Princy e Lorena 4^ Parte
di
Ironwriter2025
genere
dominazione
Le luci si affievolirono lentamente, lasciando solo il cono di riflettore sulla pedana centrale. Lorena si avvicinò a lei senza dire una parola. Le mani guantate sciolsero i legacci con la stessa calma con cui, poco prima, avevano impresso comandi assoluti. Princy era ancora in preda ai tremiti, la pelle arrossata, il respiro irregolare, il trucco ormai sfatto. Ma gli occhi... quegli occhi, nonostante tutto, brillavano.
Quando fu completamente libera, non riuscì a reggersi in piedi. Lorena la prese tra le braccia con naturalezza, come fosse la cosa più semplice e necessaria del mondo. Dal buio, nessun suono: il pubblico si era fatto invisibile, e il mondo intero si era ridotto al battito silenzioso dei loro corpi uno contro l’altro.
Uscirono dal locale senza dire nulla, Princy coperta solo da un lungo accappatoio nero che Lorena le aveva fatto scivolare addosso con un gesto delicato ma fermo. La Mini Cooper era parcheggiata come sempre accanto al lampione. La portiera si aprì con un clic e la ragazza fu adagiata con cura sul sedile passeggero, rannicchiata in silenzio, la testa appoggiata al finestrino freddo.
Durante il viaggio, nessuna musica. Solo il rumore sommesso delle gomme sull’asfalto bagnato. Lorena teneva una mano sul volante e l’altra sfiorava ogni tanto la gamba di lei, come per ricordarle che era lì, che tutto andava bene ora.
Quando arrivarono a casa, la guidò dentro tenendola per mano. L’appartamento era caldo, soffuso, il profumo di legno e vaniglia li accolse con discrezione. Lorena la fece entrare in bagno e, senza chiederle nulla, le slacciò l’accappatoio che Princy ancora stringeva al petto. Lo lasciò cadere lentamente a terra.
Accese la doccia, regolando l’acqua fino a farla scorrere tiepida, avvolgente. La fece entrare e le stette accanto, rimanendo vestita. Prese il doccino e iniziò a bagnarla con gesti circolari, lenti, accarezzandole le spalle, le braccia, il ventre. La schiuma del bagnoschiuma neutro colava lentamente sui segni della sera, ma senza più dolore.
Princy non parlava, ma si abbandonava completamente a quelle mani. Ogni tanto chiudeva gli occhi. Quando Lorena le lavò i capelli, le dita si insinuarono tra le ciocche con delicatezza, massaggiandole il cuoio capelluto come fosse un rituale sacro.
Poi l’avvolse in un grande asciugamano caldo, l’accompagnò in camera e la fece sedere sul letto. Prese un flacone di crema bianca e cominciò a spalmarla sulle cosce, con movimenti ampi e morbidi. Salì ai fianchi, sfiorando le costole, poi il ventre. Sui seni fu ancora più attenta, evitando i capezzoli tesi e sensibili. Le mani si muovevano lente, rassicuranti, mentre il profumo della crema riempiva l’aria.
Quando arrivò alla schiena, Princy si girò spontaneamente e si mise a pancia in giù, il corpo completamente affidato. Lorena le massaggiò le natiche segnate, la zona lombare, poi scese sulle gambe, fino alle caviglie
Quando finì di massaggiarle anche l’ultima parte del corpo, Lorena la osservò un istante, poi appoggiò il tubetto di crema sul comodino e si chinò su di lei. Le passò dolcemente una mano sulla guancia, spostando una ciocca ancora umida, e le sussurrò appena:
— Non ti vesto, principessa… la tua pelle ha bisogno di respirare. Non voglio che nulla ti faccia male stanotte.
Princy non rispose, ma annuì piano, ad occhi chiusi. Lorena la fece adagiare tra le lenzuola fresche, lisciandole il cuscino sotto la testa. Le rimboccò il lenzuolo sul petto con una tenerezza che contrastava in modo struggente con la donna che era stata solo poche ore prima. Rimase lì un attimo, in piedi accanto al letto, osservandola. Così vulnerabile, eppure così forte. Così esposta, eppure così serena.
Poi si spogliò lentamente, senza alcun bisogno di fretta. Sfilò il corsetto, i pantaloni lucidi, i guanti, lasciando cadere ogni cosa in silenzio. Non tolse il perizoma nero, un triangolo sottile che accarezzava appena il suo bacino. Si infilò sotto le lenzuola, dietro a lei, e la strinse piano contro il petto, una gamba tra le sue, il mento appoggiato sulla spalla.
Non disse nulla. Il respiro di Princy era già lento, regolare, ogni tanto interrotto da un piccolo sospiro, come un’eco lontana di ciò che era stato. Lorena invece rimase sveglia, con gli occhi aperti nel buio, ascoltando. I pensieri le scivolavano addosso come la pioggia leggera di primavera.
Cosa erano diventate, loro due? Cosa stava nascendo, sotto la pelle e oltre i ruoli? Non era solo possesso, non era solo desiderio. C’era un filo sottile che le univa, fatto di silenzi, di mani che sapevano aspettare, di dolori accolti, di piaceri cercati insieme.
Lorena chiuse gli occhi solo quando sentì che il corpo di Princy si era del tutto rilassato, morbido e fiducioso contro il suo.
Non riusciva a dormire. Il respiro di Princy, calmo e regolare, la cullava senza accorgersene, ma la sua mente era ancora in pieno movimento. Le braccia la stringevano con naturalezza, la gamba appoggiata sopra la sua, il calore della pelle nuda che respirava sotto le lenzuola.
Ripensò al loro primo incontro. Non in un locale, non tra luci e specchi, ma lì, nella villa di lei, quando si era presentata come un fulmine nella sua vita ordinata. Princy l’aveva guardata dalla finestra, vestita di pelle e occhi scuri, e senza dire una parola si era fatta prendere, guidare, esporre. Il desiderio si era rivelato senza veli. Fin dal principio.
Poi erano venute le prove. Il palco, la croce, la gogna. Ogni volta più a fondo, ogni volta più vero. Un percorso senza ritorno, una spirale che non prometteva nulla se non la verità di chi sei, quando sei costretta a cedere tutto.
Eppure… qualcosa dentro di lei cominciava a intuire che non sarebbe finita lì.
Princy era sì sottomessa, ma mai spezzata. Cedeva, sì, ma per scelta. E quella scelta, prima o poi, avrebbe potuto trasformarsi in sfida.
Lorena lo sentiva nel modo in cui si lasciava andare, ma poi stringeva i denti. Nel modo in cui gemeva, ma poi la guardava negli occhi.
Non era la resa di una schiava.
Era il gioco feroce di una lupa travestita da agnello.
E forse un giorno avrebbe provato a rovesciare tutto.
Forse l’avrebbe legata lei. Forse le avrebbe detto “Adesso basta, ora sei tu mia”.
