Elena segretaria
di
Ironwriter2025
genere
tradimenti
Elena aveva ventisette anni, un bambino piccolo a casa e un nuovo ruolo che non si sarebbe mai immaginata: segretaria nello studio immobiliare del padre. L’ufficio non era grande, ma ordinato con cura. C’era la stanza principale, dove il padre passava le giornate alla scrivania, sempre impeccabile con i fascicoli ben disposti e la penna infilata nel taschino, e accanto una sala riunioni semplice ma elegante, pensata per ricevere i clienti senza farli sentire a disagio. Un tavolo ampio, alcune sedie comode, una vetrata che dava sulla strada e lasciava entrare la luce.
Per lei, che veniva da un lavoro manuale e frenetico come quello dell’estetica, tutto sembrava improvvisamente più lento, più misurato. Il telefono che squillava, le agende da riempire, i documenti da battere a macchina o da sistemare con attenzione nei raccoglitori. All’inizio si sentiva fuori posto, quasi un’intrusa nel regno del padre, ma giorno dopo giorno cominciò a capire che quella nuova routine poteva appartenerle.
Il padre era severo ma non inflessibile, le spiegava i passaggi senza alzare la voce, e la lasciava osservare le riunioni in sala con una certa fierezza silenziosa. Elena si accorgeva di quanto contasse la presenza, il modo di accogliere chi entrava, il saper offrire un caffè al momento giusto. Piccoli gesti che facevano la differenza. E dentro di sé sentiva crescere una consapevolezza nuova: non era più solo la ragazza che curava la pelle e le unghie delle clienti, adesso aveva accesso al dietro le quinte di decisioni importanti, di case vendute, di vite che cambiavano indirizzo.
Il periodo dopo il parto aveva lasciato pochi segni sul corpo di Elena. Il fisico, allenato da anni di palestra e disciplina, si era ripreso con rapidità sorprendente, restituendole presto la linea asciutta e le forme compatte di un tempo. Solo il seno era cambiato davvero: una terza abbondante, piena e soda, che sembrava scolpita più che gonfiata, e che Giorgio guardava con orgoglio e desiderio, come fosse un dono imprevisto della maternità.
Ma la vita di coppia, proprio in quei mesi, aveva subito uno scossone. La gravidanza aveva limitato gli slanci, il parto li aveva frenati ulteriormente, e infine il piccolo che si svegliava puntualmente “sul più bello” aveva trasformato ogni tentativo di intimità in un’interruzione frustrante. Non c’era stata vera distanza tra loro, non ancora, ma quell’allontanamento fisico cominciava a pesare, a insinuarsi nei pensieri di entrambi. Elena si scopriva a desiderare carezze che non arrivavano, a immaginare momenti che finivano sempre bruscamente, lasciandole addosso la tensione irrisolta di un corpo giovane che non voleva rinunciare al piacere.
In quelle mattine d’ufficio accanto al padre, mentre batteva lettere o rispondeva al telefono, a volte le tornava alla mente l’immagine di Giorgio che la fissava con gli occhi scuri e impazienti, fermo sulla soglia della camera da letto, e si chiedeva quanto ancora sarebbero andati avanti così, sospesi tra il ruolo di genitori e quello di amanti.
Elena aveva imparato presto a trasformare le ore tranquille in ufficio in un gioco segreto. Il padre era concentrato dietro la sua scrivania, chino sulle carte, e lei sapeva di avere attimi di invisibilità in cui poter osare. Allungava la gamba sotto il tavolo, sollevava appena l’orlo della minigonna e con il telefono catturava l’immagine precisa del pizzo nero che segnava il confine tra coscia nuda e autoreggente. Altre volte abbassava l’inquadratura sul décolleté, un taglio di luce che scivolava tra i seni gonfi, messi in risalto dal respiro lento e studiato. Oppure incrociava le gambe con eleganza, inclinando appena il piede, lasciando che la linea morbida della coscia parlasse da sola.
Non erano foto esplicite, non voleva che lo fossero. Erano schegge di desiderio, dettagli scelti con una cura maniacale, più forti di qualunque nudo, perché lasciavano immaginare, costringevano a completare il quadro con la fantasia. Premuto il tasto d’invio, si abbandonava a un brivido silenzioso: l’idea che Giorgio, in quel momento, potesse fermarsi di colpo al lavoro o tra le faccende di casa per guardare solo lei. Era il suo modo di dirgli che nonostante la maternità, il sonno interrotto, i pianti notturni, dentro di sé restava viva la donna che voleva sentirsi desiderata, guardata, presa.
La sveglia suonò in una casa già mezza vuota. Giorgio era uscito presto, il bambino finalmente si era addormentato dopo una notte agitata che li aveva tenuti lontani ancora una volta, e Elena restò a letto qualche minuto in più, con lo sguardo perso nel soffitto e un corpo che urlava ciò che non aveva ottenuto. Aveva voglia di sesso, una voglia che le stringeva lo stomaco e le faceva bruciare la pelle, come un desiderio accumulato notte dopo notte e sempre rimandato.
Si alzò lentamente, nuda, lasciando che l’aria fresca della mattina le accarezzasse la pelle. Si guardò allo specchio del bagno: le occhiaie leggere tradivano la stanchezza, ma il corpo era lì, vivo, pronto, con le curve riprese dopo il parto e quel seno pieno che la faceva sentire più donna che mai. Un sorriso le scappò dalle labbra: se Giorgio non trovava il coraggio o il tempo di prenderla, sarebbe stata lei a provocarlo fino all’esasperazione.
Aprì l’armadio e scelse senza esitazioni. Il body in ecopelle la aspettava, stretto e lucido, con gli inserti in tulle che le disegnavano la pelle come una trama segreta. Lo infilò lentamente, godendosi la sensazione della stoffa che scivolava sulle cosce e si stringeva attorno al seno, sollevandolo in un push up che lo rendeva ancora più teso e invitante. Le autoreggenti sottilissime, 10 denari, si allungarono sulle gambe come una carezza di seta, e la riga nera dietro trasformò ogni passo in una promessa indecente. Poi la minigonna in pelle, aderente come una seconda pelle, metà coscia appena e quello spacchetto laterale che, già sedendosi sul letto per allacciarla, lasciava intuire il bordo ricamato dell’autoreggente.
Si fermò di nuovo davanti allo specchio, tirò su i capelli in una coda alta, ordinata ma aggressiva, e cominciò a truccarsi con mano sicura: matita nera marcata sugli occhi, mascara generoso, un rossetto intenso che faceva vibrare il contrasto con la pelle chiara. Elena prese la giacca dall’appendiabiti quasi con solennità. Era una giacca corta, sciancrata, pensata per stringerle la vita e accompagnare le curve dei fianchi. Il tessuto rigido la obbligava a mantenere le spalle dritte, il petto in avanti, come se il suo corpo fosse continuamente in posa. La infilò con un gesto deciso, poi tirò il tessuto verso il basso per farlo aderire meglio. Il singolo bottone, chiuso con attenzione, non aveva la funzione di coprire, ma di esaltare: spingeva i seni sollevati dal body a premerle contro il tessuto, accennando una forma piena che si intuiva già da lontano.
Guardandosi allo specchio, si rese conto che quella giacca era la chiave dell’intero gioco: da fuori le dava l’aria professionale della segretaria elegante, ma bastava muoversi appena, piegarsi in avanti o allungare una mano sulla scrivania, perché la linea del décolleté o il bordo della minigonna tradissero la verità. Senza di lei, il resto sarebbe stato sfacciato; con lei, tutto diventava più pericoloso, perché nascosto dietro una facciata di rigore.
Si voltò di profilo e sorrise. Quell’abito non era un vestito da lavoro, era un’arma. E Giorgio, appena avesse ricevuto le sue foto, lo avrebbe capito meglio di chiunque altro.
Elena arrivò in ufficio con passo deciso, la minigonna che la costringeva a muovere i fianchi appena di più, il tacco che scandiva il ritmo sul pavimento lucido. Aprì le finestre, fece entrare la luce, accese il computer. Aveva già in mente il primo scatto da inviare a Giorgio: una foto presa seduta alla scrivania, le gambe accavallate con lo spacco che lasciava intravedere il pizzo dell’autoreggente.
Il telefono squillò prima che potesse togliersi la giacca. Era suo padre. La voce era tesa, insolita.
«Elena, ascolta. È successo un imprevisto, non posso rientrare in tempo. Oggi pomeriggio arrivano i clienti per la villa di via Montello. Sai bene quanto sia importante: se perdiamo questa vendita, l’agenzia rischia davvero grosso. Dovrai occupartene tu. Non ci sono alternative.»
Lei restò in silenzio qualche secondo, con il cuore che le accelerava nel petto. Non aveva mai gestito una trattativa da sola, tanto meno con una proprietà così importante. Cercò di protestare, ma la voce paterna fu ferma:
«Hai visto decine di volte come mi muovo. Accoglili bene, mostrati sicura, non lasciare nulla al caso. E ricorda: devi fare di tutto per convincerli.»
Quando chiuse la chiamata, Elena rimase a fissare lo schermo del telefono, come se le parole appena ascoltate dovessero sedimentare. Era partita quella mattina con l’idea di giocare, di provocare Giorgio con le foto audaci, e ora si ritrovava con una missione cruciale. Il contrasto la elettrizzò: dentro di sé, un brivido le corse lungo la schiena.
Appoggiò il telefono sulla scrivania e restò qualche secondo immobile, ascoltando il silenzio dell’ufficio. Sentiva il battito del cuore rimbombarle nelle orecchie, come se tutto il corpo stesse reagendo alla notizia. Avrebbe dovuto affrontare i clienti da sola, lei che fino a quel momento aveva solo preso appunti, servito caffè, annotato cifre. Ma non era questo a spaventarla davvero. Ciò che la turbava e la eccitava allo stesso tempo era l’abito che aveva scelto quella mattina.
Si alzò e andò verso lo specchio alto nell’angolo della sala riunioni. L’immagine che le restituì la superficie lucida la fece quasi sussultare. La giacca aderente, chiusa da un solo bottone, non riusciva a celare ciò che aveva sotto: l’ecopelle del body, con gli inserti in tulle che giocavano a trasparire, sosteneva il seno con l’effetto push up incorporato. Il petto le appariva gonfio, teso, sospinto verso l’alto in una forma perfetta che spingeva contro il tessuto della giacca. Ogni respiro faceva vibrare quella linea di pelle e tulle che correva lungo il solco del seno, un taglio profondo e sensuale che non lasciava spazio a dubbi.
Abbassò lo sguardo e notò la minigonna che le fasciava i fianchi come una seconda pelle. Lo spacchetto laterale, innocuo se restava immobile, minacciava di rivelare l’orlo dell’autoreggente a ogni minimo movimento, quasi fosse un gioco perverso tra ciò che voleva restare nascosto e ciò che chiedeva di essere visto.
Si osservò a lungo, con un misto di paura e compiacimento. Sapeva che i clienti stavano per arrivare, e sapeva anche che avrebbe dovuto accoglierli proprio così: con addosso un abito che, più che coprirla, la esaltava. Un brivido le percorse la schiena, trasformando l’ansia in eccitazione. Quel giorno, più che mai, tutto dipendeva da lei.
Fu in quel momento che le tornarono alla mente le parole del padre al telefono, pronunciate con tono grave: “Devi fare qualunque cosa per venderla.” Quelle sillabe, ripetute nella sua testa, le fecero tremare le gambe. Sentì il cuore batterle forte, e un calore improvviso scendere nel ventre, accendendole la pelle. Qualunque cosa. L’eco di quella frase si mescolava al riflesso nello specchio, e in quell’istante Elena comprese che non era più solo una figlia obbediente o una segretaria inesperta: era una donna che stava per entrare in un gioco che poteva andare oltre ogni limite.
La porta dell’ufficio si aprì all’orario stabilito, e il rumore dei passi nel corridoio ruppe l’attesa. Elena si alzò di scatto, stirando la minigonna con le mani e cercando di dare fermezza al respiro. Tre uomini entrarono insieme, sicuri, lo sguardo già pronto a valutare. Due portavano cartelle sottili e giacche eleganti: gli avvocati, con quell’aria di chi pesa ogni parola. L’altro, più robusto, con il portamento pratico e lo sguardo diretto, doveva essere l’ingegnere incaricato di verificare la solidità della villa.
«Buongiorno,» disse Elena con un filo di voce che subito corresse, rendendola più ferma. Indicò loro la sala riunioni e li fece accomodare, osservando come gli occhi dei tre si posarono per un attimo su di lei, non con malizia evidente, ma con quell’attenzione inevitabile che un corpo come il suo, vestito in quel modo, non poteva non suscitare.
