a
discutere di pressing e diagonali, lei iniziava a sentire che i suoi sabati
pomeriggio avevano assunto un nuovo sapore, fatto di piccole attenzioni che, da
importune, erano diventate un segreto piacere.
Col passare delle settimane fu
Elena stessa a introdurre una variazione silenziosa nella sua presenza sugli
spalti e al baretto. Senza quasi accorgersene, i suoi abiti cominciarono a
trasformarsi. Le gonne si fecero più corte e aderenti, i leggings lucidi che
fasciavano le gambe catturavano i riflessi del sole, le magliette scollate
lasciavano intravedere ciò che un tempo nascondeva con maggiore pudore. E
presto la rinuncia al reggiseno, gesto minimo ma dirompente, rese la sua figura
ancora più evidente agli occhi maschili: curve libere sotto il tessuto,
movimenti che non lasciavano nulla all’immaginazione.
I due padri notarono subito il
cambiamento. Non solo con gli sguardi, che si fecero più insistenti, ma anche
con parole che rompevano la barriera della convenzione. I complimenti si
moltiplicarono, mai apertamente sconci, ma sempre più mirati: sulla forma delle
gambe, sulla freschezza della pelle, sulla sensualità che traspariva anche da
un gesto banale. Elena li accoglieva con sorrisi leggeri, senza smentire, senza
schermirsi.
E pian piano gli argomenti di
conversazione cambiarono colore. Non più solo battute su lavoro e viaggi, ma
cenni a relazioni, a desideri, a ricordi che sconfinavano nel piccante. Frasi a
doppio senso dette con naturalezza, occhi che cercavano la sua reazione, mani
che trovavano ancora più occasioni per sfiorarla. Lei, che inizialmente si era
irrigidita davanti a tanta invadenza, cominciò invece a percepirla come un
gioco complice, un filo sottile che la teneva legata a quei sabati.
Il campo, la partita, la voce
dell’allenatore e il brusio degli altri genitori diventavano sfondo lontano,
mentre per lei il centro dell’attenzione era ormai quel piccolo cerchio fatto
di sguardi, gesti e parole che la accarezzavano più di qualsiasi mano.
Col tempo fu Elena a cambiare le
regole del gioco. Se all’inizio era stata lei a subire quelle attenzioni,
adesso cominciava a ricercarle, quasi a guidarle. Non c’era più soltanto il
sorriso che accoglieva i complimenti o il lasciarsi sfiorare con apparente
indifferenza. Adesso, in mezzo a quel gruppetto di genitori, erano le sue mani
a muoversi con leggerezza studiata.
Mentre parlava, rideva o ascoltava,
le capitava di posare la mano sul braccio di uno dei due, come a sottolineare
una frase. E in quell’attimo il pollice accarezzava appena il rilievo del
bicipite, testandone la solidità. Altre volte, scherzando, lasciava la mano più
in alto, sul petto, un gesto che agli occhi degli altri poteva sembrare
naturale, ma che per lei era tutto fuorché innocente: il calore che sentiva
sotto la stoffa la elettrizzava, e la consapevolezza di poterlo fare senza
destare sospetti aumentava il piacere.
I due uomini non si tiravano
indietro, anzi, accoglievano quei tocchi con sorrisi complici e frasi che
accentuavano il sottinteso. Per gli altri genitori erano scene comuni, gesti
tra persone che fraternizzavano con spontaneità. Per Elena, invece, era
diventata la parte più attesa del sabato: quel gioco di mani mascherato da
casualità, quella possibilità di assaporare la forza dei loro corpi senza che
nessuno potesse davvero imputarle nulla.
Ogni volta che la sua mano
scivolava su un petto o si stringeva appena a un braccio, sentiva crescere un
calore intimo, come se stesse alimentando un segreto incendio che solo lei
poteva percepire. E più lo faceva, più le riusciva naturale, fino a trasformare
quei piccoli contatti in una sua personale, raffinata forma di trasgressione.
Ormai i suoi tocchi erano diventati
naturali, parte di quella complicità silenziosa che nessun altro sembrava
notare. Ma fu proprio in quei gesti che iniziò ad accorgersi di qualcosa di
nuovo. Ogni volta che la sua mano indugiava un istante sul petto o sul braccio,
notava una reazione sottile, quasi impercettibile, che però non poteva
sfuggirle.