Sorrise nel buio, senza aprire gli occhi.
L’idea non la spaventava.
La eccitava.
Il sonno la prese così, con un brivido caldo che le saliva dalla schiena.
Ancora abbracciata a lei, il corpo rilassato, ma la mente già pronta alla guerra che un giorno forse sarebbe arrivata.
Il sonno era stato profondo, senza sogni. Il corpo di Lorena, svuotato da ogni tensione, affondava nel materasso caldo ancora intriso dell’odore di pelle, di crema, di piacere consumato. Era una quiete totale, la stessa che si prova dopo la tempesta, quando l’aria è sospesa e il mondo pare essersi messo in pausa. E fu in quella calma irreale che avvertì qualcosa. Un tocco appena accennato sulle labbra. Un bacio leggero, delicato, come quello che si lascia a chi si ama. O a chi si ringrazia prima di abbandonarlo.
Lorena si mosse appena, senza ancora aprire gli occhi, con un sorriso pigro sul volto. Cercò di allungare il braccio per attirarla contro di sé, per stringerla e sentire di nuovo il suo calore addosso. Ma il braccio non si mosse. Neanche l’altro. Provò allora con le gambe, e fu lì che il respiro si spezzò.
Il corpo rispose, ma non come avrebbe voluto.
I polsi erano bloccati, le caviglie assicurate alle estremità del letto. Non c’erano nodi ruvidi, non c’era violenza: solo fermezza, precisione. La presa era perfetta. Silenziosa. Implacabile.
Aprì gli occhi di colpo, il cuore accelerato, l’adrenalina che riemergeva dal buio insieme al sangue. Nella penombra della stanza riconobbe subito le linee della figura che sedeva accanto alla finestra. Il profilo in controluce, le gambe raccolte contro il petto, i capelli spettinati e il viso truccato appena, ancora sporco della notte.
Princy.
Era nuda sotto una camicia sbottonata che non le copriva nulla. La stoffa cadeva sui fianchi come una carezza inutile, lasciando visibile ogni centimetro di pelle. Lo sguardo era calmo. Quasi tenero. Ma lucido. Troppo lucido.
Lorena trattenne il fiato per un istante. Non era sorpresa. No, non del tutto. Aveva intuito che qualcosa si stava muovendo sotto la superficie già da prima che il sonno la prendesse. Lo aveva visto in quegli occhi, in quel modo di stringersi a lei, non con paura, ma con determinazione. E ora eccola lì. Non con un frustino in mano, né con una voce urlante. Ma con quel silenzio carico di volontà che non chiede il permesso.
Fece per parlare, ma si fermò. Non c’era bisogno di parole. Princy la stava guardando. Non come la ragazza che si era lasciata portare nel buio. Non come la pupilla che impara. Ma come una donna che ha deciso di cambiare le regole.
Lorena distese le dita, testò i legacci, sentì la forza che li teneva saldi. Sorrise.
Non per debolezza. Ma perché si aspettava la guerra.
Solo non così presto.
E questo, in fondo, la eccitava più di ogni altra cosa.
Lorena si mosse appena. Non era il nodo che la teneva ferma, era la consapevolezza. Non si era mai sentita davvero prigioniera, ma quella sensazione ora aveva un sapore diverso. E non era amaro.
— Lo sai che stai giocando con qualcosa che non conosci ancora — disse, senza rabbia. C’era solo una lieve stanchezza nella voce, quella che arriva dopo una notte vissuta troppo a fondo.
Princy era ferma accanto al letto. La camicia aperta le danzava appena attorno al corpo nudo, accarezzata dall’aria del mattino. Si abbassò, si inginocchiò accanto a lei, e i suoi occhi verdi cercarono quelli di Lorena. Nessuna sfida. Solo presenza.
— Non voglio sostituirti — disse piano. — Non voglio diventare come te. Voglio solo… capire. Sentire cosa provi quando decidi tutto. Quando guidi. Quando guardi l’altra persona tremare e sai che ti sta dando tutto. Voglio sapere cosa c’è dietro i tuoi occhi quando mi ordini di aprirmi. Voglio provarlo. Solo una volta. Solo stanotte.
Lorena la guardò. Quella risposta era disarmante, ma autentica.
Tentò di parlarle ancora, di metterla in guardia.
— Non basta volerlo. Tu non sai che peso ha il potere quando lo tieni davvero in mano. Può consumarti.
— Ma io non lo voglio tenere per sempre — rispose Princy, sfiorandole il polso con le dita. — Tu me l’hai dato, senza saperlo, quella prima volta.
Abbassò lo sguardo, e il sorriso le nacque sulle labbra come un fiore timido, ma irrefrenabile.
— Hai piantato qualcosa in me. Un seme. Non nel corpo, Lorena. Nel cuore.
Sollevò di nuovo gli occhi su di lei, brillanti.
— E adesso… lo stiamo facendo crescere insieme.
Lorena la fissò, colpita più da quella dolcezza che da qualsiasi catena.
Il desiderio che sentiva non era quello di liberarsi, ma di vedere cosa sarebbe accaduto. Dove sarebbero potute arrivare, se avessero smesso per un attimo di stare ognuna solo nel proprio ruolo.
Princy si avvicinò. La sfiorò con la guancia. Un tocco, non un gesto. Poi appoggiò la fronte sulla sua spalla, e per un attimo nessuna delle due parlò.
Quando riaprì gli occhi, Princy non era più accanto al letto. Il lenzuolo sfiorava appena la pelle, i polsi tiravano piano, come per ricordarle dove finiva la libertà. Poi un suono. Quasi impercettibile. Il clic metallico di una lama che scatta fuori. Lorena voltò appena il volto sul cuscino e la vide: in piedi davanti allo specchio, con lo sguardo concentrato e assorto, Princy teneva in mano il rasoio da barbiere. Lo stesso della sera passata. La lama lunga, lucida, sottile come un’idea pericolosa.
Lo osservava come se stesse cercando di ricordare qualcosa. Forse una scena. Forse il gesto di Lorena, quando lo usò su di lei. Poi si voltò. E si avvicinò.
Lorena non parlò. Non si agitò. Seguì ogni passo. Ogni piccolo movimento. Sentiva l’aria diventare più densa. Ogni centimetro di pelle in attesa.
Princy si chinò sul letto e passò la lama aperta tra le dita, quasi accarezzandola, come a saggiare la propria sicurezza. Poi la sollevò e la posò, piatta, sul ventre di Lorena, appena sotto l’ombelico.
Il metallo era freddo. Ma la mano che lo guidava, stranamente ferma.
— Non muoverti — sussurrò.
Lorena trattenne il fiato. Sentì la lama scivolare lenta sul suo addome, non affondava, ma tracciava. Segnava invisibili percorsi sulla pelle. Si fermò all’elastico del perizoma.