Sapeva che l’intera trattativa dipendeva da lei. Doveva mostrare sicurezza, farli sentire accolti, rispondere alle domande con calma. Ma ogni volta che chinava lo sguardo sui documenti, percepiva la pressione della giacca sul seno e lo spacco della gonna che minacciava di aprirsi un po’ di più. E nella sua mente, l’eco della voce del padre non la lasciava: “devi fare qualunque cosa per venderla.”
La riunione iniziò con la prevedibile freddezza. I due avvocati aprirono subito le cartelle, tirando fuori fogli con appunti e clausole, l’ingegnere invece aveva una piantina piegata in quattro che posò davanti a sé. Le domande arrivarono puntuali, scandite da voci sicure: dettagli sulla proprietà, sulla provenienza degli atti, sulle spese di ristrutturazione. Elena rispondeva come poteva, attingendo a quello che aveva imparato osservando il padre, cercando di non mostrare esitazione.
A un certo punto si alzò per prendere dal mobile dietro di sé una cartellina con i documenti catastali. La giacca tirò leggermente sulle spalle, e mentre tornava verso il tavolo sentiva l’orlo della minigonna risalire appena a ogni passo. Posò i fogli davanti a loro, chinandosi quel tanto che bastava per indicare una sezione della planimetria. Quando rialzò lo sguardo, trovò i tre uomini fermi, immobili, con gli occhi incollati non ai documenti ma a lei.
Gli avvocati si ricomposero subito, fingendo di tornare al testo, ma l’ingegnere rimase un istante di troppo con lo sguardo piantato sul taglio netto del suo seno che la giacca lasciava scoprire, prima di schiarirsi la voce e chinarsi sui fogli. Elena sentì un brivido correre lungo la schiena: sapeva di averli catturati, che la sua presenza stava incidendo tanto quanto le carte che aveva davanti. E nella testa tornò, insistente, la frase del padre: “devi fare qualunque cosa per venderla.”
Elena si risiedette, cercando di mascherare il tremito delle mani mentre sistemava i fogli davanti a sé. I tre uomini ricominciarono a parlare, e le loro voci riempirono la sala con un ritmo serrato, quasi soffocante. Gli avvocati incalzavano con domande tecniche, formule legali che lei ripeteva a memoria dalle lezioni del padre, mentre l’ingegnere prendeva appunti rapidi, ogni tanto sollevando lo sguardo e posandolo su di lei con una naturalezza che le faceva mancare l’aria.
Ogni volta che cercava di concentrarsi sulle carte, sentiva il corpo tradirla: il seno che premeva contro il body, il tessuto lucido della minigonna che le scaldava la pelle, lo spacco che le ricordava a ogni minimo movimento l’orlo segreto dell’autoreggente. E dentro di sé, la voce paterna che non la lasciava respirare: “Devi fare qualunque cosa per venderla.” Più loro parlavano, più quella frase cresceva, si confondeva con le domande, con gli sguardi, fino a diventare quasi un ordine inciso nel sangue.
Passarono minuti così, tra carte che scorrevano e firme simulate con le dita, finché uno degli avvocati richiuse la sua cartella e disse con calma: «Bene, i documenti sembrano in regola. Ora serve il sopralluogo, vogliamo vedere la villa di persona.»
Il collega annuì, l’ingegnere raccolse la piantina, e tutti e tre si alzarono in sincronia, voltandosi verso di lei come se fosse naturale che li conducesse. Elena restò immobile per un istante, con il cuore che batteva troppo forte e le gambe che sembravano pronte a cedere. Poi si alzò anche lei, stringendo i fogli tra le mani come un’àncora, consapevole che da quel momento tutto dipendeva da lei.
Elena guidò fino alla villa con le mani strette sul volante, il cuore che non accennava a calmarsi. Durante il tragitto, aveva ripetuto tra sé le parole del padre, come un mantra e una condanna: “devi fare qualunque cosa per venderla.” Ogni volta che la minigonna le tirava sulle cosce per la posizione di guida, ogni volta che la giacca si tendeva sul seno spinto dal body, il suo stesso corpo sembrava ricordarle quanto fosse scoperta.
Quando imboccò il viale alberato che conduceva alla villa, si accorse che le tre auto che la seguivano avevano accelerato e ora la precedevano. Parcheggiò accanto a loro, e si rese conto che i tre uomini non si erano diretti verso l’ingresso. Erano lì, in piedi, poco distanti dalle macchine, con le cartelle sotto braccio, ma con gli occhi puntati sulla sua. Stavano aspettando lei.
Per un istante rimase seduta, le mani ancora sul volante, sentendo le gambe cedere sotto la pelle lucida della minigonna e il calore che le saliva dal ventre. Sapeva che non poteva restare ferma: quell’attesa, quello sguardo collettivo addosso, era già uno spettacolo in sé. Con un respiro profondo aprì lo sportello.
Il ticchettio secco dei tacchi sul selciato si mescolò al fruscio della pelle che tirava. Mentre scendeva, sentì l’aria fresca colpire le cosce nude tra la gonna e il bordo dell’autoreggente, e in quell’istante capì che nessuno di loro stava pensando alle clausole o alle firme. Tutti e tre erano lì per guardarla, e lei non poteva far finta di non saperlo.
Elena aprì il cancello e li guidò all’interno, precedendoli verso la villa. All’inizio i tre uomini si muovevano con passo pratico, lo sguardo rivolto alla facciata, al giardino curato, alle proporzioni dell’edificio. Commentavano a bassa voce dettagli tecnici, l’ingegnere che parlava di fondamenta, gli avvocati che accennavano al valore dell’investimento. Ma via via che procedevano, i loro occhi cominciarono a spostarsi.
Mentre Elena camminava davanti a loro, la minigonna in pelle lucida si tendeva sui fianchi e lo spacchetto lasciava intravedere, a ogni passo, il bordo dell’autoreggente. La giacca, troppo stretta, metteva in risalto la linea del seno che si muoveva a ritmo con il respiro. I tre continuarono a parlare della villa, sì, ma con pause sempre più lunghe, frasi tronche che lasciavano spazio a silenzi in cui l’attenzione era chiaramente catturata da lei.
Entrarono nell’ampio salone e il contrasto si fece lampante. L’ingegnere accennò al soffitto a cassettoni, ma i suoi occhi restarono fissi sulle gambe di Elena mentre chinava la testa sui documenti. Uno degli avvocati fece una domanda sulle pertinenze, ma il tono si spezzò quando lei si piegò appena per appoggiare la cartellina sul tavolo, mostrando il taglio del seno sostenuto dal body.
Non era più solo la villa ad essere oggetto di valutazione: era lei. Ogni suo gesto, anche il più neutro, diventava materia di attenzione, e la consapevolezza di questo la faceva tremare dentro. Sentiva il ventre scaldarsi, le gambe farsi deboli, mentre la frase del padre continuava a martellarle nella mente: “devi fare qualunque cosa per venderla.”
Elena era in piedi davanti al tavolo, con le mani occupate a sistemare i fogli della planimetria. Sentiva il respiro dei tre uomini alle sue spalle, la loro presenza compatta e silenziosa che riempiva il salone più di qualunque parola. Fino a quel momento aveva cercato di mantenere un equilibrio, di mostrarsi padrona della situazione, ma l’eco della voce paterna continuava a morderle dentro: “Devi fare qualunque cosa per venderla.” Era quella frase a guidarle la mano, più della ragione.
Si chinò appena in avanti, fingendo di seguire con il dito le linee della carta, e in quel gesto calcolato il bottone solitario della giacca, tirato dal movimento del busto, cedette. Un piccolo scatto metallico, quasi impercettibile, e all’improvviso la stoffa si aprì. Non del tutto, ma quanto bastava a rivelare il body in ecopelle, lucido, teso contro la pelle, e l’inserto in tulle che lasciava trasparire il seno gonfio, sospinto verso l’alto dall’effetto push up.
Non fece alcun cenno per richiuderla. Restò piegata sul tavolo, gli occhi fissi sul foglio, come se nulla fosse accaduto. Ma lo sentì chiaramente: il silenzio che calò alle sue spalle era diverso da quello di prima. Non era concentrazione, non era attesa. Era sospensione. I tre uomini si erano fermati, trattenendo fiato e parole, ipnotizzati da quella visione improvvisa.
Elena non osò girarsi, ma percepiva ogni dettaglio. Il peso degli sguardi sulla pelle esposta, il battito accelerato che le faceva vibrare il petto, il calore che le saliva dal ventre e le faceva tremare le gambe. Quello che fino a un attimo prima era un gioco sottile ora era diventato un gesto senza ritorno. Aveva alzato l’asticella.
Il silenzio si ruppe solo quando uno degli avvocati, con voce roca, si schiarì la gola e propose di proseguire la visita. Elena raccolse i fogli con calma, facendo finta di non notare la giacca che restava aperta, e si avviò verso la scala che portava al piano superiore. Il ticchettio dei tacchi risuonava nel vuoto della villa, segnando il ritmo dei suoi passi e, insieme, il battito accelerato che le martellava nel petto.
Salì lentamente, consapevole di avere dietro di sé i tre uomini. Lo sentiva, lo percepiva senza bisogno di voltarsi: i loro occhi non seguivano più solo le rifiniture dell’abitazione o la qualità del legno della ringhiera, ma il suo corpo che li precedeva, la curva dei fianchi stretti nella minigonna, la linea delle gambe sottolineata dalla riga nera dell’autoreggente. La giacca, lasciata volutamente slacciata, si apriva a ogni movimento del busto, mostrando di tanto in tanto la lucentezza del body sotto e il taglio netto del seno che respirava libero.
Arrivarono al corridoio della zona notte, dove le porte si aprivano su camere ancora arredate. Elena spinse la prima, lasciando che l’odore del legno e della polvere si mescolasse all’atmosfera sospesa. Un letto matrimoniale, perfettamente rifatto, occupava il centro della stanza, con comodini e lampade ancora al loro posto, come se qualcuno dovesse entrarvi quella sera stessa.
«Qui la camera padronale,» disse, la voce più bassa del solito. Entrò e si avvicinò alla finestra per aprire le tende, la luce che le cadde addosso sottolineò ancora di più l’apertura della giacca. Dietro di lei, nessuno parlava più di rendite catastali o di clausole contrattuali. La villa, pur splendida, stava lentamente passando in secondo piano. Il vero fulcro dell’attenzione, ormai, era lei.
Si fermò accanto al letto, la mano a sfiorare il legno lucido della spalliera come per sottolinearne la fattura. Alle sue spalle i tre uomini entrarono in silenzio, ma nessuno sembrava interessato al mobilio. Gli avvocati tenevano ancora le cartelle, chiuse, l’ingegnere stringeva la piantina arrotolata ma non la guardava. Tutti e tre avevano lo sguardo piantato su di lei.
Un brivido le corse lungo la schiena. Non poteva fingere di non accorgersene: era il centro della scena, e la frase paterna tornò a morderle la mente, più viva che mai: “devi fare qualunque cosa per venderla.” Inspirò lentamente, cercando di mascherare il tremito delle mani, e invece di richiudere la giacca la lasciò spalancata del tutto, voltandosi verso di loro con il body in ecopelle e tulle che brillava nella luce.
Per un istante il tempo restò sospeso. I tre uomini non mossero un muscolo, fermi accanto alla porta, rapiti. Era ancora lei a guidare il gioco, con un gesto semplice ma dirompente, ed era come se la villa fosse scomparsa: esisteva solo quella stanza e il corpo che li invitava silenziosamente.
Si fermò accanto al letto, la mano a sfiorare il legno lucido della spalliera come per sottolinearne la fattura. Alle sue spalle i tre uomini entrarono in silenzio, ma nessuno sembrava interessato al mobilio. Gli avvocati tenevano ancora le cartelle, chiuse, l’ingegnere stringeva la piantina arrotolata ma non la guardava. Tutti e tre avevano lo sguardo piantato su di lei.
Un brivido le corse lungo la schiena. Non poteva fingere di non accorgersene: era il centro della scena, e la frase paterna tornò a morderle la mente, più viva che mai: “devi fare qualunque cosa per venderla.” Inspirò lentamente, cercando di mascherare il tremito delle mani, e invece di richiudere la giacca la lasciò spalancata del tutto, voltandosi verso di loro con il body in ecopelle e tulle che brillava nella luce.
Per un istante il tempo restò sospeso. I tre uomini non mossero un muscolo, fermi accanto alla porta, rapiti. Era ancora lei a guidare il gioco, con un gesto semplice ma dirompente, ed era come se la villa fosse scomparsa: esisteva solo quella stanza e il corpo che li invitava silenziosamente.