Un respiro che si faceva più
profondo, le spalle che si irrigidivano appena, un movimento rapido come per
ricomporsi. Qualche volta, quando si trovavano accalcati al bancone, la
vicinanza le permetteva di percepire una tensione diversa, un rigonfiamento
sotto i pantaloni che non lasciava spazio a dubbi. Non era mai palese, mai
dichiarato, ma per lei che aveva imparato a leggere i dettagli, era chiarissimo.
All’inizio fingeva di non
accorgersene, continuando a sorridere e a parlare come se nulla fosse. Ma
dentro sentiva crescere una scarica di eccitazione che le percorreva la pelle.
Il pensiero che bastasse un suo gesto, un suo tocco apparentemente innocuo, per
scatenare in loro quel tipo di reazione la faceva sentire potente, desiderata,
femmina fino in fondo.
Con il passare delle settimane
cominciò quasi a cercare quei segnali: sfiorava con più decisione, sostava un
attimo in più con la mano, piegava il corpo più vicino del necessario. Ogni
volta restava in ascolto, cogliendo quei piccoli movimenti che per gli altri
erano invisibili, ma che per lei erano come scintille in un fuoco che cresceva
silenzioso.
Quella volta Elena decise di alzare
la posta. Quando scese dall’auto, i tacchi che battevano sull’asfalto
catturarono l’attenzione ancor prima dell’abito. La minigonna grigio chiaro
aderentissima, corta al punto da sfiorare l’imprudenza, le disegnava le gambe
con un’armonia che nessuna calza avrebbe potuto migliorare. Sopra, la maglietta
rossa tesa sul seno, senza alcun reggiseno a contenerla, lasciava intravedere
il gioco netto dei capezzoli che pungevano contro il tessuto leggermente
trasparente. Ogni passo era una promessa.
Il volto completava la
provocazione: eyeliner allungato ben oltre l’occhio, che le dava uno sguardo
tagliente e felino; labbra scolpite da un rossetto rosso lucido, vivo come il
peccato; i capelli raccolti in una coda alta, tirata a lasciare il collo e le
spalle nudi, offerti senza difese. Non era un caso, non era leggerezza: era una
dichiarazione.
Giorgio, accanto a lei, la guardò
di traverso più volte, con un misto di sorpresa e sospetto. Non disse nulla, ma
il suo silenzio parlava. Elena, invece, si comportò come se tutto fosse
naturale, salutando i soliti volti, sorridendo, occupando il suo posto sugli
spalti. Le chiacchiere scorrevano tranquille, la partita teneva occupato il
marito, e lei sembrava parte della routine di sempre.
Fu solo nell’intervallo, quando il
gruppetto si mosse verso il baretto, che la tensione nascosta prese forma.
Accalcati al bancone, in mezzo a spintoni e strettoie, Elena sentì addosso a sé
quegli sguardi che conosceva bene. I due padri non persero occasione di notare ogni
dettaglio: il tessuto che cedeva, la curva che si intravedeva, il rosso che le
incendiava la bocca. Le parole si fecero più basse, i sorrisi più insistenti. E
bastò un movimento, una spinta apparente, perché la sua schiena si trovasse
sfiorata, un braccio le cingesse appena il fianco per "farle spazio",
le dita si posassero con troppa naturalezza dove non avrebbero dovuto.
Elena trattenne un sorriso,
sollevando appena lo sguardo. Non serviva dire nulla: l’equilibrio era già
cambiato.
Il momento arrivò in un battito di
ciglia. Elena, stretta al bancone, percepì distinto un palmo posarsi sulla sua
natica. Un gesto pieno, deciso, che non poteva essere confuso con la casualità
della calca. Si voltò di scatto, istintivamente pronta a esplodere in un urlo, a
difendersi davanti a tutti. Ma lo sguardo si incrociò con quello di uno dei due
padri, che non ritrasse la mano: anzi, rimase lì, con un sorriso sfrontato e
sicuro, come se quel contatto fosse naturale.
Il cuore di Elena ebbe un sussulto.