— È così che hai fatto con me? — chiese Princy, la voce bassa, quasi un sussurro incuriosito. — Quando me lo hai tagliato… avevi paura?
Lorena sorrise appena.
— No.
— Neanch’io.
Poi abbassò la lama con un gesto preciso.
Un leggero fruscio.
La seta tesa si ruppe all’istante. Prima da un lato, poi dall’altro. Il perizoma nero si aprì come un fiore reciso e scivolò via, lasciando Lorena completamente nuda, stesa, legata, offerta.
Princy lo raccolse con due dita e lo lasciò cadere sul pavimento. Non lo guardò nemmeno.
Ora la sua attenzione era tutta per il corpo che aveva davanti.
La lama tornò sulla pelle, questa volta sul fianco. La fece scorrere lungo la curva morbida dei seni, senza premere. Solo sfiorare. Era il gesto a parlare, non il metallo. Un gesto che diceva: adesso ti sento mia. Anche solo per poco. Anche solo per gioco. La passò tra i seni, poi salì alla clavicola, indugiò sulla linea tesa del collo. Lorena non tremava. Aveva gli occhi socchiusi, il respiro appena più affannato. Era lì. Dentro quel momento.
Princy si abbassò, appoggiando un ginocchio sul letto. Con la lama ancora in mano, fece scorrere le dita libere lungo la coscia di Lorena, poi si chinò a baciarla sul ventre. Non un bacio tenero. Un bacio silenzioso, grave, come un segno di rispetto. Poi sollevò lo sguardo.
— Sei bellissima così. —
La voce era tremante, ma non insicura.
— Non voglio farti male. Ma voglio vederti tremare per me. Come io ho tremato per te.
Trattenne il respiro quando vide Princy sollevare di nuovo il rasoio. La lama, lucida e perfetta, danzava nell’aria come una promessa silenziosa. Non c’era più esitazione nei suoi gesti. Solo precisione, attenzione, desiderio. Non quello che divora. Quello che osserva. Che esplora.
Appoggiò il filo d’acciaio poco sotto la clavicola e lo fece scivolare lentamente verso il seno. Non affondava. Ma premeva. Quanto bastava perché la pelle reagisse, si tendesse, si sollevasse in un fremito. E poi… una sensazione sottile, quasi impercettibile, come un graffio di luce che non sanguina. Un’incisione minima, invisibile, ma presente. Lorena trattenne un gemito, le dita delle mani si chiusero a pugno, i polsi strinsero i legacci.
Non per paura.
Perché il piacere, così vicino al pericolo, aveva il sapore della verità.
Princy si avvicinò ancora, chinandosi sopra di lei. La lama scivolò lungo il fianco, poi oltre l’ombelico, poi tra le cosce. Non tagliava. Ma lasciava una scia.
La mano libera cominciò a muoversi in parallelo.
Accarezzava, tastava, sentiva ogni reazione, ogni contrazione muscolare, ogni trattenuto respiro.
Quando arrivò tra le gambe di Lorena, le dita trovarono la verità prima ancora della bocca.
Si fermò.
Sollevò lo sguardo e la fissò.
Gli occhi si fecero più scuri. La voce uscì bassa, roca, ma nitida.
— Sei una troia.
Lorena sussultò. Lo insulto colpì come uno schiaffo al centro del petto, ma non c’era odio in quella parola.
Solo verità.
E un pizzico di vendetta dolce.
Princy avvicinò le labbra al suo orecchio, e sussurrò lentamente, parola per parola, senza nascondere nulla.
— Sei già bagnata… come se te la fossi fatta addosso.
La lama risalì lentamente, scivolando tra i seni, poi sul petto, fino alla base del collo. Lorena non parlava. Ogni muscolo del suo corpo era teso, ogni fibra in attesa. L’acciaio era freddo, ma la pelle bruciava sotto quel tocco. E quando Princy glielo posò alla gola, proprio lì, dove il battito era più forte, premette appena di più.
Non era una minaccia. Non voleva farle male. Ma voleva che lo sentisse. Che sapesse fino a che punto si era spinta.
La voce le uscì sottile, lenta, quasi senza emozione.
— Potrei ucciderti.
Lorena inspirò.
— E tu… non potresti fare nulla.
Poi la baciò.
Non un bacio tenero. Ma neanche violento. Era una presa, una chiusura, una consacrazione. La bocca si schiuse, si prese tutto, come se il respiro stesso fosse diventato un atto d’amore e di dominio.
Nel frattempo, la lama scivolò via, lasciata cadere sul cuscino.
E la mano di Princy le si infilò tra le cosce, diretta, sicura.
Un dito.
Poi due.
Lorena gemette, il suono caldo, vibrante, impossibile da trattenere. La penetrazione fu lenta, ma decisa. Le dita si muovevano come se conoscessero già quel corpo, come se ci fossero sempre state, come se fossero nate per quel gesto preciso, in quel momento esatto. La sentiva umida, aperta, pulsante.
Era sua.
Lorena aprì la bocca per lasciar uscire un altro gemito.
Ma Princy non glielo permise.
Le chiuse la bocca con un altro bacio, ancora più profondo, ancora più lungo. Le labbra premettero sulle sue come una morsa morbida, mentre le dita la facevano vibrare dentro.
Tutto il corpo di Lorena tremava.
Non c’era più differenza tra paura e piacere.
Tra resa e desiderio.
Princy si alzò senza dire una parola. Le dita, umide del desiderio di Lorena, si asciugarono sulla coscia mentre attraversava la stanza. I suoi passi erano lenti, silenziosi. Ogni gesto sembrava parte di un rituale. Lorena la seguiva con gli occhi, il petto che si sollevava piano, come per non disturbare il momento. Sapeva che qualcosa stava per accadere. Lo sentiva nell’aria. Nell’elettricità che vibrava tra i corpi.
Princy tornò con una candela sottile, color avorio. L’accese senza fretta, accostando il fiammifero alla cera come se stesse risvegliando una creatura dormiente. La fiamma tremolò, si stabilizzò.
Poi si avvicinò al letto.
Lorena la guardava, la bocca appena socchiusa, il seno che si muoveva lento sotto il respiro profondo. Le mani legate, le gambe aperte, la gola ancora calda del rasoio.
Era pronta. O forse no. Ma non avrebbe fermato nulla.
La prima goccia cadde tra i seni.
Un fremito. Nient’altro. Ma bastò a farle chiudere gli occhi.
Poi ne venne un’altra. Poco più in basso, sul ventre, vicina all’ombelico.
Il calore era quasi dolce, un dolore sottile che non respingeva, ma attirava.
Princy avvicinò la candela, inclinò leggermente il polso, lasciò cadere una scia irregolare lungo il ventre di Lorena, fino alla zona pubica, dove il corpo, rasato, vulnerabile, sembrava implorare qualcosa che nemmeno lei sapeva definire.