Il letto era alle sue spalle, le tende lasciavano filtrare la luce bianca del pomeriggio. Lei restava immobile con la giacca ormai spalancata, il body che le segnava la pelle e il seno che respirava pesante. I tre uomini entrarono nella stanza e si disposero in un semicerchio, senza accordarsi, come se fosse naturale. Nessuno parlava più di clausole o di atti notarili: l’aria era densa, sospesa, vibrante.
L’avvocato più anziano fu il primo ad avvicinarsi di un passo, il tono basso ma chiarissimo: «Capisci bene… la vendita dipende da noi.» La frase, semplice, si aggrappò alla voce del padre che ancora rimbombava nella sua mente: “devi fare qualunque cosa per venderla.” Un brivido le scosse le gambe, il ventre prese fuoco.
L’ingegnere la osservava in silenzio, le mani intrecciate dietro la schiena, ma lo sguardo era inchiodato sulla scollatura che si apriva senza più difese. L’altro avvocato si limitò a sfogliare distrattamente la cartella, poi la chiuse di nuovo con un colpo secco. «Non servono più documenti,» mormorò, «quello che resta da verificare è altro.»
Li sentiva stringerle lo spazio intorno, centimetro dopo centimetro, e ogni passo indietro la portava più vicino al bordo del letto. Non era più questione di immobili o di firme: il vero atto si stava scrivendo lì, tra le loro mani e il suo corpo che tremava, pronto a cedere.
Il corpo le bruciava dall’interno. Non erano solo gli sguardi che la divoravano, erano i mesi accumulati di notti interrotte, di carezze negate, di desiderio lasciato a metà. Sentirsi al centro di quell’attenzione maschile la stava eccitando al punto da farle tremare le cosce. Tre uomini, tutti concentrati su di lei, tutti pronti a volerla, la facevano sentire viva, potente e fragile nello stesso istante.
E in quel vortice, la voce del padre continuava a rimbombare: “devi fare qualunque cosa per venderla.” Non suonava più come un dovere, ma come un’assoluzione, quasi un perdono anticipato. Quelle parole la liberavano dal peso del peccato, la giustificavano. Non era lei a scegliere, non era lei a cadere: era la necessità, era il lavoro, era la vita dell’agenzia che dipendeva dal suo corpo. E dentro di sé, sapeva che lo voleva.
Un passo indietro, poi un altro. Le gambe sembravano obbedire a un ritmo che non era più il suo, guidate dagli sguardi che la spingevano verso il letto. Il corpo rispondeva con un calore crescente, come se ogni fibra della pelle fosse in attesa di essere toccata. Sentiva i capezzoli tesi contro il tulle del body, il respiro spezzato che le apriva il petto.
I tre uomini non si affrettarono. La seguivano con lentezza, chiudendole intorno lo spazio. Non servivano frasi, bastava l’aria che vibrava tra loro. Ogni volta che incrociava uno sguardo, trovava riflesso lo stesso messaggio: desiderio puro, incontrollato. E quella certezza la fece vibrare ancora di più.
Si ritrovò con le ginocchia che sfioravano la coperta tesa del letto matrimoniale. Un brivido la attraversò, metà paura, metà eccitazione. Le tornò addosso la voce paterna, più chiara che mai: “devi fare qualunque cosa per venderla.” Non era più un ordine, ma una formula sacra, la frase che l’assolveva, che cancellava il peccato prima ancora di commetterlo.
Sollevò lo sguardo, i capelli tesi nella coda alta, la giacca aperta che non cercava più di chiudere. Le mani tremavano, ma non fece nulla per nascondersi. Era il momento in cui la scelta diventava resa. E in quella resa sentì l’eccitazione esplodere, come se stesse per precipitare in un abisso che in fondo desiderava da sempre.
Restò immobile solo un istante, il respiro corto e il cuore che le martellava nel petto. Poi, come spinta da una forza invisibile, abbassò lentamente le mani e le posò sulla giacca, ma non per chiuderla. Con un gesto deciso la scostò del tutto, lasciandola cadere lungo le braccia fino ai gomiti. Restò così, con il body lucido che stringeva la vita e il seno pieno che brillava nella luce, esposta e vulnerabile davanti a loro.
Il silenzio che seguì fu totale. I tre uomini si fermarono, come se aspettassero quel segnale, e lo avevano appena ricevuto. Lei li guardò uno dopo l’altro, senza pronunciare una parola, ma il gesto parlava più forte di qualunque frase: stava cedendo, stava offrendosi, pronta a lasciarsi prendere.
Fu l’ingegnere a muoversi per primo. Aveva tenuto lo sguardo fisso su di lei dall’inizio, come se aspettasse solo il momento giusto. Fece un passo avanti, le tolse con calma la cartellina dalle mani e la posò sul comodino, liberandola da quell’ultimo appiglio formale. Rimase davanti a lei, così vicino che poteva sentirne il respiro. Una mano le scivolò lentamente sul fianco, risalendo lungo la curva della minigonna, mentre l’altra si fermò appena sotto il seno, sopra l’ecopelle che lo conteneva.
Gli avvocati non dissero nulla, ma la loro immobilità era carica di attesa. Uno di loro si avvicinò al lato opposto, sfiorandole il braccio nudo con le dita, l’altro restò di fronte, le pupille scure piantate sul taglio del décolleté. Lei tremava, ma non fece un passo indietro. La giacca che scivolava dalle braccia fino a cadere sul pavimento fu il segnale definitivo: la segretaria, la figlia obbediente, non esisteva più.
La giacca che le scivolò dalle spalle fino a cadere sul pavimento fu come un sigillo spezzato. In quell’attimo capì che non era più soltanto la segretaria chiamata a sostituire il padre nell’agenzia, non era più la figlia che non voleva deluderlo, non era più la moglie che da mesi attendeva di essere presa e amata, né la madre che si alzava ogni notte al pianto del bambino. Tutti quei ruoli le si staccavano di dosso uno dopo l’altro, lasciandola nuda nell’essenza.
Davanti a quei tre uomini rimaneva soltanto una donna, viva, eccitata, desiderata al punto da tremare di piacere. Il loro silenzio, i loro sguardi, la circondavano più delle pareti della stanza. E l’eco della frase paterna — “devi fare qualunque cosa per venderla” — non era più un ordine: diventava l’assoluzione al peccato, il lasciapassare che le permetteva di abbandonarsi senza vergogna.
Si trovava stretta tra loro, le spalle quasi a sfiorare il letto, e ogni parte del corpo veniva reclamata da mani diverse: la coscia accarezzata, il fianco stretto, il seno sfiorato con decisione. Il respiro le usciva spezzato, gli occhi socchiusi, il ventre in fiamme. Non c’era più la segretaria, la figlia, la moglie, la madre. C’era solo una donna che tremava nel piacere di essere desiderata, tre uomini che la volevano tutta, e quella frase che ormai le suonava come un perdono: “devi fare qualunque cosa per venderla.”
Le ginocchia cedettero appena e si lasciò guidare all’indietro fino a sfiorare il bordo del letto. L’ingegnere la spinse con fermezza, non con brutalità ma con quell’autorità che non lasciava scampo, e la fece sedere. Da quella posizione la minigonna tirò ancora di più, e lo spacchetto laterale lasciò apparire il pizzo dell’autoreggente in tutta la sua malizia.
Il primo avvocato le prese il mento tra le dita, costringendola a sollevare lo sguardo verso di lui. Nei suoi occhi non c’era più traccia di formalità, solo il piacere di avere una giovane donna alla mercé dei loro desideri. L’altro le si posizionò dietro, chinandosi abbastanza da respirarle sul collo, le mani che scivolarono sulle spalle nude e poi sul petto, dove il body in ecopelle si tendeva sul seno gonfio.
Ogni parte di lei veniva reclamata: una coscia stretta e accarezzata con lentezza, il seno palpitante sotto dita decise, la nuca catturata da un respiro caldo che la faceva rabbrividire. Le gambe tremavano, il ventre le bruciava, e l’umidità crescente tra le cosce le toglieva ogni forza di resistere. Era diventata un punto focale di desiderio, un oggetto di piacere condiviso, e proprio in quella condizione trovava la sua eccitazione più pura.
Il letto dietro di lei era pronto, i tre uomini intorno erano decisi, e nella mente, come un mantra liberatorio, la voce del padre continuava a scandire: “devi fare qualunque cosa per venderla.”
La schiena incontrò il copriletto rigido, mentre mani decise la guidavano verso il centro del letto. Le gambe si piegarono docili, la minigonna che si sollevava senza più opporre resistenza. Il respiro era già corto, e il cuore le batteva come se stesse per esploderle nel petto.
Intorno a lei i tre uomini si mossero con calma metodica, sicuri del proprio ruolo. Le cartelle e le piantine erano rimaste sul comodino, dimenticate. Le giacche caddero a terra, i bottoni delle camicie si aprirono uno dopo l’altro, e presto i tessuti leggeri scivolarono via lasciando spazio alla pelle nuda, ai muscoli tesi, al desiderio che non si nascondeva più. I pantaloni seguirono la stessa sorte, e in pochi istanti la stanza non conteneva più tre professionisti in giacca e cravatta, ma tre corpi maschili pronti a prendersi la donna stesa davanti a loro.
Dal letto lei li guardava, immobile, il petto che si alzava e si abbassava in fretta, le cosce già tese dall’attesa. Ogni movimento degli uomini, ogni gesto di spogliazione, non faceva che accrescere l’eccitazione che le scaldava il ventre e le gambe. Non c’era più nulla di formale, solo la certezza di quello che stava per accadere.
Il primo a muoversi fu l’ingegnere. Più massiccio, con il petto ampio e scolpito, si posizionò tra le sue gambe, piegandole appena con le mani larghe. La guardava dall’alto, senza fretta, come un padrone che valuta ciò che ha davanti. Le dita le accarezzarono l’interno coscia, lentamente, seguendo la linea della riga nera dell’autoreggente fino al bordo di pizzo, lasciandola ansimante nell’attesa.
Alla sua destra, il più giovane dei due avvocati si liberò degli ultimi vestiti e si inginocchiò accanto al letto. Le prese una mano e la guidò verso di sé, facendole sentire tutta la durezza del suo desiderio. Non servivano parole, bastava la pressione decisa delle dita che chiudevano la sua mano intorno a lui per dirle cosa voleva.
Sul lato opposto, l’altro avvocato, più maturo, non si limitò a sfiorarla. Si piegò sopra di lei, le labbra che cercarono subito il collo, aspirando la pelle calda e lasciando un segno rosso che bruciava e faceva fremere. Le mani esperte si posarono sul seno teso, stringendo il push up del body fino a deformarne i contorni, come se volesse strapparlo per arrivare alla carne viva.
Stesa al centro, Elena non apparteneva più a se stessa. Ogni parte del corpo veniva reclamata: le gambe dall’ingegnere, le mani dall’avvocato giovane, il petto e il collo da quello più maturo. Il respiro le usciva a singhiozzi, il ventre in fiamme, il piacere che cresceva mentre tre uomini la circondavano e la prendevano ognuno a modo suo.
L’ingegnere si chinò tra le sue cosce, guidandole a spalancarsi sul letto. Le mani grandi le stringevano i fianchi con forza, quasi a trattenerla, e ogni suo respiro si trasformava in un gemito soffocato. L’avvocato più giovane, accovacciato alla sua destra, guidava con fermezza la mano di lei sul proprio sesso, imponendo un ritmo che non ammetteva esitazioni. A sinistra, l’altro continuava a piegarsi sul petto, baciandola e mordendola sul collo, le dita che lavoravano sul seno gonfio con una decisione che le strappava brividi di piacere.
Il corpo era completamente catturato. Ogni centimetro occupato da mani, bocche, erezioni che premevano contro di lei, facendola sentire al centro di un vortice di desiderio maschile. Non poteva più sfuggire, né lo voleva: ogni fibra la spingeva a cedere, a lasciarsi travolgere.
Le labbra si schiusero, un gemito profondo le uscì dal petto mentre le cosce tremavano e la schiena si inarcava. La villa, i documenti, la trattativa: tutto era scomparso. Restavano tre uomini che la prendevano insieme, e lei che si abbandonava, oggetto di piacere e fonte di eccitazione per tutti loro.