Attimi che sembrarono eterni, fino a quando lei, invece di respingerlo, rispose
con lo stesso linguaggio: un sorriso lento, carico di complicità. In
quell’istante avvertì un nuovo tocco, questa volta più in basso: dita che le
risalivano la coscia nuda, scivolando appena sotto l’orlo della minigonna. Si
voltò dall’altra parte, e trovò l’altro padre, lo stesso sorriso sulle labbra,
lo stesso ardire negli occhi.
Nessuno degli altri genitori
sembrava essersi accorto di nulla. Il brusio copriva tutto, i corpi stretti
rendevano quei contatti invisibili agli sguardi esterni. Era solo lei, al
centro di un gioco che fino a qualche tempo prima avrebbe giudicato
impensabile. Invece, in quel momento, la scelta fu netta: decise di lasciarsi
andare.
Non mosse le mani per fermarli, non
fece un passo indietro. Restò lì, accettando quei tocchi come un segreto
condiviso, sentendo la pelle che bruciava sotto il tessuto e un calore che le
saliva dentro, potente e irresistibile. E mentre sorrideva ancora, Elena capì
che il confine era stato superato.
Uscirono come sempre, con la
naturalezza di un rito che nessuno metteva in discussione. Il gruppetto si
divise tra chi restava al bancone e chi preferiva sgranchirsi le gambe, e loro
tre imboccarono la solita direzione verso l’esterno del baretto. Giorgio era
rimasto sugli spalti, gli occhi fissi sulla partita: una certezza che dava ad
Elena quella libertà segreta.
Appena fuori, l’aria fresca le
accarezzò le gambe nude sotto la minigonna cortissima. I due uomini accesero le
sigarette con gesti lenti, chiacchierando come se nulla fosse cambiato. Eppure,
nel giro di pochi istanti, le mani cominciarono a farsi vive. Una le scivolò
alla vita, stringendola con naturalezza, ma invece di fermarsi restò lì, il
pollice che tracciava cerchi appena sopra il gluteo. L’altra le passò sulla
schiena, proprio dove la maglietta aderente si tendeva, e risalì fino al collo,
sfiorandole la pelle liscia sotto la coda tirata.
Elena sorrise, fingendo che fosse
solo un gesto amichevole, ma dentro sentì il cuore accelerare. Quando lui
inspirò dal filtro e avvicinò la bocca al suo orecchio per dirle una battuta,
la mano già era scesa sotto l’orlo della minigonna, adagiata sulla curva piena
della natica. L’altro, non meno audace, infilò le dita all’interno del braccio,
risalendo fino al fianco, sfiorandole il seno senza la barriera del reggiseno:
un tocco rapido, ma deciso, che fece trasparire sotto la stoffa il tremito dei
capezzoli già in evidenza.
I movimenti restavano coperti
dall’apparenza: tre adulti che ridevano, che parlavano fitto, che si
stringevano in uno spazio ridotto. Ma nel dettaglio i loro corpi dicevano
altro. Una mano sulla coscia, che saliva fino a lambire l’attaccatura; l’altra
che, fingendo di sistemarle la maglietta, indugiava sul petto, le dita che
sfioravano il contorno del capezzolo teso. E lei non li fermava. Restava
immobile, complice, con il sorriso sulle labbra e il respiro appena più
profondo.
Sapeva che si stavano prendendo la
libertà di esplorarla ovunque, lì, a pochi metri dagli altri genitori. E non solo
lo accettava: il brivido di quel rischio la incendiava dentro, fino a farle
percepire ogni tocco come un segreto marchio di desiderio inciso sulla pelle.
Le voci degli altri genitori
arrivavano ovattate dal campo, eppure per Elena era come se esistessero solo
quelle due mani che la stringevano, la esploravano, la facevano vibrare. Una
sulla natica, che affondava con decisione, l’altra che non smetteva di
indugiare sul seno libero, sfiorando il capezzolo teso attraverso la maglietta.
E poi le sue mani, che ormai si muovevano senza esitazione, stringendo a turno
le erezioni dei due uomini, saggiandone la forza e la durezza, con un
compiacimento che le incendiava l’anima.