Lorena gemeva a occhi chiusi, ma non si muoveva. La cera tracciava linee invisibili, si raffreddava in pochi secondi, lasciando piccole macchie opache sulla pelle arrossata.
Era bellissima. Era sua.
Princy si chinò tra le sue gambe. Sfiorò con la lingua il punto dove la cera si era fermata.
Poi si sollevò di nuovo.
E tirò fuori una piccola pinzetta d’acciaio, sottile, lucida.
Lorena la vide e smise di respirare per un istante.
Princy la aprì. Con delicatezza. Come se stesse maneggiando un gioiello prezioso.
E la fece scattare sul clitoride gonfio, teso, bagnato.
Il gemito fu immediato. Profondo. Spaventato. Eccitato.
Lorena si arcuò appena, ma le cinghie non le permisero movimento. Il dolore era acuto, ma pulsava nello stesso ritmo del suo piacere, come se i due battiti fossero diventati uno.
Princy rimase lì a guardarla contorcersi piano, poi prese un filo di seta sottile, lo legò alla pinzetta e lo fece passare tra le dita.
Tirò.
Poco.
Basta per far salire il piacere di un altro mezzo centimetro.
Il filo di seta, teso, legato alla pinzetta che stringeva il clitoride di Lorena, era sottile come un pensiero proibito. Princy lo faceva vibrare tra le dita, tirandolo appena, lasciando che il metallo premuto sulla carne viva trasmettesse picchi sottilissimi di dolore che si confondevano con il piacere. Lorena ansimava, la bocca aperta, il respiro irregolare. Non sapeva più cosa chiedere: che smettesse? Che continuasse? Che la lasciasse venire?
Ma Princy non aveva fretta.
Prese la candela ancora accesa e la sollevò sopra il busto.
Inclinò il polso e lasciò cadere una goccia sul bordo interno del seno sinistro, proprio sotto la curva morbida. Lorena sussultò. Poi ne lasciò cadere un’altra sul capezzolo, colpendolo in pieno. La donna gemette forte, la schiena si sollevò di pochi centimetri, ma le cinghie la riportarono giù, prigioniera del proprio corpo.
Princy allora puntò l’altra mammella, ma non con fretta.
Fece scorrere prima la lama del rasoio — ancora calda della pelle — lungo il contorno, lasciando che Lorena si aspettasse la cera.
E solo quando il capezzolo si irrigidì di paura, la goccia cadde. Precisa. Bruciante.
Le reazioni erano più violente ora. Il piacere cominciava a confondersi con qualcosa che somigliava al panico. Ma non c'era rifiuto. Non c'era mai stato.
La candela si abbassò lentamente, disegnando un tracciato tortuoso lungo l’interno delle cosce, dove la pelle era più sottile, più sensibile. Le gocce cadevano una a una, ognuna come una goccia d'inchiostro bollente in un diario scritto a pelle viva. Lorena stringeva i denti, ma il corpo parlava per lei. Ogni volta che la cera cadeva, il bacino si sollevava. Ogni volta che la pinzetta veniva sfiorata, le cosce si aprivano di più.
Princy si chinò tra le gambe, lasciando la candela accesa sul comodino.
Fece scorrere lentamente la lingua sopra la cera rappresa sul pube, poi lungo la base del filo teso, e infine baciò il metallo che stringeva il centro pulsante di Lorena.
— Così bagnata. E ancora così mia — sussurrò.
Poi si rialzò. Guardò il corpo davanti a sé, segnato, acceso, tremante.
E si accorse che non aveva ancora finito.
Prese la candela un’ultima volta.
Ne abbassò la fiamma nell’incavo dell’ascella, e lì — dove nessuno penserebbe mai di colpire — lasciò scivolare una singola goccia.
Lorena urlò.
Ma non era dolore.
Era un orgasmo trattenuto a forza.
— Ancora no — disse Princy, tirando piano il filo. — Tu vieni quando lo decido io.
E Lorena, nuda, legata, consumata, le credette.
Lorena era un corpo aperto, attraversato da troppe sensazioni per distinguerle una dall’altra. Il calore della cera ancora colava in piccole scie spente, la pelle tirava dove la pinzetta stringeva il clitoride, e la mente era in un punto sospeso, dove non c’era più controllo, solo attesa. Attesa e desiderio. E paura. Quella giusta, quella che accende il ventre.
Princy tornò con la candela tra le dita. Ancora accesa. Il bastoncino avorio era leggermente ricurvo, la base liscia, lucida. La fiamma ondeggiava appena, consumando la cera un centimetro alla volta.
Lorena la guardò. La bocca aperta, il respiro lento.
Princy la guardò, e sorrise.
Non disse nulla. Solo si chinò. E con la fiamma accesa sopra, inclinò la candela e la fece scivolare tra le labbra umide di Lorena, sul sesso gonfio, tra i bordi arrossati del desiderio trattenuto.
La base della candela era calda, ma non bollente. E la sua superficie perfettamente levigata. La premette contro l’ingresso, lentamente. Senza fretta.
Lorena gemette. Un suono rauco, strozzato. Il bacino si mosse, i muscoli si contrassero, ma le cinghie la tennero immobile.
Princy premette ancora. E la candela entrò.
Calda. Densa.
Simbolica.
Lorena lanciò un gemito che si confuse col respiro. Il calore non bruciava, ma invadeva. Si diffondeva dall’interno verso fuori, come un’eco che risaliva la colonna vertebrale.
Princy la spinse fino a metà, poi la ruotò piano tra le dita. La fiamma, viva sopra, ardeva pochi centimetri sopra il pube, e Lorena lo sentiva. Il calore. Il rischio. L’abbandono.
— Potresti venire ora — sussurrò Princy, chinandosi sopra di lei. Le labbra le sfioravano l’orecchio, le dita accarezzavano l’interno coscia, senza fretta. — Ma non voglio.
Tirò leggermente il filo della pinzetta. Il metallo strinse. Lorena sussultò.
— Ci sei vicina, vero? Lo sento.
Infilò lentamente un dito accanto alla candela.
— Il tuo corpo non ne può più.
Ne infilò un secondo. Lì, dentro, mentre la candela restava ferma.
Lorena lanciò un urlo sommesso.
Era troppo. Troppo.
Il calore, la pressione, il metallo sul clitoride, le dita dentro.
E ancora…
Niente.
Princy si fermò.
— No. Non ancora.
Sfilò lentamente le dita.
Lasciò la candela lì, ferma, palpitante.
Poi si chinò tra le sue gambe.
Le labbra a pochi millimetri dalla pinzetta.
La lingua sfiorò.
Lorena tremava. Il respiro le si spezzava nel petto. Gli occhi sbarrati.
Princy risalì. Le tolse il bavaglio immaginario dalla bocca con un bacio. Profondo. Totale.
Poi le guardò negli occhi.
E sussurrò:
— Ora sì.
Tirò il filo, la candela ancora dentro, e affondò le dita con un colpo netto, preciso, deciso.