Sdraiata sul letto, con le gambe già divaricate e la minigonna che non era più altro che un brandello arrotolato sui fianchi, percepì la mole dell’ingegnere che si piegava tra le sue cosce. Non attese, non cercò esitazioni: le mani larghe le afferrarono i glutei e con un colpo deciso la tirò verso di sé, entrando in lei con forza, riempiendola di colpo. Un grido le sfuggì dalle labbra, più piacere che dolore, mentre la schiena si inarcava e il ventre si tendeva per accogliere quella potenza che la penetrava a fondo.
Non ebbe nemmeno il tempo di respirare che i due avvocati, spogliati e già gonfi di desiderio, si inginocchiarono ai lati del suo capo. Uno le prese il mento con decisione, obbligandola a girarsi verso di lui, l’altro già le premeva contro le labbra il membro turgido, lucido di eccitazione. Non poteva scegliere: fu costretta a muoversi da una parte all’altra, succhiando alternativamente, con la bocca riempita a turno, mentre i gemiti si mescolavano al ritmo dei colpi che l’ingegnere le infliggeva tra le cosce.
Ogni parte del suo corpo era catturata: la bocca invasa, la gola occupata da erezioni che spingevano fino a soffocarla, i seni stretti da mani che li afferravano con avidità, i fianchi spinti verso il basso da colpi possenti che le facevano tremare le gambe e scuotere il letto. L’aria si trasformava in un flusso caldo, fatto di gemiti, respiri ansimanti, odore acre di desiderio maschile.
Era completamente posseduta. Lì, in quella stanza che avrebbe dovuto essere solo il cuore di una villa in vendita, si era trasformata nel centro di un rituale carnale: tre uomini che la usavano senza tregua, lei che non poteva fare altro che cedere, e il piacere che cresceva impetuoso, incontrollabile, più forte di qualunque volontà.
Lei gemette forte, il corpo che si contorceva sul letto mentre l’ingegnere affondava in profondità. I colpi sempre più rapidi, sempre più violenti, la spinsero oltre il limite: il ventre le esplose di piacere, la gola si riempì di un urlo che le uscì spezzato, soffocato dai membri che continuavano a occupare la sua bocca. Tremò tutta, le cosce bagnate, il sesso che pulsava ancora stretto attorno a quell’asta enorme.
Fu allora che l’ingegnere si ritrasse all’improvviso, lasciandola ansimante e vuota. Non ebbe tempo di cercarlo: l’avvocato più anziano le prese i fianchi con decisione e la fece voltare, costringendola a mettersi a gattoni al centro del letto. Le mani le affondarono nei glutei, aprendola, e con un colpo secco la penetrò da dietro. Un gemito roco le sfuggì di nuovo, la testa che crollò in avanti.
Davanti al volto, i due avvocati restanti non le concessero tregua. Uno alla volta le premevano il sesso gonfio sulle labbra, costringendola a succhiare, a muoversi tra un membro e l’altro, la bocca che scivolava da una erezione all’altra senza respiro. Ogni spinta da dietro le faceva schizzare il capo in avanti, obbligandola a ingoiare più a fondo, mentre le mani degli uomini le tenevano ferma la nuca.
Stava perdendo ogni controllo. La posizione la rendeva un giocattolo vivo tra le loro mani, ogni colpo le faceva tremare i seni, le cosce le bruciavano, il ventre ardeva di nuovo. L’eccitazione non accennava a spegnersi, anzi, sembrava crescere a ogni nuova invasione.
Il ritmo da dietro divenne più intenso, colpi profondi che la scuotevano fino al petto. Ogni affondo la proiettava in avanti, obbligandola ad accogliere nelle labbra, a turno, i due membri tesi degli avvocati inginocchiati accanto al capo. La bocca era piena, il respiro spezzato, le mani degli uomini che la guidavano a non fermarsi mai.
Fu in quell’istante, con il corpo che tremava e l’orgasmo che le esplodeva dentro, che sentì le dita esperte del più anziano scivolare più in basso, premere con lentezza sul suo orifizio più segreto. Era un tocco deciso, che non chiedeva permesso, eppure la fece fremere con un piacere nuovo, quasi insopportabile. Il gemito le si trasformò in un grido strozzato, soffocato dal sesso che le riempiva la bocca.
La testa le crollò in avanti, ma trovò la forza di sollevare appena lo sguardo. Con le labbra lucide, tra un membro e l’altro, lasciò sfuggire un sussurro rotto, disperato e sensuale: «Prendimi anche lì… voglio sentirti dentro di me, ovunque.»
Quelle parole caddero pesanti nell’aria, più forti di qualunque firma. Il corpo già scosso dall’orgasmo vibrava ancora, pronto ad accogliere anche quell’ultima invasione che l’avrebbe consegnata completamente a loro.
L’avvocato anziano non esitò oltre. Dopo averla preparata con le dita, afferrò i suoi fianchi e con un movimento lento ma implacabile la penetrò nel punto più proibito. Lei spalancò la bocca in un urlo che si trasformò subito in un gemito strozzato, soffocato dal membro che uno degli avvocati le spinse contro le labbra. L’altro attendeva a pochi centimetri, pronto a occupare la bocca non appena fosse stata libera, costringendola a muoversi da un sesso all’altro senza tregua.
Il corpo le tremava tutto: la schiena inarcata, i seni che sobbalzavano a ogni affondo, le cosce tese che si aprivano e si chiudevano invano. L’ano, stretto e pulsante, veniva invaso con forza crescente, mentre la vagina rimaneva libera, colma di umidità e di un vuoto che bruciava più di ogni altra cosa. Ogni colpo la faceva urlare, ogni spinta le strappava un gemito che si perdeva tra le erezioni che le riempivano la bocca.
Era totalmente posseduta: non c’era più un respiro che le appartenesse, non un movimento che non fosse guidato da loro. Eppure nel vuoto che sentiva tra le cosce cresceva un desiderio feroce, una necessità che rendeva il piacere ancora più devastante.
Il più giovane dei tre si distese sul letto, il corpo nudo che si tendeva verso di lei. Le fece un cenno con la mano, deciso e al tempo stesso carico di aspettativa. Lei lo guardò un istante, le labbra dischiuse per l’ansimare, il petto che saliva e scendeva senza controllo. Poi, con un movimento incerto ma inevitabile, gli salì sopra. Le ginocchia affondarono nel materasso, le cosce si aprirono e la sua umidità calda avvolse l’asta tesa che la penetrò di colpo. Un grido le esplose dalla gola, lungo e gutturale, come un sollievo che attendeva da ore, da settimane. Finalmente riempita lì, nel punto che la bruciava dal desiderio, lasciò cadere la testa all’indietro e gemette senza pudore, muovendosi sopra di lui con la foga di chi non può più trattenersi.
Non ebbe il tempo di godere di quella pienezza che già dietro di lei l’avvocato più anziano la prese ai fianchi, stringendola con mani dure, e la penetrò lentamente nel varco proibito che aveva già aperto poco prima. La spinse a fondo, costringendola a sobbalzare in avanti mentre era ancora calata sull’altro. Un gemito stridulo le si strozzò in gola, eppure non ci fu rifiuto, anzi: il piacere raddoppiato la fece tremare. Il corpo era sospeso tra due forze contrarie, avanti e indietro, due erezioni che la invadevano insieme, riempiendola completamente e spingendola oltre ogni limite di resistenza.
Davanti a lei, l’ingegnere la osservava, alto, massiccio, con il sesso teso che pulsava a pochi centimetri dalle sue labbra. Non aspettò: le prese il capo con una mano, la guidò verso di sé, e lei lo accolse spalancando la bocca, inghiottendo quell’asta fino in fondo alla gola. Il suo respiro si spezzò, gli occhi le si riempirono di lacrime per l’intensità, ma non smise. Muoveva la testa avanti e indietro, alternando spinte e succhiate, lasciandosi usare come voleva.
Ogni parte del corpo era occupata. La bocca piena, la vagina che pulsava attorno all’avvocato giovane sotto di lei, l’ano invaso con forza da quello anziano dietro. Ogni colpo la scuoteva, la faceva rimbalzare, le costringeva gemiti strozzati che si mescolavano al sapore acre dell’ingegnere in bocca. Non era più Elena la segretaria, né la moglie, né la madre. Era solo carne viva, sudata, posseduta in tre.
Il piacere esplose come un incendio, incontrollabile. Si sentì vibrare da dentro, i muscoli che si contraevano senza più freno, il ventre che si stringeva fino al dolore. Si staccò un istante dalla bocca dell’ingegnere, ansimando, e con voce roca, urlò senza più freni, con fierezza e disperazione: «Sono una troia! La vostra troia!» Le parole si spaccarono in un gemito, mentre continuava a muoversi sopra di lui, a lasciarsi penetrare dietro, a succhiare davanti.
L’urlo restò sospeso nell’aria, rimbombando contro le pareti della camera da letto, e per un attimo fu come se tutta la villa ne fosse invasa.
Il corpo prese il sopravvento sulla mente. Si muoveva da sola, le anche che si spingevano in basso per inghiottire più a fondo l’avvocato giovane sotto di lei, mentre dietro il vecchio affondava con colpi violenti che la facevano urlare ad ogni spinta. L’ingegnere la teneva ferma per i capelli, la bocca occupata dalla sua durezza pulsante, e ogni volta che gemeva le veniva imposto di succhiare ancora più a fondo.
Le parole le uscirono spezzate, quasi grida: «Più forte! Non fermatevi! Non smettete!» Erano suppliche e ordini insieme, un fiume di piacere che non poteva più trattenere. I tre obbedirono senza esitazioni: il giovane sotto di lei spinse i fianchi verso l’alto con forza, l’anziano la tirò contro di sé da dietro con colpi secchi, l’ingegnere le riempì la gola senza darle respiro. Era un vortice, una morsa che la teneva sospesa e la schiacciava da ogni lato.
L’orgasmo la travolse di nuovo, improvviso, devastante. Le gambe cedettero, il ventre si contrasse con spasmi continui, urla soffocate dal sesso che le occupava la bocca. Tremava tutta, il corpo che non apparteneva più a lei, ma ai tre che la possedevano contemporaneamente.
E quando il primo a venire fu l’ingegnere, la bocca piena del suo sapore caldo e acre, le spinte dietro si fecero ancora più dure, le mani la stringevano come per marchiarla. L’avvocato giovane gemette sotto di lei, scaricandosi con colpi profondi che la fecero sussultare fino al cuore. Quasi in contemporanea l’anziano la prese a fondo, spingendola oltre ogni limite, lasciandole dentro la sua forza.
Le eiaculazioni maschili si sommarono alle sue convulsioni, e quasi subito un altro orgasmo la squarciò, violentissimo, come se il piacere dei tre si riversasse dentro di lei, moltiplicandosi. Urlò senza più voce, le lacrime agli occhi, il corpo che tremava in una resa totale, scossa dopo scossa fino allo sfinimento.
Non c’era più villa, non c’era più trattativa. Solo una donna piegata e glorificata da tre uomini che l’avevano posseduta fino all’essenza, e che l’avevano fatta venire tre volte, senza lasciarle nulla se non la consapevolezza di essere stata davvero la loro troia.
Gli uomini si ricomposero in fretta, come se quanto accaduto fosse stato soltanto un capitolo funzionale a un affare. Le camicie risalirono sulle spalle, le cravatte vennero strette di nuovo, le cartelle riprese in mano. L’avvocato anziano, già con il nodo della cravatta tirato alto, le rivolse un’occhiata rapida e una frase secca: «Domattina avrà l’assegno della caparra. La vendita è cosa fatta.» Nessun sorriso, nessun gesto di gratitudine. Solo freddezza.
La lasciarono così, nuda, sudata, le cosce ancora tremanti e segnate dal piacere, il letto disfatto sotto di lei. Sentì il portone richiudersi in lontananza e il silenzio tornare nella villa. Per un attimo restò immobile, il corpo che ancora pulsava del piacere appena subito, le gambe appiccicose, l’odore acre del sesso maschile che le impregnava la pelle. Poi sollevò il braccio verso il comodino e prese il cellulare.
Si mise seduta, le cosce spalancate, il ventre ancora bagnato di loro. Aprì la fotocamera e iniziò a scattare. Una dopo l’altra, foto crude, senza posa: il seno gonfio, il ventre lucido, le gambe aperte da cui colava il piacere dei tre. Non si sistemò, non cercò angolazioni morbide: voleva che Giorgio vedesse la realtà, nuda e senza filtri. Ogni scatto era una ferita e una provocazione insieme.
Poi digitò poche parole, la mano che tremava più per eccitazione che per fatica. Le lesse una volta, e un brivido le attraversò la schiena. Le lasciò lì, sotto le foto, e inviò tutto.