Non era il tocco in sé a portarla
oltre, ma la situazione. L’essere lì, all’aperto, a pochi passi da chiunque, e
vivere qualcosa che non avrebbe mai pensato di permettersi. Sentiva il calore
del sangue accelerare nelle vene, le gambe diventare leggere, un tremito che le
saliva dalla pancia fino al petto. Ogni risata che fingeva per coprire l’evidenza
era in realtà un gemito trattenuto, e dentro di sé sapeva che stava già godendo.
Il piacere esplose silenzioso,
invisibile agli altri, ma devastante per lei. Il respiro divenne irregolare, la
pelle bollente, il ventre contratto in una scossa che nessuna mano aveva
davvero provocato: era l’eccitazione della situazione a travolgerla, l’osceno
contrasto tra la normalità apparente e la realtà segreta. Godette in silenzio,
con le mani ancora strette sui due uomini, i sorrisi scambiati come maschere di
un gioco che ormai non poteva più essere fermato.
Elena, scossa dal piacere che
l’aveva travolta, sente le gambe cedere per un istante. I due uomini la
sorreggono con naturalezza, come se fosse parte del gioco: le mani che fino a
un attimo prima l’avevano esplorata ora la tengono in piedi, stringendole i
fianchi e le braccia per non farle vacillare. Lei inspira a fondo, cerca di
ricomporsi, il cuore che martella ancora.
È allora che uno dei due si china
appena verso il suo orecchio. Il tono è basso, ma non lascia spazio a dubbi:
«Adesso sei in debito con noi.» L’altro completa la frase, con lo stesso
sorriso sicuro che aveva avuto quando per primo l’aveva toccata: «Il prossimo
sabato saprai come sdebitarti.»
Elena resta immobile, lo sguardo
che si accende e il petto che ancora si solleva rapido sotto la maglietta
rossa. Non risponde, non nega, non finge indignazione. Si limita a trattenere
quel sorriso che le sfiora le labbra, segno che ha capito e che, dentro di sé,
sa già che non potrà tornare indietro.
Il sabato successivo Elena scese
dall’auto con passo lento, quasi studiato. La minigonna nera, lucida come pelle
tirata, le aderiva senza margine, corta al punto che ogni movimento lasciava
intuire la promessa nascosta. Sopra portava un top bianco senza spalline, teso
sul seno libero, i capezzoli ben visibili sotto il tessuto sottile. Una
giacchina corta, lasciata aperta, completava l’insieme senza coprirla davvero,
mentre i tacchi sottili obbligavano il suo corpo a oscillare sensuale a ogni
passo.
Il trucco, marcato, non lasciava
dubbi: eyeliner allungato che le scavava lo sguardo, rossetto rosso vivo, lo
stesso del sabato precedente, lucido come un sigillo. I capelli raccolti ancora
in alto, a scoprire il collo e le spalle nude, lisce, perfette. Non c’era nulla
di casuale: ogni dettaglio parlava per lei, per il debito che portava dentro.
Giorgio, accanto, la guardò di
nuovo in tralice, quasi rassegnato a quell’esibizione che non riusciva più a
spiegarsi. Ma non disse nulla, come al solito. Sugli spalti la solita routine
prese forma, i gruppetti di genitori a chiacchierare, il brusio del campo, le
urla dei ragazzi. Ma per Elena nulla era come prima. Sapeva che, non appena
sarebbe scattato l’intervallo, il suo ruolo non sarebbe stato quello di
semplice spettatrice o madre, ma di donna chiamata a pagare ciò che aveva
concesso sette giorni prima.
E quando il primo tempo si chiuse,
i due uomini si alzarono insieme, lanciandole uno sguardo che non aveva bisogno
di parole. Lei sorrise appena, si alzò senza esitare, e li seguì verso il
baretto, con la minigonna che ondeggiava e gli occhi addosso che non le
importava più di nascondere.
Allo scadere del primo tempo Elena
si alzò come sempre, pronta a seguire i due verso il baretto. Ma stavolta non
andarono in quella direzione. Uno di loro le posò una mano sulla schiena,
l’altro le si affiancò stretto e, con un cenno appena accennato, la guidarono
lontano dal flusso dei genitori. Un “andiamo” sussurrato bastò. Lei non chiese
nulla, non oppose resistenza: si lasciò condurre, con il cuore che già batteva
più forte.