Lorena venne come se si stesse spezzando.
Un urlo lungo, gutturale, che lacerò il silenzio. Le gambe si irrigidirono, le mani strinsero il vuoto. Il corpo si contrasse tutto insieme, poi si abbandonò, crollò, si sciolse.
Le lacrime le bagnarono le tempie.
E la voce, quella, non le serviva più.
Princy le accarezzò i capelli.
La candela, ancora viva, bruciava piano sopra di loro.
Princy esitò solo un istante. La mano tremava appena, ma il gesto fu deciso: afferrò la base della candela ancora calda, e con lentezza la sfilò dal corpo di Lorena, centimetro dopo centimetro. La cera, sciolta dal calore interno, colava piano lungo le cosce. Il corpo si contrasse, un gemito sfuggì dalle labbra della donna. Ma non era solo piacere.
Era bruciore. Dolore. Vuoto.
Come se la carne si rifiutasse di lasciarla andare.
Poi le dita di Princy raggiunsero la pinzetta. Il metallo era umido, stretto, pulsante. Scattò.
Un istante.
La circolazione tornò di colpo.
Lorena urlò.
Un suono lungo, gutturale, profondo, diviso tra l’agonia e l’estasi.
Le gambe legate si irrigidirono, il bacino si sollevò di pochi centimetri, poi ricadde con un fremito. Il clitoride pulsava come una ferita viva. Era troppo. Era magnifico.
Era troppo magnifico.
Princy rimase lì, a guardarla. Il corpo nudo di Lorena era aperto, arrossato, colante di sudore e cera, segnato da ogni attenzione ricevuta.
Avrebbe dovuto sentirsi padrona. Ma qualcosa le scivolava tra le dita.
Lorena sollevò il capo. I capelli appiccicati alla fronte, il petto che si alzava a scatti. Gli occhi brillavano.
E poi, la risata.
Bassa. Secca.
Beffarda.
— È questo tutto quello che sai fare?
Un silenzio denso riempì la stanza.
— Mi hai fatta tremare, brava.
Un sospiro.
— Ma non basta farmi tremare, bambina. Devi farmi crollare.
Le parole erano pietre.
Lorena piegò appena la testa di lato, il sorriso ora feroce, carnale, consapevole.
— Hai avuto il mio corpo.
Scivolò più in basso con la voce.
— Adesso dimmi, Princy.
Un battito.
— Hai anche il coraggio di prenderti la mia anima?
Le gambe le tremavano ancora. Il clitoride la pulsava come se chiedesse vendetta. Il ventre si contraeva, l’interno ancora caldo, ancora aperto.
Ma Lorena era lì. Viva. Più viva che mai.
— Fammi male davvero, se ci riesci.
Un respiro.
— O scioglimi. E lascia che te lo insegni io, come si va fino in fondo.
Il gioco era finito.
La guerra era cominciata.
Lorena era un corpo ancora vivo di piacere, ma incompleto. Le mani legate, il sesso umido, aperto, segnato, il ventre ancora caldo per la candela e dolente per la pinzetta. Il respiro era affannoso, spezzato, profondo. Ma non bastava.
Qualcosa dentro di lei chiamava oltre.
Princy lo capì senza bisogno di parole. Si chinò tra le sue gambe, prese il lubrificante e ne versò generosamente sul palmo, poi lasciò che colasse tra le dita, scivolando lungo la pelle già tesa, gonfia, viva.
Il primo dito entrò con facilità. Calda, scivolosa. Lorena emise un gemito breve, quasi un sospiro trattenuto.
Il secondo si aggiunse. Il suono divenne più cupo, il respiro più profondo.
I tessuti cominciavano ad aprirsi, ma non senza combattere.
Il terzo entrò con maggiore resistenza. Le pareti vaginali si tendevano, si opponevano, si distendevano un millimetro alla volta.
Lorena gemette più forte. La bocca si aprì, il fiato sfuggì. Le gambe cercarono di chiudersi, ma i legacci le tennero spalancate.
Il piacere si stava trasformando.
In dolore.
E poi di nuovo in piacere.
Princy inspirò.
Aggiunse il quarto.
Le dita si allargarono per fare spazio.
I tessuti tiravano, scivolavano, si contraevano sotto lo sforzo.
Lorena lanciò un gemito lungo, quasi un lamento, il corpo sussultava.
— Aaahhh...
La voce vibrava nella stanza come un canto animalesco.
Il ventre si gonfiava, cercava di espellere, ma accoglieva.
Poi, Princy fermò il polso.
Lo piegò appena.
Il quinto dito era lì.
L’ingresso stretto, teso come una fessura viva, pulsava come per difendersi.
Lorena spalancò gli occhi. Non parlò. Ma gemette più forte, più gutturale, più grezzo.
— Nghhh… ahhh… ah…
Princy spinse. Poco. Poi ancora. La vagina cedette e la lasciò entrare di colpo.
Lorena si tese in un arco perfetto, il fiato le si strappò dal petto come se qualcosa l’avesse colpita al cuore. La carne la accoglieva a fatica, scivolosa e stretta, viva, tesa fino al limite. Era troppo, ma non abbastanza. Princy la sentì stringersi attorno alla pelle del polso, pulsare come se volesse ingoiarla, tenerla prigioniera, e allora serrò le dita, chiuse la mano nel suo corpo caldo, vivo, devastato, e la trasformò in un’arma. In un sesso che non esisteva. In un gesto che diceva: adesso sei mia.
Cominciò a muoversi. Con lentezza all’inizio, scivolando dentro e fuori con un attrito denso, carnale, come se la sua mano venisse risucchiata e respinta a ogni passaggio. La carne si richiudeva su di lei, bagnata, lubrificata, ma in costante resistenza. Lorena gemeva senza controllo, le urla erano spezzate, animalesche, interrotte da singhiozzi che venivano dalle viscere. Il bacino si muoveva, a scatti, in avanti e poi indietro, e ogni volta il pugno affondava più deciso, più profondo, più vero. Le cosce le tremavano, i legacci vibravano sotto lo sforzo del corpo che cercava di reagire, ma era troppo tardi. Princy la stava possedendo dall’interno.
Mise l’altra mano sul ventre della donna, la schiacciò con forza, e sentì il movimento della sua mano sotto pelle, dentro di lei, come un’onda viva che la percorreva dal pube fino all’addome. Ogni colpo era pieno, pesante, deciso. Non c’era più gentilezza. Solo volontà. Solo dominio. Il corpo di Lorena sobbalzava sul letto come se ogni spinta le strappasse qualcosa, come se con ogni movimento le venisse strappata via una parte di sé — ma non cercava di fermarla. La voleva. La voleva tutta. E la voce lo diceva, anche quando non parlava: gemiti strozzati, rantoli profondi, un respiro che si faceva preghiera.