"È meglio se ti muovi a riprendere a scoparmi, altrimenti la prossima volta sarà per piacere… e non per dovere."
Il cellulare cadde sul materasso, lei si lasciò ricadere all’indietro, il respiro ancora affannoso. Per un istante sorrise, amara e soddisfatta. Non aveva più nulla da nascondere: ormai aveva scelto di essere tutta se stessa, fino in fondo.
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Per lei, che veniva da un lavoro manuale e frenetico come quello dell’estetica, tutto sembrava improvvisamente più lento, più misurato. Il telefono che squillava, le agende da riempire, i documenti da battere a macchina o da sistemare con attenzione nei raccoglitori. All’inizio si sentiva fuori posto, quasi un’intrusa nel regno del padre, ma giorno dopo giorno cominciò a capire che quella nuova routine poteva appartenerle.
Il padre era severo ma non inflessibile, le spiegava i passaggi senza alzare la voce, e la lasciava osservare le riunioni in sala con una certa fierezza silenziosa. Elena si accorgeva di quanto contasse la presenza, il modo di accogliere chi entrava, il saper offrire un caffè al momento giusto. Piccoli gesti che facevano la differenza. E dentro di sé sentiva crescere una consapevolezza nuova: non era più solo la ragazza che curava la pelle e le unghie delle clienti, adesso aveva accesso al dietro le quinte di decisioni importanti, di case vendute, di vite che cambiavano indirizzo.
Il periodo dopo il parto aveva lasciato pochi segni sul corpo di Elena. Il fisico, allenato da anni di palestra e disciplina, si era ripreso con rapidità sorprendente, restituendole presto la linea asciutta e le forme compatte di un tempo. Solo il seno era cambiato davvero: una terza abbondante, piena e soda, che sembrava scolpita più che gonfiata, e che Giorgio guardava con orgoglio e desiderio, come fosse un dono imprevisto della maternità.
Ma la vita di coppia, proprio in quei mesi, aveva subito uno scossone. La gravidanza aveva limitato gli slanci, il parto li aveva frenati ulteriormente, e infine il piccolo che si svegliava puntualmente “sul più bello” aveva trasformato ogni tentativo di intimità in un’interruzione frustrante. Non c’era stata vera distanza tra loro, non ancora, ma quell’allontanamento fisico cominciava a pesare, a insinuarsi nei pensieri di entrambi. Elena si scopriva a desiderare carezze che non arrivavano, a immaginare momenti che finivano sempre bruscamente, lasciandole addosso la tensione irrisolta di un corpo giovane che non voleva rinunciare al piacere.
In quelle mattine d’ufficio accanto al padre, mentre batteva lettere o rispondeva al telefono, a volte le tornava alla mente l’immagine di Giorgio che la fissava con gli occhi scuri e impazienti, fermo sulla soglia della camera da letto, e si chiedeva quanto ancora sarebbero andati avanti così, sospesi tra il ruolo di genitori e quello di amanti.
Elena aveva imparato presto a trasformare le ore tranquille in ufficio in un gioco segreto. Il padre era concentrato dietro la sua scrivania, chino sulle carte, e lei sapeva di avere attimi di invisibilità in cui poter osare. Allungava la gamba sotto il tavolo, sollevava appena l’orlo della minigonna e con il telefono catturava l’immagine precisa del pizzo nero che segnava il confine tra coscia nuda e autoreggente. Altre volte abbassava l’inquadratura sul décolleté, un taglio di luce che scivolava tra i seni gonfi, messi in risalto dal respiro lento e studiato. Oppure incrociava le gambe con eleganza, inclinando appena il piede, lasciando che la linea morbida della coscia parlasse da sola.
Non erano foto esplicite, non voleva che lo fossero. Erano schegge di desiderio, dettagli scelti con una cura maniacale, più forti di qualunque nudo, perché lasciavano immaginare, costringevano a completare il quadro con la fantasia. Premuto il tasto d’invio, si abbandonava a un brivido silenzioso: l’idea che Giorgio, in quel momento, potesse fermarsi di colpo al lavoro o tra le faccende di casa per guardare solo lei. Era il suo modo di dirgli che nonostante la maternità, il sonno interrotto, i pianti notturni, dentro di sé restava viva la donna che voleva sentirsi desiderata, guardata, presa.
La sveglia suonò in una casa già mezza vuota. Giorgio era uscito presto, il bambino finalmente si era addormentato dopo una notte agitata che li aveva tenuti lontani ancora una volta, e Elena restò a letto qualche minuto in più, con lo sguardo perso nel soffitto e un corpo che urlava ciò che non aveva ottenuto. Aveva voglia di sesso, una voglia che le stringeva lo stomaco e le faceva bruciare la pelle, come un desiderio accumulato notte dopo notte e sempre rimandato.
Si alzò lentamente, nuda, lasciando che l’aria fresca della mattina le accarezzasse la pelle. Si guardò allo specchio del bagno: le occhiaie leggere tradivano la stanchezza, ma il corpo era lì, vivo, pronto, con le curve riprese dopo il parto e quel seno pieno che la faceva sentire più donna che mai. Un sorriso le scappò dalle labbra: se Giorgio non trovava il coraggio o il tempo di prenderla, sarebbe stata lei a provocarlo fino all’esasperazione.
Aprì l’armadio e scelse senza esitazioni. Il body in ecopelle la aspettava, stretto e lucido, con gli inserti in tulle che le disegnavano la pelle come una trama segreta. Lo infilò lentamente, godendosi la sensazione della stoffa che scivolava sulle cosce e si stringeva attorno al seno, sollevandolo in un push up che lo rendeva ancora più teso e invitante. Le autoreggenti sottilissime, 10 denari, si allungarono sulle gambe come una carezza di seta, e la riga nera dietro trasformò ogni passo in una promessa indecente. Poi la minigonna in pelle, aderente come una seconda pelle, metà coscia appena e quello spacchetto laterale che, già sedendosi sul letto per allacciarla, lasciava intuire il bordo ricamato dell’autoreggente.
Si fermò di nuovo davanti allo specchio, tirò su i capelli in una coda alta, ordinata ma aggressiva, e cominciò a truccarsi con mano sicura: matita nera marcata sugli occhi, mascara generoso, un rossetto intenso che faceva vibrare il contrasto con la pelle chiara. Elena prese la giacca dall’appendiabiti quasi con solennità. Era una giacca corta, sciancrata, pensata per stringerle la vita e accompagnare le curve dei fianchi. Il tessuto rigido la obbligava a mantenere le spalle dritte, il petto in avanti, come se il suo corpo fosse continuamente in posa. La infilò con un gesto deciso, poi tirò il tessuto verso il basso per farlo aderire meglio. Il singolo bottone, chiuso con attenzione, non aveva la funzione di coprire, ma di esaltare: spingeva i seni sollevati dal body a premerle contro il tessuto, accennando una forma piena che si intuiva già da lontano.
Guardandosi allo specchio, si rese conto che quella giacca era la chiave dell’intero gioco: da fuori le dava l’aria professionale della segretaria elegante, ma bastava muoversi appena, piegarsi in avanti o allungare una mano sulla scrivania, perché la linea del décolleté o il bordo della minigonna tradissero la verità. Senza di lei, il resto sarebbe stato sfacciato; con lei, tutto diventava più pericoloso, perché nascosto dietro una facciata di rigore.
Si voltò di profilo e sorrise. Quell’abito non era un vestito da lavoro, era un’arma. E Giorgio, appena avesse ricevuto le sue foto, lo avrebbe capito meglio di chiunque altro.
Elena arrivò in ufficio con passo deciso, la minigonna che la costringeva a muovere i fianchi appena di più, il tacco che scandiva il ritmo sul pavimento lucido. Aprì le finestre, fece entrare la luce, accese il computer. Aveva già in mente il primo scatto da inviare a Giorgio: una foto presa seduta alla scrivania, le gambe accavallate con lo spacco che lasciava intravedere il pizzo dell’autoreggente.
Il telefono squillò prima che potesse togliersi la giacca. Era suo padre. La voce era tesa, insolita.
«Elena, ascolta. È successo un imprevisto, non posso rientrare in tempo. Oggi pomeriggio arrivano i clienti per la villa di via Montello. Sai bene quanto sia importante: se perdiamo questa vendita, l’agenzia rischia davvero grosso. Dovrai occupartene tu. Non ci sono alternative.»
Lei restò in silenzio qualche secondo, con il cuore che le accelerava nel petto. Non aveva mai gestito una trattativa da sola, tanto meno con una proprietà così importante. Cercò di protestare, ma la voce paterna fu ferma:
«Hai visto decine di volte come mi muovo. Accoglili bene, mostrati sicura, non lasciare nulla al caso. E ricorda: devi fare di tutto per convincerli.»
Quando chiuse la chiamata, Elena rimase a fissare lo schermo del telefono, come se le parole appena ascoltate dovessero sedimentare. Era partita quella mattina con l’idea di giocare, di provocare Giorgio con le foto audaci, e ora si ritrovava con una missione cruciale. Il contrasto la elettrizzò: dentro di sé, un brivido le corse lungo la schiena.
Appoggiò il telefono sulla scrivania e restò qualche secondo immobile, ascoltando il silenzio dell’ufficio. Sentiva il battito del cuore rimbombarle nelle orecchie, come se tutto il corpo stesse reagendo alla notizia. Avrebbe dovuto affrontare i clienti da sola, lei che fino a quel momento aveva solo preso appunti, servito caffè, annotato cifre. Ma non era questo a spaventarla davvero. Ciò che la turbava e la eccitava allo stesso tempo era l’abito che aveva scelto quella mattina.
Si alzò e andò verso lo specchio alto nell’angolo della sala riunioni. L’immagine che le restituì la superficie lucida la fece quasi sussultare. La giacca aderente, chiusa da un solo bottone, non riusciva a celare ciò che aveva sotto: l’ecopelle del body, con gli inserti in tulle che giocavano a trasparire, sosteneva il seno con l’effetto push up incorporato. Il petto le appariva gonfio, teso, sospinto verso l’alto in una forma perfetta che spingeva contro il tessuto della giacca. Ogni respiro faceva vibrare quella linea di pelle e tulle che correva lungo il solco del seno, un taglio profondo e sensuale che non lasciava spazio a dubbi.
Abbassò lo sguardo e notò la minigonna che le fasciava i fianchi come una seconda pelle. Lo spacchetto laterale, innocuo se restava immobile, minacciava di rivelare l’orlo dell’autoreggente a ogni minimo movimento, quasi fosse un gioco perverso tra ciò che voleva restare nascosto e ciò che chiedeva di essere visto.
Si osservò a lungo, con un misto di paura e compiacimento. Sapeva che i clienti stavano per arrivare, e sapeva anche che avrebbe dovuto accoglierli proprio così: con addosso un abito che, più che coprirla, la esaltava. Un brivido le percorse la schiena, trasformando l’ansia in eccitazione. Quel giorno, più che mai, tutto dipendeva da lei.
Fu in quel momento che le tornarono alla mente le parole del padre al telefono, pronunciate con tono grave: “Devi fare qualunque cosa per venderla.” Quelle sillabe, ripetute nella sua testa, le fecero tremare le gambe. Sentì il cuore batterle forte, e un calore improvviso scendere nel ventre, accendendole la pelle. Qualunque cosa. L’eco di quella frase si mescolava al riflesso nello specchio, e in quell’istante Elena comprese che non era più solo una figlia obbediente o una segretaria inesperta: era una donna che stava per entrare in un gioco che poteva andare oltre ogni limite.
La porta dell’ufficio si aprì all’orario stabilito, e il rumore dei passi nel corridoio ruppe l’attesa. Elena si alzò di scatto, stirando la minigonna con le mani e cercando di dare fermezza al respiro. Tre uomini entrarono insieme, sicuri, lo sguardo già pronto a valutare. Due portavano cartelle sottili e giacche eleganti: gli avvocati, con quell’aria di chi pesa ogni parola. L’altro, più robusto, con il portamento pratico e lo sguardo diretto, doveva essere l’ingegnere incaricato di verificare la solidità della villa.
«Buongiorno,» disse Elena con un filo di voce che subito corresse, rendendola più ferma. Indicò loro la sala riunioni e li fece accomodare, osservando come gli occhi dei tre si posarono per un attimo su di lei, non con malizia evidente, ma con quell’attenzione inevitabile che un corpo come il suo, vestito in quel modo, non poteva non suscitare.
Sapeva che l’intera trattativa dipendeva da lei. Doveva mostrare sicurezza, farli sentire accolti, rispondere alle domande con calma. Ma ogni volta che chinava lo sguardo sui documenti, percepiva la pressione della giacca sul seno e lo spacco della gonna che minacciava di aprirsi un po’ di più. E nella sua mente, l’eco della voce del padre non la lasciava: “devi fare qualunque cosa per venderla.”