Il brusio sugli spalti copriva
tutto, e tra genitori distratti e ragazzi che correvano urlando, tre figure che
si allontanavano non richiamarono alcuna attenzione. Percorsero un corridoio
laterale, poi ancora più dietro, verso una zona dimenticata del campo: il retro
della tribuna, un passaggio che portava agli spogliatoi e a un magazzino
chiuso. Lì non c’era nessuno, solo il vento che muoveva i cartelloni e il
rumore ovattato della partita in lontananza.
Fu in quell’angolo isolato che le
mani cominciarono a prendersi libertà nuove. Non più sfioramenti coperti
dall’alibi della folla, ma tocchi aperti, audaci, senza esitazione. Una la
spinse leggermente contro la parete ruvida, i palmi a stringerle i glutei sotto
la minigonna lucida, le dita che salivano con forza lungo le cosce. L’altro le
aprì la giacchina corta, lasciando il top bianco in piena vista, e vi affondò
subito, pizzicandole il capezzolo già eretto, duro, che tradiva la sua
eccitazione.
Elena trattenne un respiro, gli
occhi socchiusi, il corpo che tremava non di paura ma di piacere. Nessuna
parola, solo gesti. E per la prima volta capì che il debito reclamato sette
giorni prima stava prendendo forma, lì, nascosto ma vicinissimo al mondo di
fuori.
Le mani forti la staccarono dal
muro, spingendola un passo avanti. Si ritrovò tra loro due, i fianchi stretti
dai corpi caldi, e un ordine basso le tagliò l’aria.
«In ginocchio, adesso.»
Elena rabbrividì. Non ci fu
esitazione: scivolò giù lentamente, i tacchi che graffiavano il cemento, lo
sguardo rivolto in alto verso quei due sguardi bramosi. Li vide sbottonarsi in
fretta, e l’evidenza della loro eccitazione apparve davanti al suo viso.
«Dai, troia, succhiali adesso,»
sibilò uno, avvicinandosi ancora.
Il cuore le esplose nel petto, le
mani tremanti che li afferrarono entrambi. Li strinse, saggiando la durezza
sotto le dita, e subito abbassò il capo per sfiorare con le labbra l’uno e poi
l’altro, alternando baci rapidi e umidi sulla punta.
«Così, brava… continua.» La voce
roca le scivolò nelle orecchie come una frustata.
Elena gemette piano, il suono
soffocato mentre lasciava un bacio più lungo, poi rideva a mezza bocca,
sollevando lo sguardo: «Vi piace, eh? Non vi basta mai…»
«Zitta e fai il tuo dovere,»
ringhiò l’altro, poggiandole una mano dietro la testa per guidarne i movimenti.
Lei mugolò ancora, il respiro caldo
che avvolgeva la pelle tesa sotto le labbra, le mani che continuavano a
muoversi in un ritmo alternato, avvolgendo, stringendo, provocando. Ogni volta
che baciava la punta di uno, l’altro gemeva accanto, le dita che le stringevano
le spalle.
«Guarda come gode… la puttanella
non vedeva l’ora,» sussurrò uno dei due.
Elena li interruppe con un gemito
più forte, un suono gutturale che tradiva la sua eccitazione. «Sì… sì, vi
voglio così…»
«Apri bene la bocca, fai vedere che
sei brava,» ordinò uno, la mano che le premeva sulla nuca.
Elena obbedì, le labbra lucide che
scivolarono su di lui con lentezza, mentre l’altro gemeva al solo guardare. Un
suono gutturale le riempì la gola, mescolato al loro respiro caldo. Le mani
continuavano a stringerli entrambi, ma ora il ritmo era diverso: serio, deciso,
come se ogni movimento fosse una prova.
«Guarda come ci succhia… sembra
nata per questo,» disse l’altro con una risata bassa, eccitata.
Lei mugolò, la bocca piena,
incapace di rispondere, ma lo sguardo sollevato diceva tutto. Gli occhi lucidi,
le ciglia sbattute, un gemito che vibrava attorno alla carne che la colmava.
«Più forte… sì, così… prendi tutto
dentro,» la incalzò il primo, muovendole il capo con forza regolare.