Il letto cominciò a bagnarsi sotto di loro. All’inizio una sensazione tiepida, quasi impercettibile. Poi divenne chiaro: il liquido usciva da lei a fiotti, a colpi, ogni volta che il pugno la penetrava più a fondo. Non si tratteneva più. Non poteva. Il suo piacere era esploso, liquido e violento, e si riversava ovunque, impregnando tutto, come se il corpo non fosse più in grado di contenerlo. Princy continuò a muoversi, sempre più forte, sempre più affondata in lei, mentre Lorena gemeva come se non ci fosse più nulla da salvare.
Era un corpo che crollava. Un piacere che non chiedeva permesso.
E Princy, immersa fino all’avambraccio, non aveva mai amato tanto quel silenzio distrutto che veniva da Lorena.
Il respiro cominciava a regolarizzarsi, ma le mani erano ancora legate e la carne ancora percorsa da brividi involontari. Lorena sollevò appena il mento, con la testa ancora affondata nel cuscino. Aveva gli occhi lucidi, il corpo disfatto, la gola arsa, ma qualcosa dentro di lei, qualcosa che non cedeva mai davvero, riemerse. Il sorriso le tornò sulle labbra, sporco e bellissimo. La voce era roca, graffiata, ma netta.
— Ti senti grande adesso, eh?
Il tono era sottile come una lama. Non era rabbia, non era sfida. Era quel veleno dolce che solo lei sapeva usare quando voleva stringere qualcuno più forte, anche da sotto. Come se volesse provocare un’altra spinta, un altro colpo, come se volesse dirle: non basta, fammi ancora.
Princy non rispose. La guardava, ma non da fuori. La guardava da dentro. E lì, dove stava ancora annidata con il pugno chiuso e vivo, rispose nel modo più semplice. Si mosse.
Lorena si bloccò. Il fiato si spezzò nel petto con un colpo sordo. La carne reagì prima della mente, si strinse attorno a quella presenza, il ventre si irrigidì di colpo, il bacino si sollevò appena, ma una mano si posò sopra e lo tenne fermo. Il sorriso si spense sulle labbra, tremolò, si spaccò in un gemito più grande di lei.
— Nnnh… no… ah…
La voce provò a tornare, ma fu sostituita dal suono più primitivo, quello che non si può fingere. Ogni movimento dentro di lei la faceva crollare un po’ di più, ogni spinta era un silenzio imposto. Princy la stava zittendo con il corpo, con dolcezza, con assoluta perversione.
Lorena cercò ancora le parole, ma non c’erano più. Solo il calore liquido che scendeva tra le cosce, solo il pugno che si muoveva dentro di lei con la precisione di un gesto eterno. Le mani strette contro il letto, la schiena che si inarcava a scatti, e quella voce, la sua, che ormai non diceva più nulla. Solo ansimi, gemiti, richiami spezzati che chiedevano, senza chiedere.
Il corpo di Lorena era immobile, ogni fibra ancora attraversata da un’eco profonda, come se ogni parte di lei stesse ancora ascoltando la presenza che la abitava. Il respiro era lento, denso, ogni battito un’onda che sfiorava il limite del dolore e lo trasformava in qualcosa di più alto. Ma Princy sentì che era il momento.
Con infinita lentezza, cominciò a ritirare la mano. La sentì scivolare via millimetro dopo millimetro, accolta e trattenuta da una carne calda, viva, contratta. Lorena gemette piano, come se quella separazione fosse peggio di una spinta. Il pugno si aprì solo all’ultimo istante, prima di lasciare il corpo che lo aveva accolto con così tanta violenza e gratitudine. Quando la mano fu fuori, umida, lucida, tremante, un piccolo fiotto la seguì, caldo, liquido, silenzioso. Come se Lorena stesse ancora venendo, ancora dicendo sì con il corpo, anche senza più voce.
Princy si alzò. Non la toccò più. Non la baciò. Non la guardò. Raccolse con calma il lubrificante, chiuse il flacone, si passò una mano tra i capelli per scostare il sudore dalla fronte. Poi si avviò verso il bagno, nuda, le cosce ancora bagnate, l’avambraccio segnato del piacere di un’altra donna.
Arrivata sulla soglia, sollevò appena il mento. Non si voltò.
— Non abbiamo ancora finito.
La porta del bagno si aprì con un fruscio di vapore, e per un attimo Lorena non vide nulla. Solo il suono dei passi nudi sul parquet, il battito ancora irregolare del proprio respiro, il vuoto caldo che sentiva tra le gambe, sotto la pelle, dentro il ventre. Poi la vide.
Princy rientrò nella stanza completamente nuda, la pelle ancora umida, i capelli scuri lucidi e sciolti sulla schiena. Camminava con calma, come se niente fosse. Ma il dettaglio che catturava tutto era quello che portava addosso. Lo strap-on. Scuro, lucido, lungo, spesso. Di dimensioni esagerate, sproporzionato, volutamente crudele. Osceno.
Lorena deglutì a vuoto. Non per paura. Ma perché il corpo le rispondeva prima ancora che la mente fosse pronta. Il sesso si contrasse. I glutei si irrigidirono appena, come a ricordarle che lì, proprio lì, non era ancora stata presa.
Princy si fermò ai piedi del letto. Le mani sui fianchi. Il membro finto teso, imponente, puntato verso di lei come una lama viva. E quando parlò, la voce era più ferma che mai.
— Ti sei fatta fare il culo da Thomas.
Lorena aprì la bocca, forse per negare, forse per sorridere, ma non ne ebbe il tempo.
— Prima con dolcezza. Poi con impeto. Ricordo ogni parola che hai detto.
Si avvicinò di un passo. Il membro sfiorava la pelle del ginocchio. Il respiro caldo.
— Io non sarò gentile.
Abbassò lo sguardo sul corpo legato, sulle natiche morbide, esposte, lucide di piacere e sudore.
— Ti aprirò in due anche lì.
Poi sorrise. Un sorriso lento, perverso, che brillava negli occhi.
— Anche se… a dirla tutta…
Si chinò un poco, il busto in avanti, la voce appena più bassa.
— …stavo pensando di metterci tutta la mano.
Un silenzio sospeso. Il fiato di Lorena si fece più profondo.
— Tu cosa ne pensi?
E non aspettava una risposta.
Non davvero.
Solo una resa. O una sfida.
E Lorena… sapeva che stava per essere presa dove non era mai stata portata.
Almeno non così.
Princy restava lì, in piedi, il corpo gocciolante, le mani sui fianchi e quello strap-on che sembrava un prolungamento del suo rancore. Lorena la fissava dal letto, le braccia ancora legate, il respiro che si era fatto più lento. L’ansia le era passata. Rimaneva solo il pensiero. Il fuoco. E qualcosa di nuovo negli occhi.
— Non pensavo mi odiassi — disse piano, senza alcuna traccia di paura.
Princy strinse appena la mascella.