La riunione iniziò con la prevedibile freddezza. I due avvocati aprirono subito le cartelle, tirando fuori fogli con appunti e clausole, l’ingegnere invece aveva una piantina piegata in quattro che posò davanti a sé. Le domande arrivarono puntuali, scandite da voci sicure: dettagli sulla proprietà, sulla provenienza degli atti, sulle spese di ristrutturazione. Elena rispondeva come poteva, attingendo a quello che aveva imparato osservando il padre, cercando di non mostrare esitazione.
A un certo punto si alzò per prendere dal mobile dietro di sé una cartellina con i documenti catastali. La giacca tirò leggermente sulle spalle, e mentre tornava verso il tavolo sentiva l’orlo della minigonna risalire appena a ogni passo. Posò i fogli davanti a loro, chinandosi quel tanto che bastava per indicare una sezione della planimetria. Quando rialzò lo sguardo, trovò i tre uomini fermi, immobili, con gli occhi incollati non ai documenti ma a lei.
Gli avvocati si ricomposero subito, fingendo di tornare al testo, ma l’ingegnere rimase un istante di troppo con lo sguardo piantato sul taglio netto del suo seno che la giacca lasciava scoprire, prima di schiarirsi la voce e chinarsi sui fogli. Elena sentì un brivido correre lungo la schiena: sapeva di averli catturati, che la sua presenza stava incidendo tanto quanto le carte che aveva davanti. E nella testa tornò, insistente, la frase del padre: “devi fare qualunque cosa per venderla.”
Elena si risiedette, cercando di mascherare il tremito delle mani mentre sistemava i fogli davanti a sé. I tre uomini ricominciarono a parlare, e le loro voci riempirono la sala con un ritmo serrato, quasi soffocante. Gli avvocati incalzavano con domande tecniche, formule legali che lei ripeteva a memoria dalle lezioni del padre, mentre l’ingegnere prendeva appunti rapidi, ogni tanto sollevando lo sguardo e posandolo su di lei con una naturalezza che le faceva mancare l’aria.
Ogni volta che cercava di concentrarsi sulle carte, sentiva il corpo tradirla: il seno che premeva contro il body, il tessuto lucido della minigonna che le scaldava la pelle, lo spacco che le ricordava a ogni minimo movimento l’orlo segreto dell’autoreggente. E dentro di sé, la voce paterna che non la lasciava respirare: “Devi fare qualunque cosa per venderla.” Più loro parlavano, più quella frase cresceva, si confondeva con le domande, con gli sguardi, fino a diventare quasi un ordine inciso nel sangue.
Passarono minuti così, tra carte che scorrevano e firme simulate con le dita, finché uno degli avvocati richiuse la sua cartella e disse con calma: «Bene, i documenti sembrano in regola. Ora serve il sopralluogo, vogliamo vedere la villa di persona.»
Il collega annuì, l’ingegnere raccolse la piantina, e tutti e tre si alzarono in sincronia, voltandosi verso di lei come se fosse naturale che li conducesse. Elena restò immobile per un istante, con il cuore che batteva troppo forte e le gambe che sembravano pronte a cedere. Poi si alzò anche lei, stringendo i fogli tra le mani come un’àncora, consapevole che da quel momento tutto dipendeva da lei.
Elena guidò fino alla villa con le mani strette sul volante, il cuore che non accennava a calmarsi. Durante il tragitto, aveva ripetuto tra sé le parole del padre, come un mantra e una condanna: “devi fare qualunque cosa per venderla.” Ogni volta che la minigonna le tirava sulle cosce per la posizione di guida, ogni volta che la giacca si tendeva sul seno spinto dal body, il suo stesso corpo sembrava ricordarle quanto fosse scoperta.
Quando imboccò il viale alberato che conduceva alla villa, si accorse che le tre auto che la seguivano avevano accelerato e ora la precedevano. Parcheggiò accanto a loro, e si rese conto che i tre uomini non si erano diretti verso l’ingresso. Erano lì, in piedi, poco distanti dalle macchine, con le cartelle sotto braccio, ma con gli occhi puntati sulla sua. Stavano aspettando lei.
Per un istante rimase seduta, le mani ancora sul volante, sentendo le gambe cedere sotto la pelle lucida della minigonna e il calore che le saliva dal ventre. Sapeva che non poteva restare ferma: quell’attesa, quello sguardo collettivo addosso, era già uno spettacolo in sé. Con un respiro profondo aprì lo sportello.
Il ticchettio secco dei tacchi sul selciato si mescolò al fruscio della pelle che tirava. Mentre scendeva, sentì l’aria fresca colpire le cosce nude tra la gonna e il bordo dell’autoreggente, e in quell’istante capì che nessuno di loro stava pensando alle clausole o alle firme. Tutti e tre erano lì per guardarla, e lei non poteva far finta di non saperlo.
Elena aprì il cancello e li guidò all’interno, precedendoli verso la villa. All’inizio i tre uomini si muovevano con passo pratico, lo sguardo rivolto alla facciata, al giardino curato, alle proporzioni dell’edificio. Commentavano a bassa voce dettagli tecnici, l’ingegnere che parlava di fondamenta, gli avvocati che accennavano al valore dell’investimento. Ma via via che procedevano, i loro occhi cominciarono a spostarsi.
Mentre Elena camminava davanti a loro, la minigonna in pelle lucida si tendeva sui fianchi e lo spacchetto lasciava intravedere, a ogni passo, il bordo dell’autoreggente. La giacca, troppo stretta, metteva in risalto la linea del seno che si muoveva a ritmo con il respiro. I tre continuarono a parlare della villa, sì, ma con pause sempre più lunghe, frasi tronche che lasciavano spazio a silenzi in cui l’attenzione era chiaramente catturata da lei.
Entrarono nell’ampio salone e il contrasto si fece lampante. L’ingegnere accennò al soffitto a cassettoni, ma i suoi occhi restarono fissi sulle gambe di Elena mentre chinava la testa sui documenti. Uno degli avvocati fece una domanda sulle pertinenze, ma il tono si spezzò quando lei si piegò appena per appoggiare la cartellina sul tavolo, mostrando il taglio del seno sostenuto dal body.
Non era più solo la villa ad essere oggetto di valutazione: era lei. Ogni suo gesto, anche il più neutro, diventava materia di attenzione, e la consapevolezza di questo la faceva tremare dentro. Sentiva il ventre scaldarsi, le gambe farsi deboli, mentre la frase del padre continuava a martellarle nella mente: “devi fare qualunque cosa per venderla.”
Elena era in piedi davanti al tavolo, con le mani occupate a sistemare i fogli della planimetria. Sentiva il respiro dei tre uomini alle sue spalle, la loro presenza compatta e silenziosa che riempiva il salone più di qualunque parola. Fino a quel momento aveva cercato di mantenere un equilibrio, di mostrarsi padrona della situazione, ma l’eco della voce paterna continuava a morderle dentro: “Devi fare qualunque cosa per venderla.” Era quella frase a guidarle la mano, più della ragione.
Si chinò appena in avanti, fingendo di seguire con il dito le linee della carta, e in quel gesto calcolato il bottone solitario della giacca, tirato dal movimento del busto, cedette. Un piccolo scatto metallico, quasi impercettibile, e all’improvviso la stoffa si aprì. Non del tutto, ma quanto bastava a rivelare il body in ecopelle, lucido, teso contro la pelle, e l’inserto in tulle che lasciava trasparire il seno gonfio, sospinto verso l’alto dall’effetto push up.
Non fece alcun cenno per richiuderla. Restò piegata sul tavolo, gli occhi fissi sul foglio, come se nulla fosse accaduto. Ma lo sentì chiaramente: il silenzio che calò alle sue spalle era diverso da quello di prima. Non era concentrazione, non era attesa. Era sospensione. I tre uomini si erano fermati, trattenendo fiato e parole, ipnotizzati da quella visione improvvisa.
Elena non osò girarsi, ma percepiva ogni dettaglio. Il peso degli sguardi sulla pelle esposta, il battito accelerato che le faceva vibrare il petto, il calore che le saliva dal ventre e le faceva tremare le gambe. Quello che fino a un attimo prima era un gioco sottile ora era diventato un gesto senza ritorno. Aveva alzato l’asticella.
Il silenzio si ruppe solo quando uno degli avvocati, con voce roca, si schiarì la gola e propose di proseguire la visita. Elena raccolse i fogli con calma, facendo finta di non notare la giacca che restava aperta, e si avviò verso la scala che portava al piano superiore. Il ticchettio dei tacchi risuonava nel vuoto della villa, segnando il ritmo dei suoi passi e, insieme, il battito accelerato che le martellava nel petto.
Salì lentamente, consapevole di avere dietro di sé i tre uomini. Lo sentiva, lo percepiva senza bisogno di voltarsi: i loro occhi non seguivano più solo le rifiniture dell’abitazione o la qualità del legno della ringhiera, ma il suo corpo che li precedeva, la curva dei fianchi stretti nella minigonna, la linea delle gambe sottolineata dalla riga nera dell’autoreggente. La giacca, lasciata volutamente slacciata, si apriva a ogni movimento del busto, mostrando di tanto in tanto la lucentezza del body sotto e il taglio netto del seno che respirava libero.
Arrivarono al corridoio della zona notte, dove le porte si aprivano su camere ancora arredate. Elena spinse la prima, lasciando che l’odore del legno e della polvere si mescolasse all’atmosfera sospesa. Un letto matrimoniale, perfettamente rifatto, occupava il centro della stanza, con comodini e lampade ancora al loro posto, come se qualcuno dovesse entrarvi quella sera stessa.
«Qui la camera padronale,» disse, la voce più bassa del solito. Entrò e si avvicinò alla finestra per aprire le tende, la luce che le cadde addosso sottolineò ancora di più l’apertura della giacca. Dietro di lei, nessuno parlava più di rendite catastali o di clausole contrattuali. La villa, pur splendida, stava lentamente passando in secondo piano. Il vero fulcro dell’attenzione, ormai, era lei.
Si fermò accanto al letto, la mano a sfiorare il legno lucido della spalliera come per sottolinearne la fattura. Alle sue spalle i tre uomini entrarono in silenzio, ma nessuno sembrava interessato al mobilio. Gli avvocati tenevano ancora le cartelle, chiuse, l’ingegnere stringeva la piantina arrotolata ma non la guardava. Tutti e tre avevano lo sguardo piantato su di lei.
Un brivido le corse lungo la schiena. Non poteva fingere di non accorgersene: era il centro della scena, e la frase paterna tornò a morderle la mente, più viva che mai: “devi fare qualunque cosa per venderla.” Inspirò lentamente, cercando di mascherare il tremito delle mani, e invece di richiudere la giacca la lasciò spalancata del tutto, voltandosi verso di loro con il body in ecopelle e tulle che brillava nella luce.
Per un istante il tempo restò sospeso. I tre uomini non mossero un muscolo, fermi accanto alla porta, rapiti. Era ancora lei a guidare il gioco, con un gesto semplice ma dirompente, ed era come se la villa fosse scomparsa: esisteva solo quella stanza e il corpo che li invitava silenziosamente.
Si fermò accanto al letto, la mano a sfiorare il legno lucido della spalliera come per sottolinearne la fattura. Alle sue spalle i tre uomini entrarono in silenzio, ma nessuno sembrava interessato al mobilio. Gli avvocati tenevano ancora le cartelle, chiuse, l’ingegnere stringeva la piantina arrotolata ma non la guardava. Tutti e tre avevano lo sguardo piantato su di lei.
Un brivido le corse lungo la schiena. Non poteva fingere di non accorgersene: era il centro della scena, e la frase paterna tornò a morderle la mente, più viva che mai: “devi fare qualunque cosa per venderla.” Inspirò lentamente, cercando di mascherare il tremito delle mani, e invece di richiudere la giacca la lasciò spalancata del tutto, voltandosi verso di loro con il body in ecopelle e tulle che brillava nella luce.
Per un istante il tempo restò sospeso. I tre uomini non mossero un muscolo, fermi accanto alla porta, rapiti. Era ancora lei a guidare il gioco, con un gesto semplice ma dirompente, ed era come se la villa fosse scomparsa: esisteva solo quella stanza e il corpo che li invitava silenziosamente.