Elena gorgogliò, le mani sempre
strette sull’altro, che gemeva piano, la punta baciata e tormentata dai suoi
pollici e dalle carezze delle dita. Ogni volta che lo lasciava per respirare,
ci passava la lingua sopra, lenta, maliziosa.
«Sei la nostra troia adesso, hai
capito?» La voce roca calò su di lei.
Un mugolio gutturale fu l’unica
risposta, un suono che fece ridere entrambi, eccitati ancora di più. Le
spinsero la testa avanti e indietro, imponendole il ritmo, mentre lei si
abbandonava al gesto, la bocca che lavorava senza tregua, le mani che non
smettevano di stringerli con avidità.
«Così… non fermarti… sì, continua,»
gemettero in coro, e ogni parola cadeva su di lei come una catena, come un
marchio di possesso che la spingeva ancora più in basso.
Uno dei due le afferrò il viso,
costringendola a sollevare lo sguardo. Le labbra erano arrossate, lucide, un
filo di saliva che le colava al mento. «Brava… ma adesso basta con i giochini.
Sei in debito, ricordi?»
L’altro rise, piegandosi su di lei:
«La nostra troia deve darci molto di più.»
Elena ansimò, le mani ancora
strette su entrambi, il respiro che le bruciava la gola. «Sì… ditemi cosa
volete…»
La sollevarono in piedi quasi di
peso, spingendola di nuovo contro la parete ruvida. Una mano le tirò su la
minigonna nera, l’altra le fece scivolare il top bianco fino a scoprire il
seno. Le dita rudi si strinsero attorno ai capezzoli eretti, strappandole un
gemito alto.
«Guarda come li ha duri… non aspettava
altro,» commentò uno, mentre l’altro rideva a bassa voce: «Questa viene solo a
farsi scopare.»
Elena mugolò, la schiena inarcata,
il corpo che vibrava tra loro due. «Sì… sì, vi voglio… fatemi vostra…»
Le mani maschili scesero ovunque,
audaci, sfacciate. Una le separava le cosce, affondando tra l’umidità calda che
già li aspettava, l’altra le stringeva i glutei con forza. I loro mormorii si
alternavano a parole crude: «Apriti bene…», «Così, troia…», «Non provare a
fermarti.»
Il respiro di Elena si spezzava in
gemiti continui, la voce rotta: «Sì… più forte… non fermatevi…»
Uno dei due le afferrò i fianchi
con forza, piegandola in avanti contro la parete. Elena gemette, le mani tese a
reggersi, la minigonna già sollevata a scoprire le curve. Dietro di lei, sentì
la pressione dura che la penetrava con impeto, strappandole un urlo spezzato.
«Così, troia, prendi tutto dentro,»
ringhiò alle sue spalle, le mani che la tenevano ferma come un trofeo.
Davanti, l’altro le afferrò il
mento, portandole il membro contro le labbra. «Apri bene la bocca, fai vedere
quanto sei brava.»
Elena gorgogliò, accogliendolo tra
le labbra mentre già gemeva per la spinta da dietro. I suoni si mescolavano: il
colpo dei fianchi, i mugolii soffocati, il respiro rotto.
«Guarda come li prende entrambi…
una vera troia da usare,» sibilò l’uomo davanti, muovendo la mano sulla sua
testa per imporre il ritmo.
Il compagno dietro rise, spingendo
con più forza: «La senti? È già bagnata fradicia, non vedeva l’ora.»
Elena mugolò, la bocca piena, gli
occhi lucidi mentre il suo corpo tremava stretto tra i due. Ogni colpo da
dietro le faceva spingere la bocca ancora più avanti, e ogni affondo davanti le
rubava il respiro. Ma tra i gemiti trovò la forza di mormorare: «Sì… usatemi…
voglio tutto…»
Le risero entrambi addosso,
eccitati dal suo abbandono. «Continua a succhiare, troia.»
«Spalanca bene le gambe, voglio sentirti
tutta.»
E lei obbediva, ansimando,
mugolando, la gola piena di suoni gutturali, il corpo che vibrava in quella
doppia invasione, in quell’alternanza che la faceva esplodere dentro.
Elena era piegata contro la parete,
il respiro spezzato, la bocca piena, mentre dietro di lei le spinte si facevano
sempre più forti, profonde, violente. Ogni affondo le strappava un gemito
gutturale che si mescolava al gorgoglio dei movimenti davanti.