— Non ti odio, al contrario, io sono tua, ma tu sei mia. Ma tu mi hai usata. Dal primo istante.
Lorena fece un mezzo sorriso, amaro.
— Ti ho forgiata. Non usata.
— No — la interruppe la ragazza. — Tu mi hai piegata a te. Senza chiedere mai se volevo.
Fece un passo avanti, lo sguardo feroce. — Hai goduto di me. Ma non mi hai mai dato una scelta.
Lorena inspirò a fondo.
— Ti ho dato un’identità. Ti ho fatto sentire viva. Mi hai seguita perché volevi essere portata oltre. E io… — si fermò, lo sguardo affilato — …io ti ci ho portata.
Princy si chinò, il membro finto che sfiorava il bordo del letto.
— E ora tocca a me.
— No — rispose Lorena, ferma. — Ora stai solo cercando vendetta. E non è così che si gioca.
Poi sollevò il mento, la voce più bassa, tagliente.
— Prima o poi dovrai slegarmi, Princy. E quel momento arriverà.
Il silenzio che seguì fu violento. Vibrante.
La stanza divenne piccola, calda, insostenibile.
— Lo so — rispose la ragazza.
Ma il sorriso che le fiorì sulle labbra era tutto tranne che spaventato.
— Ma prima ti voglio vedere tremare. Come hai fatto con me. Come fai anche adesso, anche se fingi di essere ancora tu a condurre.
Lorena abbassò lo sguardo per un istante. Poi tornò a fissarla.
— Allora fallo bene. Non farmi pena.
Princy inclinò la testa.
Il respiro le si calmò. Un brivido le attraversò la schiena.
Poi sussurrò:
— Nessuna pietà. Lo prometto.
Princy si inginocchiò, con un gesto lento, preciso, infilando le gambe sotto di lei, le ginocchia piegate a sollevarle il bacino.
Così il corpo di Lorena si sollevò, obbediente, come offerto.
Versò una generosa quantità di lubrificante tra le natiche, poi tra le dita, poi sulla punta scura del fallo. Lo lavorò con calma, come se stesse preparando un rituale antico, inesorabile.
Lorena si irrigidì, un fremito involontario le attraversò il ventre. Non parlava più. Ma gli occhi… quegli occhi non avevano mai tremato così.
Quando Princy appoggiò la punta contro di lei, non spinse subito. Restò ferma. Guardava. Sentiva.
Poi si alzò con tutto il bacino, premendo piano, un centimetro alla volta.
Lorena sussultò.
Un gemito — o forse un grido — le sfuggì dalle labbra.
Si contorse. Ma non per fuggire. Solo per accogliere, per adattarsi, per farsi prendere davvero.
Più si agitava, più il corpo si tendeva, e quella tensione — viva, cruda, bagnata — aiutava Princy a entrare più a fondo.
Ogni scatto, ogni resistenza, apriva un varco in lei.
Fino a quando il fallo fu tutto dentro. Profondo. Reale. Irreversibile.
In quel momento Princy trattenne il respiro. Il laccio dello strap-on le premeva contro la vagina, proprio nel punto più sensibile.
E ogni movimento — ogni spinta dentro Lorena — era anche una carezza che la faceva impazzire.
Cominciò a muoversi.
Lenta.
Poi più decisa.
Il piacere cresceva in entrambe, ma si esprimeva in modo diverso: Lorena gemeva, spalancava gli occhi, si tendeva come un arco pronto a spezzarsi. Princy lo sentiva tutto: il corpo, il potere, la vendetta che diventava godimento.
Il respiro di Lorena si era fatto incostante, spezzato in fiotti che sembravano mescolarsi ai gemiti trattenuti.
La bocca semiaperta, gli occhi sbarrati.
Non riusciva a pensare, a parlare, solo a sentire.
Princy si muoveva con un ritmo crescente, affondando il bacino in lei con colpi lunghi, profondi, decisi. Ogni spinta era un’affermazione, ogni ritorno un avvertimento.
Ma fu quando abbassò la mano e cominciò a carezzarle il clitoride, che Lorena scivolò davvero in un’altra dimensione.
La punta delle dita era umida, precisa, rapidissima.
Non c’era esitazione. Solo desiderio.
Lorena urlò. Un suono che non aveva nulla a che vedere con il dolore. Era sete, sorpresa, resa.
La penetrazione divenne più intensa.
Ogni colpo dentro le faceva vibrare il ventre, mentre fuori, quel tocco sottile, pressante, la portava sull’orlo.
Le gambe legate tremavano.
Le mani contratte cercavano aria.
Le pupille la imploravano e la sfidavano insieme.
— Vieni — sussurrò Princy, senza fermarsi.
Lorena scosse la testa. Ma il corpo… il corpo la stava già tradendo.
— Vieni per me. Adesso. Così. Prigioniera. Mia.
Premette ancora di più con le dita.
Spinse più a fondo con i fianchi.
Il laccio le sfregava il sesso, il piacere montava anche dentro di lei, come se tutto il letto stesse gemendo.
Lorena non resse.
Un’ondata la travolse, calda, scura, assoluta.
Si inarcò.
Urlò davvero.
E in quel momento, mentre il corpo si contraeva e si scioglieva, mentre i muscoli interni stringevano quasi a voler trattenere il fallo in lei per sempre, Lorena venne.
Ma fu proprio quel movimento, quel fremito potente attorno al fallo, a spingere Princy oltre.
Il laccio del cinturone premette sul suo clitoride già gonfio, la frizione si fece più diretta, brutale, viva.
Ogni spinta contro il corpo dell’altra si riverberava dentro di lei come un’onda, non più solo dominio, ma godimento fisico pieno, devastante.
Alzò il bacino una, due, tre volte ancora, premendo forte, cercando lo sfregamento perfetto.
Lorena sotto di lei era molle, esausta, il ventre ancora che pulsava.
Princy si morse il labbro, poi lo lasciò andare.
Un gemito profondo le sfuggì dalla gola.
Fu scossa da un piacere concentrato, liquido, verticale.
Veniva come se fosse lei a essere penetrata.
Come se quella carne legata sotto di lei fosse uno specchio sensibile che restituiva ogni gesto cento volte più forte.
Le mani le tremarono sulle cosce dell’altra.
Poi si afflosciò in avanti, il viso sul collo di Lorena, il respiro acceso, ansimante.
Rimasero così.
Unite.
Sudate.
Sfinite.
Princy si sollevò lentamente, il respiro ancora irregolare.
Restò lì un momento, in silenzio, con le mani che tremavano appena. Poi cominciò a sfilarsi con attenzione.
Il fallo si ritirò con un suono quasi impercettibile, umido, profondo.
Lorena emise un sospiro lungo, indefinito, né piacere né dolore. Solo la fine di qualcosa che aveva richiesto tutto il suo corpo.