Il letto era alle sue spalle, le tende lasciavano filtrare la luce bianca del pomeriggio. Lei restava immobile con la giacca ormai spalancata, il body che le segnava la pelle e il seno che respirava pesante. I tre uomini entrarono nella stanza e si disposero in un semicerchio, senza accordarsi, come se fosse naturale. Nessuno parlava più di clausole o di atti notarili: l’aria era densa, sospesa, vibrante.
L’avvocato più anziano fu il primo ad avvicinarsi di un passo, il tono basso ma chiarissimo: «Capisci bene… la vendita dipende da noi.» La frase, semplice, si aggrappò alla voce del padre che ancora rimbombava nella sua mente: “devi fare qualunque cosa per venderla.” Un brivido le scosse le gambe, il ventre prese fuoco.
L’ingegnere la osservava in silenzio, le mani intrecciate dietro la schiena, ma lo sguardo era inchiodato sulla scollatura che si apriva senza più difese. L’altro avvocato si limitò a sfogliare distrattamente la cartella, poi la chiuse di nuovo con un colpo secco. «Non servono più documenti,» mormorò, «quello che resta da verificare è altro.»
Li sentiva stringerle lo spazio intorno, centimetro dopo centimetro, e ogni passo indietro la portava più vicino al bordo del letto. Non era più questione di immobili o di firme: il vero atto si stava scrivendo lì, tra le loro mani e il suo corpo che tremava, pronto a cedere.
Il corpo le bruciava dall’interno. Non erano solo gli sguardi che la divoravano, erano i mesi accumulati di notti interrotte, di carezze negate, di desiderio lasciato a metà. Sentirsi al centro di quell’attenzione maschile la stava eccitando al punto da farle tremare le cosce. Tre uomini, tutti concentrati su di lei, tutti pronti a volerla, la facevano sentire viva, potente e fragile nello stesso istante.
E in quel vortice, la voce del padre continuava a rimbombare: “devi fare qualunque cosa per venderla.” Non suonava più come un dovere, ma come un’assoluzione, quasi un perdono anticipato. Quelle parole la liberavano dal peso del peccato, la giustificavano. Non era lei a scegliere, non era lei a cadere: era la necessità, era il lavoro, era la vita dell’agenzia che dipendeva dal suo corpo. E dentro di sé, sapeva che lo voleva.
Un passo indietro, poi un altro. Le gambe sembravano obbedire a un ritmo che non era più il suo, guidate dagli sguardi che la spingevano verso il letto. Il corpo rispondeva con un calore crescente, come se ogni fibra della pelle fosse in attesa di essere toccata. Sentiva i capezzoli tesi contro il tulle del body, il respiro spezzato che le apriva il petto.
I tre uomini non si affrettarono. La seguivano con lentezza, chiudendole intorno lo spazio. Non servivano frasi, bastava l’aria che vibrava tra loro. Ogni volta che incrociava uno sguardo, trovava riflesso lo stesso messaggio: desiderio puro, incontrollato. E quella certezza la fece vibrare ancora di più.
Si ritrovò con le ginocchia che sfioravano la coperta tesa del letto matrimoniale. Un brivido la attraversò, metà paura, metà eccitazione. Le tornò addosso la voce paterna, più chiara che mai: “devi fare qualunque cosa per venderla.” Non era più un ordine, ma una formula sacra, la frase che l’assolveva, che cancellava il peccato prima ancora di commetterlo.
Sollevò lo sguardo, i capelli tesi nella coda alta, la giacca aperta che non cercava più di chiudere. Le mani tremavano, ma non fece nulla per nascondersi. Era il momento in cui la scelta diventava resa. E in quella resa sentì l’eccitazione esplodere, come se stesse per precipitare in un abisso che in fondo desiderava da sempre.
Restò immobile solo un istante, il respiro corto e il cuore che le martellava nel petto. Poi, come spinta da una forza invisibile, abbassò lentamente le mani e le posò sulla giacca, ma non per chiuderla. Con un gesto deciso la scostò del tutto, lasciandola cadere lungo le braccia fino ai gomiti. Restò così, con il body lucido che stringeva la vita e il seno pieno che brillava nella luce, esposta e vulnerabile davanti a loro.
Il silenzio che seguì fu totale. I tre uomini si fermarono, come se aspettassero quel segnale, e lo avevano appena ricevuto. Lei li guardò uno dopo l’altro, senza pronunciare una parola, ma il gesto parlava più forte di qualunque frase: stava cedendo, stava offrendosi, pronta a lasciarsi prendere.
Fu l’ingegnere a muoversi per primo. Aveva tenuto lo sguardo fisso su di lei dall’inizio, come se aspettasse solo il momento giusto. Fece un passo avanti, le tolse con calma la cartellina dalle mani e la posò sul comodino, liberandola da quell’ultimo appiglio formale. Rimase davanti a lei, così vicino che poteva sentirne il respiro. Una mano le scivolò lentamente sul fianco, risalendo lungo la curva della minigonna, mentre l’altra si fermò appena sotto il seno, sopra l’ecopelle che lo conteneva.
Gli avvocati non dissero nulla, ma la loro immobilità era carica di attesa. Uno di loro si avvicinò al lato opposto, sfiorandole il braccio nudo con le dita, l’altro restò di fronte, le pupille scure piantate sul taglio del décolleté. Lei tremava, ma non fece un passo indietro. La giacca che scivolava dalle braccia fino a cadere sul pavimento fu il segnale definitivo: la segretaria, la figlia obbediente, non esisteva più.
La giacca che le scivolò dalle spalle fino a cadere sul pavimento fu come un sigillo spezzato. In quell’attimo capì che non era più soltanto la segretaria chiamata a sostituire il padre nell’agenzia, non era più la figlia che non voleva deluderlo, non era più la moglie che da mesi attendeva di essere presa e amata, né la madre che si alzava ogni notte al pianto del bambino. Tutti quei ruoli le si staccavano di dosso uno dopo l’altro, lasciandola nuda nell’essenza.
Davanti a quei tre uomini rimaneva soltanto una donna, viva, eccitata, desiderata al punto da tremare di piacere. Il loro silenzio, i loro sguardi, la circondavano più delle pareti della stanza. E l’eco della frase paterna — “devi fare qualunque cosa per venderla” — non era più un ordine: diventava l’assoluzione al peccato, il lasciapassare che le permetteva di abbandonarsi senza vergogna.
Si trovava stretta tra loro, le spalle quasi a sfiorare il letto, e ogni parte del corpo veniva reclamata da mani diverse: la coscia accarezzata, il fianco stretto, il seno sfiorato con decisione. Il respiro le usciva spezzato, gli occhi socchiusi, il ventre in fiamme. Non c’era più la segretaria, la figlia, la moglie, la madre. C’era solo una donna che tremava nel piacere di essere desiderata, tre uomini che la volevano tutta, e quella frase che ormai le suonava come un perdono: “devi fare qualunque cosa per venderla.”
Le ginocchia cedettero appena e si lasciò guidare all’indietro fino a sfiorare il bordo del letto. L’ingegnere la spinse con fermezza, non con brutalità ma con quell’autorità che non lasciava scampo, e la fece sedere. Da quella posizione la minigonna tirò ancora di più, e lo spacchetto laterale lasciò apparire il pizzo dell’autoreggente in tutta la sua malizia.
Il primo avvocato le prese il mento tra le dita, costringendola a sollevare lo sguardo verso di lui. Nei suoi occhi non c’era più traccia di formalità, solo il piacere di avere una giovane donna alla mercé dei loro desideri. L’altro le si posizionò dietro, chinandosi abbastanza da respirarle sul collo, le mani che scivolarono sulle spalle nude e poi sul petto, dove il body in ecopelle si tendeva sul seno gonfio.
Ogni parte di lei veniva reclamata: una coscia stretta e accarezzata con lentezza, il seno palpitante sotto dita decise, la nuca catturata da un respiro caldo che la faceva rabbrividire. Le gambe tremavano, il ventre le bruciava, e l’umidità crescente tra le cosce le toglieva ogni forza di resistere. Era diventata un punto focale di desiderio, un oggetto di piacere condiviso, e proprio in quella condizione trovava la sua eccitazione più pura.
Il letto dietro di lei era pronto, i tre uomini intorno erano decisi, e nella mente, come un mantra liberatorio, la voce del padre continuava a scandire: “devi fare qualunque cosa per venderla.”
La schiena incontrò il copriletto rigido, mentre mani decise la guidavano verso il centro del letto. Le gambe si piegarono docili, la minigonna che si sollevava senza più opporre resistenza. Il respiro era già corto, e il cuore le batteva come se stesse per esploderle nel petto.
Intorno a lei i tre uomini si mossero con calma metodica, sicuri del proprio ruolo. Le cartelle e le piantine erano rimaste sul comodino, dimenticate. Le giacche caddero a terra, i bottoni delle camicie si aprirono uno dopo l’altro, e presto i tessuti leggeri scivolarono via lasciando spazio alla pelle nuda, ai muscoli tesi, al desiderio che non si nascondeva più. I pantaloni seguirono la stessa sorte, e in pochi istanti la stanza non conteneva più tre professionisti in giacca e cravatta, ma tre corpi maschili pronti a prendersi la donna stesa davanti a loro.
Dal letto lei li guardava, immobile, il petto che si alzava e si abbassava in fretta, le cosce già tese dall’attesa. Ogni movimento degli uomini, ogni gesto di spogliazione, non faceva che accrescere l’eccitazione che le scaldava il ventre e le gambe. Non c’era più nulla di formale, solo la certezza di quello che stava per accadere.
Il primo a muoversi fu l’ingegnere. Più massiccio, con il petto ampio e scolpito, si posizionò tra le sue gambe, piegandole appena con le mani larghe. La guardava dall’alto, senza fretta, come un padrone che valuta ciò che ha davanti. Le dita le accarezzarono l’interno coscia, lentamente, seguendo la linea della riga nera dell’autoreggente fino al bordo di pizzo, lasciandola ansimante nell’attesa.
Alla sua destra, il più giovane dei due avvocati si liberò degli ultimi vestiti e si inginocchiò accanto al letto. Le prese una mano e la guidò verso di sé, facendole sentire tutta la durezza del suo desiderio. Non servivano parole, bastava la pressione decisa delle dita che chiudevano la sua mano intorno a lui per dirle cosa voleva.
Sul lato opposto, l’altro avvocato, più maturo, non si limitò a sfiorarla. Si piegò sopra di lei, le labbra che cercarono subito il collo, aspirando la pelle calda e lasciando un segno rosso che bruciava e faceva fremere. Le mani esperte si posarono sul seno teso, stringendo il push up del body fino a deformarne i contorni, come se volesse strapparlo per arrivare alla carne viva.
Stesa al centro, Elena non apparteneva più a se stessa. Ogni parte del corpo veniva reclamata: le gambe dall’ingegnere, le mani dall’avvocato giovane, il petto e il collo da quello più maturo. Il respiro le usciva a singhiozzi, il ventre in fiamme, il piacere che cresceva mentre tre uomini la circondavano e la prendevano ognuno a modo suo.
L’ingegnere si chinò tra le sue cosce, guidandole a spalancarsi sul letto. Le mani grandi le stringevano i fianchi con forza, quasi a trattenerla, e ogni suo respiro si trasformava in un gemito soffocato. L’avvocato più giovane, accovacciato alla sua destra, guidava con fermezza la mano di lei sul proprio sesso, imponendo un ritmo che non ammetteva esitazioni. A sinistra, l’altro continuava a piegarsi sul petto, baciandola e mordendola sul collo, le dita che lavoravano sul seno gonfio con una decisione che le strappava brividi di piacere.
Il corpo era completamente catturato. Ogni centimetro occupato da mani, bocche, erezioni che premevano contro di lei, facendola sentire al centro di un vortice di desiderio maschile. Non poteva più sfuggire, né lo voleva: ogni fibra la spingeva a cedere, a lasciarsi travolgere.
Le labbra si schiusero, un gemito profondo le uscì dal petto mentre le cosce tremavano e la schiena si inarcava. La villa, i documenti, la trattativa: tutto era scomparso. Restavano tre uomini che la prendevano insieme, e lei che si abbandonava, oggetto di piacere e fonte di eccitazione per tutti loro.
Sdraiata sul letto, con le gambe già divaricate e la minigonna che non era più altro che un brandello arrotolato sui fianchi, percepì la mole dell’ingegnere che si piegava tra le sue cosce. Non attese, non cercò esitazioni: le mani larghe le afferrarono i glutei e con un colpo deciso la tirò verso di sé, entrando in lei con forza, riempiendola di colpo. Un grido le sfuggì dalle labbra, più piacere che dolore, mentre la schiena si inarcava e il ventre si tendeva per accogliere quella potenza che la penetrava a fondo.