«Guarda come ci succhia…» ringhiò
quello che la teneva per i capelli, imponendole il ritmo.
«E
guarda come stringe qui dietro… questa troia è fatta per noi,» ribatté l’altro,
spingendo ancora più a fondo.
Elena mugolava, gli occhi lucidi,
le mani che cercavano di afferrare la parete per reggere quell’assalto doppio.
Dentro, però, sentiva crescere l’ondata: non era solo il piacere fisico, era la
situazione, il rischio, il fatto di essere lì, usata e posseduta in pieno. «Sì…
sì… vi prego… non fermatevi!» riuscì a gemere tra un respiro e l’altro.
Quando la sentirono tremare, i due
si scambiarono con brutalità. Quello che era dietro le afferrò i capelli e la
spinse subito in bocca, mentre l’altro la piegava ancora di più, occupando il
posto alle sue spalle.
«Ora vediamo se la tua gola regge
davvero,» sibilò il nuovo davanti, facendole riempire la bocca fino al limite.
«E tu
stringi bene, troia, ti voglio sentire tutta,» grugnì quello dietro, mentre la
penetrava con forza.
Elena gorgogliò, mugolò, i suoni
strozzati che si facevano più forti, il corpo scosso da brividi continui. Le
gambe le cedettero, ma loro la tenevano ferma, piegata, incatenata dai loro
corpi. La sensazione la travolse: esplose in un orgasmo violento, improvviso,
che le fece urlare anche con la bocca piena, un suono roco, viscerale, che li
eccitò ancora di più.
«La senti? Sta venendo come una
troia,» gemette quello dietro, accelerando.
«Non
smettere, falla tremare!» rise l’altro, tenendola stretta contro di sé.
E lei godeva davvero, senza più
freni, la pelle bagnata di sudore, il corpo piegato e scosso tra loro, mentre i
due continuavano a usarla, scambiandosi ruoli, parole, spinte, finché ogni
parte di lei non divenne il loro sfogo.
I colpi rallentarono appena,
abbastanza perché uno dei due potesse ringhiare contro il suo orecchio: «Dove
lo vuoi, troia? Dove vuoi che ti veniamo addosso?»
Elena gemette, la voce roca,
spezzata, con la bocca ancora lucida per quello che aveva appena accolto. Alzò
lo sguardo, gli occhi bagnati di lacrime di piacere, il rossetto sbavato in un
sorriso febbrile. «Sul mio corpo… marchiatemi… voglio sentire tutto addosso.»
«Hai sentito?» rise l’altro,
ansimando mentre la stringeva forte da dietro. «Vuole essere sporcata, la
nostra troia.»
«Tienila ferma,» ordinò il
compagno, e con un ultimo affondo le scivolò fuori, portandole la mano alla
testa per farle sollevare il viso. L’altro lo seguì, tirandosi indietro con il
respiro spezzato, le mani che non lasciavano andare le sue cosce.
Elena era lì, piegata ma fiera, il
seno scoperto, i capezzoli tesi, il trucco che colava. «Fatelo,» li incitò, la
voce un gemito impastato, «voglio sentirvi sulla pelle… sul viso… ovunque.»
«Troia… sei nostra,» ringhiò uno,
pompando veloce con la mano, mentre l’altro mugolava un «Apri bene… guardaci
negli occhi adesso.»
Lei li fissò entrambi, le labbra
socchiuse, la lingua che passava lenta sulle labbra rosse. Un istante dopo i
getti caldi esplosero, schizzi densi che le colpirono il petto, il collo, le
spalle, fino a spruzzarle il viso. Elena chiuse gli occhi, ma non si mosse:
lasciò che ogni goccia la marchiasse, che colasse tra i seni, che le disegnasse
striature lucide sulle guance.
«Brava… sporca troia…» ansimò il
primo, piegandosi su di lei.
«Sei
perfetta così, piena del nostro piacere,» sussurrò l’altro, con un ghigno
soddisfatto.
Elena gemette ancora, passandosi
lentamente la mano sul petto bagnato e sollevandola verso le labbra. «Questo è
mio adesso,» disse a mezza voce, succhiandosi le dita con un sorriso sfatto e
provocatorio.
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