Non ebbe nemmeno il tempo di respirare che i due avvocati, spogliati e già gonfi di desiderio, si inginocchiarono ai lati del suo capo. Uno le prese il mento con decisione, obbligandola a girarsi verso di lui, l’altro già le premeva contro le labbra il membro turgido, lucido di eccitazione. Non poteva scegliere: fu costretta a muoversi da una parte all’altra, succhiando alternativamente, con la bocca riempita a turno, mentre i gemiti si mescolavano al ritmo dei colpi che l’ingegnere le infliggeva tra le cosce.
Ogni parte del suo corpo era catturata: la bocca invasa, la gola occupata da erezioni che spingevano fino a soffocarla, i seni stretti da mani che li afferravano con avidità, i fianchi spinti verso il basso da colpi possenti che le facevano tremare le gambe e scuotere il letto. L’aria si trasformava in un flusso caldo, fatto di gemiti, respiri ansimanti, odore acre di desiderio maschile.
Era completamente posseduta. Lì, in quella stanza che avrebbe dovuto essere solo il cuore di una villa in vendita, si era trasformata nel centro di un rituale carnale: tre uomini che la usavano senza tregua, lei che non poteva fare altro che cedere, e il piacere che cresceva impetuoso, incontrollabile, più forte di qualunque volontà.
Lei gemette forte, il corpo che si contorceva sul letto mentre l’ingegnere affondava in profondità. I colpi sempre più rapidi, sempre più violenti, la spinsero oltre il limite: il ventre le esplose di piacere, la gola si riempì di un urlo che le uscì spezzato, soffocato dai membri che continuavano a occupare la sua bocca. Tremò tutta, le cosce bagnate, il sesso che pulsava ancora stretto attorno a quell’asta enorme.
Fu allora che l’ingegnere si ritrasse all’improvviso, lasciandola ansimante e vuota. Non ebbe tempo di cercarlo: l’avvocato più anziano le prese i fianchi con decisione e la fece voltare, costringendola a mettersi a gattoni al centro del letto. Le mani le affondarono nei glutei, aprendola, e con un colpo secco la penetrò da dietro. Un gemito roco le sfuggì di nuovo, la testa che crollò in avanti.
Davanti al volto, i due avvocati restanti non le concessero tregua. Uno alla volta le premevano il sesso gonfio sulle labbra, costringendola a succhiare, a muoversi tra un membro e l’altro, la bocca che scivolava da una erezione all’altra senza respiro. Ogni spinta da dietro le faceva schizzare il capo in avanti, obbligandola a ingoiare più a fondo, mentre le mani degli uomini le tenevano ferma la nuca.
Stava perdendo ogni controllo. La posizione la rendeva un giocattolo vivo tra le loro mani, ogni colpo le faceva tremare i seni, le cosce le bruciavano, il ventre ardeva di nuovo. L’eccitazione non accennava a spegnersi, anzi, sembrava crescere a ogni nuova invasione.
Il ritmo da dietro divenne più intenso, colpi profondi che la scuotevano fino al petto. Ogni affondo la proiettava in avanti, obbligandola ad accogliere nelle labbra, a turno, i due membri tesi degli avvocati inginocchiati accanto al capo. La bocca era piena, il respiro spezzato, le mani degli uomini che la guidavano a non fermarsi mai.
Fu in quell’istante, con il corpo che tremava e l’orgasmo che le esplodeva dentro, che sentì le dita esperte del più anziano scivolare più in basso, premere con lentezza sul suo orifizio più segreto. Era un tocco deciso, che non chiedeva permesso, eppure la fece fremere con un piacere nuovo, quasi insopportabile. Il gemito le si trasformò in un grido strozzato, soffocato dal sesso che le riempiva la bocca.
La testa le crollò in avanti, ma trovò la forza di sollevare appena lo sguardo. Con le labbra lucide, tra un membro e l’altro, lasciò sfuggire un sussurro rotto, disperato e sensuale: «Prendimi anche lì… voglio sentirti dentro di me, ovunque.»
Quelle parole caddero pesanti nell’aria, più forti di qualunque firma. Il corpo già scosso dall’orgasmo vibrava ancora, pronto ad accogliere anche quell’ultima invasione che l’avrebbe consegnata completamente a loro.
L’avvocato anziano non esitò oltre. Dopo averla preparata con le dita, afferrò i suoi fianchi e con un movimento lento ma implacabile la penetrò nel punto più proibito. Lei spalancò la bocca in un urlo che si trasformò subito in un gemito strozzato, soffocato dal membro che uno degli avvocati le spinse contro le labbra. L’altro attendeva a pochi centimetri, pronto a occupare la bocca non appena fosse stata libera, costringendola a muoversi da un sesso all’altro senza tregua.
Il corpo le tremava tutto: la schiena inarcata, i seni che sobbalzavano a ogni affondo, le cosce tese che si aprivano e si chiudevano invano. L’ano, stretto e pulsante, veniva invaso con forza crescente, mentre la vagina rimaneva libera, colma di umidità e di un vuoto che bruciava più di ogni altra cosa. Ogni colpo la faceva urlare, ogni spinta le strappava un gemito che si perdeva tra le erezioni che le riempivano la bocca.
Era totalmente posseduta: non c’era più un respiro che le appartenesse, non un movimento che non fosse guidato da loro. Eppure nel vuoto che sentiva tra le cosce cresceva un desiderio feroce, una necessità che rendeva il piacere ancora più devastante.
Il più giovane dei tre si distese sul letto, il corpo nudo che si tendeva verso di lei. Le fece un cenno con la mano, deciso e al tempo stesso carico di aspettativa. Lei lo guardò un istante, le labbra dischiuse per l’ansimare, il petto che saliva e scendeva senza controllo. Poi, con un movimento incerto ma inevitabile, gli salì sopra. Le ginocchia affondarono nel materasso, le cosce si aprirono e la sua umidità calda avvolse l’asta tesa che la penetrò di colpo. Un grido le esplose dalla gola, lungo e gutturale, come un sollievo che attendeva da ore, da settimane. Finalmente riempita lì, nel punto che la bruciava dal desiderio, lasciò cadere la testa all’indietro e gemette senza pudore, muovendosi sopra di lui con la foga di chi non può più trattenersi.
Non ebbe il tempo di godere di quella pienezza che già dietro di lei l’avvocato più anziano la prese ai fianchi, stringendola con mani dure, e la penetrò lentamente nel varco proibito che aveva già aperto poco prima. La spinse a fondo, costringendola a sobbalzare in avanti mentre era ancora calata sull’altro. Un gemito stridulo le si strozzò in gola, eppure non ci fu rifiuto, anzi: il piacere raddoppiato la fece tremare. Il corpo era sospeso tra due forze contrarie, avanti e indietro, due erezioni che la invadevano insieme, riempiendola completamente e spingendola oltre ogni limite di resistenza.
Davanti a lei, l’ingegnere la osservava, alto, massiccio, con il sesso teso che pulsava a pochi centimetri dalle sue labbra. Non aspettò: le prese il capo con una mano, la guidò verso di sé, e lei lo accolse spalancando la bocca, inghiottendo quell’asta fino in fondo alla gola. Il suo respiro si spezzò, gli occhi le si riempirono di lacrime per l’intensità, ma non smise. Muoveva la testa avanti e indietro, alternando spinte e succhiate, lasciandosi usare come voleva.
Ogni parte del corpo era occupata. La bocca piena, la vagina che pulsava attorno all’avvocato giovane sotto di lei, l’ano invaso con forza da quello anziano dietro. Ogni colpo la scuoteva, la faceva rimbalzare, le costringeva gemiti strozzati che si mescolavano al sapore acre dell’ingegnere in bocca. Non era più Elena la segretaria, né la moglie, né la madre. Era solo carne viva, sudata, posseduta in tre.
Il piacere esplose come un incendio, incontrollabile. Si sentì vibrare da dentro, i muscoli che si contraevano senza più freno, il ventre che si stringeva fino al dolore. Si staccò un istante dalla bocca dell’ingegnere, ansimando, e con voce roca, urlò senza più freni, con fierezza e disperazione: «Sono una troia! La vostra troia!» Le parole si spaccarono in un gemito, mentre continuava a muoversi sopra di lui, a lasciarsi penetrare dietro, a succhiare davanti.
L’urlo restò sospeso nell’aria, rimbombando contro le pareti della camera da letto, e per un attimo fu come se tutta la villa ne fosse invasa.
Il corpo prese il sopravvento sulla mente. Si muoveva da sola, le anche che si spingevano in basso per inghiottire più a fondo l’avvocato giovane sotto di lei, mentre dietro il vecchio affondava con colpi violenti che la facevano urlare ad ogni spinta. L’ingegnere la teneva ferma per i capelli, la bocca occupata dalla sua durezza pulsante, e ogni volta che gemeva le veniva imposto di succhiare ancora più a fondo.
Le parole le uscirono spezzate, quasi grida: «Più forte! Non fermatevi! Non smettete!» Erano suppliche e ordini insieme, un fiume di piacere che non poteva più trattenere. I tre obbedirono senza esitazioni: il giovane sotto di lei spinse i fianchi verso l’alto con forza, l’anziano la tirò contro di sé da dietro con colpi secchi, l’ingegnere le riempì la gola senza darle respiro. Era un vortice, una morsa che la teneva sospesa e la schiacciava da ogni lato.
L’orgasmo la travolse di nuovo, improvviso, devastante. Le gambe cedettero, il ventre si contrasse con spasmi continui, urla soffocate dal sesso che le occupava la bocca. Tremava tutta, il corpo che non apparteneva più a lei, ma ai tre che la possedevano contemporaneamente.
E quando il primo a venire fu l’ingegnere, la bocca piena del suo sapore caldo e acre, le spinte dietro si fecero ancora più dure, le mani la stringevano come per marchiarla. L’avvocato giovane gemette sotto di lei, scaricandosi con colpi profondi che la fecero sussultare fino al cuore. Quasi in contemporanea l’anziano la prese a fondo, spingendola oltre ogni limite, lasciandole dentro la sua forza.
Le eiaculazioni maschili si sommarono alle sue convulsioni, e quasi subito un altro orgasmo la squarciò, violentissimo, come se il piacere dei tre si riversasse dentro di lei, moltiplicandosi. Urlò senza più voce, le lacrime agli occhi, il corpo che tremava in una resa totale, scossa dopo scossa fino allo sfinimento.
Non c’era più villa, non c’era più trattativa. Solo una donna piegata e glorificata da tre uomini che l’avevano posseduta fino all’essenza, e che l’avevano fatta venire tre volte, senza lasciarle nulla se non la consapevolezza di essere stata davvero la loro troia.
Gli uomini si ricomposero in fretta, come se quanto accaduto fosse stato soltanto un capitolo funzionale a un affare. Le camicie risalirono sulle spalle, le cravatte vennero strette di nuovo, le cartelle riprese in mano. L’avvocato anziano, già con il nodo della cravatta tirato alto, le rivolse un’occhiata rapida e una frase secca: «Domattina avrà l’assegno della caparra. La vendita è cosa fatta.» Nessun sorriso, nessun gesto di gratitudine. Solo freddezza.
La lasciarono così, nuda, sudata, le cosce ancora tremanti e segnate dal piacere, il letto disfatto sotto di lei. Sentì il portone richiudersi in lontananza e il silenzio tornare nella villa. Per un attimo restò immobile, il corpo che ancora pulsava del piacere appena subito, le gambe appiccicose, l’odore acre del sesso maschile che le impregnava la pelle. Poi sollevò il braccio verso il comodino e prese il cellulare.
Si mise seduta, le cosce spalancate, il ventre ancora bagnato di loro. Aprì la fotocamera e iniziò a scattare. Una dopo l’altra, foto crude, senza posa: il seno gonfio, il ventre lucido, le gambe aperte da cui colava il piacere dei tre. Non si sistemò, non cercò angolazioni morbide: voleva che Giorgio vedesse la realtà, nuda e senza filtri. Ogni scatto era una ferita e una provocazione insieme.
Poi digitò poche parole, la mano che tremava più per eccitazione che per fatica. Le lesse una volta, e un brivido le attraversò la schiena. Le lasciò lì, sotto le foto, e inviò tutto.
"È meglio se ti muovi a riprendere a scoparmi, altrimenti la prossima volta sarà per piacere… e non per dovere."
Il cellulare cadde sul materasso, lei si lasciò ricadere all’indietro, il respiro ancora affannoso. Per un istante sorrise, amara e soddisfatta. Non aveva più nulla da nascondere: ormai aveva scelto di essere tutta se stessa, fino in fondo.
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