Princy le accarezzò la coscia, con un tocco leggero, quasi colpevole. Poi si chinò e iniziò a sciogliere le corde: prima le caviglie, poi i polsi, con movimenti attenti, rispettosi, come se stesse maneggiando porcellana viva.
Lorena non parlava. Si lasciava fare.
La prese tra le braccia, con la forza tenera di chi ha appena fatto tremare il mondo a una persona e ora vuole solo rimetterlo a posto.
La condusse in bagno, piano, passo dopo passo, con il corpo che ancora si piegava per gli sforzi, i muscoli che cedevano.
Aprì l’acqua, la regolò calda, accogliente.
E la lavò tutta, con gesti semplici. Nessun gioco, nessuna provocazione.
Solo dita che seguivano la curva del collo, il ventre, le cosce.
Le rimosse ogni traccia.
Poi l’avvolse in un asciugamano grande, morbido, e la portò di nuovo in camera.
Lorena tremava appena. Gli occhi erano aperti, ma assenti.
Princy la fece sedere sul divanetto, le pettinò con le dita qualche ciocca bagnata dalla fronte, poi si occupò del letto.
Le lenzuola erano inzuppate, rovinate dal piacere, dalla lotta, dai liquidi del corpo e dell’anima.
Le cambiò in silenzio.
Ogni angolo ben tirato. Ogni piega lisciata con precisione.
Quando fu pronto, tornò da lei, le slacciò con delicatezza l’asciugamano, la fece scivolare tra le coperte pulite come una creatura nuova.
Poi si spogliò anche lei, lasciando solo un perizoma addosso, e le si accoccolò dietro, in un abbraccio che non era più dominio, ma bisogno.
Le labbra cominciarono a depositare baci morbidi lungo il collo, come a ricucire ciò che era stato aperto.
Lorena non parlava.
Il corpo rispondeva appena, ma il cuore sembrava più calmo.
Princy avvicinò le labbra all’orecchio, e sussurrò:
— Sai che preferisco che sia tu a farlo a me.
Lorena sorrise appena, stanca, soddisfatta, umana.
— Bene… — mormorò.
Poi aprì gli occhi, quel sorriso affilato che era tornato a brillare.
— …perché il prossimo giro dovrai pagare per tutto questo.
Si strinsero nel silenzio.
Senza fretta.
Con una promessa che non aveva bisogno di tempo.
Solo di corpi. E di notte.
Se avete commenti o suggerimenti potete scrivere a mogliemonella2024@gmail.com
Quando fu completamente libera, non riuscì a reggersi in piedi. Lorena la prese tra le braccia con naturalezza, come fosse la cosa più semplice e necessaria del mondo. Dal buio, nessun suono: il pubblico si era fatto invisibile, e il mondo intero si era ridotto al battito silenzioso dei loro corpi uno contro l’altro.
Uscirono dal locale senza dire nulla, Princy coperta solo da un lungo accappatoio nero che Lorena le aveva fatto scivolare addosso con un gesto delicato ma fermo. La Mini Cooper era parcheggiata come sempre accanto al lampione. La portiera si aprì con un clic e la ragazza fu adagiata con cura sul sedile passeggero, rannicchiata in silenzio, la testa appoggiata al finestrino freddo.
Durante il viaggio, nessuna musica. Solo il rumore sommesso delle gomme sull’asfalto bagnato. Lorena teneva una mano sul volante e l’altra sfiorava ogni tanto la gamba di lei, come per ricordarle che era lì, che tutto andava bene ora.
Quando arrivarono a casa, la guidò dentro tenendola per mano. L’appartamento era caldo, soffuso, il profumo di legno e vaniglia li accolse con discrezione. Lorena la fece entrare in bagno e, senza chiederle nulla, le slacciò l’accappatoio che Princy ancora stringeva al petto. Lo lasciò cadere lentamente a terra.
Accese la doccia, regolando l’acqua fino a farla scorrere tiepida, avvolgente. La fece entrare e le stette accanto, rimanendo vestita. Prese il doccino e iniziò a bagnarla con gesti circolari, lenti, accarezzandole le spalle, le braccia, il ventre. La schiuma del bagnoschiuma neutro colava lentamente sui segni della sera, ma senza più dolore.
Princy non parlava, ma si abbandonava completamente a quelle mani. Ogni tanto chiudeva gli occhi. Quando Lorena le lavò i capelli, le dita si insinuarono tra le ciocche con delicatezza, massaggiandole il cuoio capelluto come fosse un rituale sacro.
Poi l’avvolse in un grande asciugamano caldo, l’accompagnò in camera e la fece sedere sul letto. Prese un flacone di crema bianca e cominciò a spalmarla sulle cosce, con movimenti ampi e morbidi. Salì ai fianchi, sfiorando le costole, poi il ventre. Sui seni fu ancora più attenta, evitando i capezzoli tesi e sensibili. Le mani si muovevano lente, rassicuranti, mentre il profumo della crema riempiva l’aria.
Quando arrivò alla schiena, Princy si girò spontaneamente e si mise a pancia in giù, il corpo completamente affidato. Lorena le massaggiò le natiche segnate, la zona lombare, poi scese sulle gambe, fino alle caviglie
Quando finì di massaggiarle anche l’ultima parte del corpo, Lorena la osservò un istante, poi appoggiò il tubetto di crema sul comodino e si chinò su di lei. Le passò dolcemente una mano sulla guancia, spostando una ciocca ancora umida, e le sussurrò appena:
— Non ti vesto, principessa… la tua pelle ha bisogno di respirare. Non voglio che nulla ti faccia male stanotte.
Princy non rispose, ma annuì piano, ad occhi chiusi. Lorena la fece adagiare tra le lenzuola fresche, lisciandole il cuscino sotto la testa. Le rimboccò il lenzuolo sul petto con una tenerezza che contrastava in modo struggente con la donna che era stata solo poche ore prima. Rimase lì un attimo, in piedi accanto al letto, osservandola. Così vulnerabile, eppure così forte. Così esposta, eppure così serena.
Poi si spogliò lentamente, senza alcun bisogno di fretta. Sfilò il corsetto, i pantaloni lucidi, i guanti, lasciando cadere ogni cosa in silenzio. Non tolse il perizoma nero, un triangolo sottile che accarezzava appena il suo bacino. Si infilò sotto le lenzuola, dietro a lei, e la strinse piano contro il petto, una gamba tra le sue, il mento appoggiato sulla spalla.
Non disse nulla. Il respiro di Princy era già lento, regolare, ogni tanto interrotto da un piccolo sospiro, come un’eco lontana di ciò che era stato. Lorena invece rimase sveglia, con gli occhi aperti nel buio, ascoltando. I pensieri le scivolavano addosso come la pioggia leggera di primavera.
Cosa erano diventate, loro due? Cosa stava nascendo, sotto la pelle e oltre i ruoli? Non era solo possesso, non era solo desiderio. C’era un filo sottile che le univa, fatto di silenzi, di mani che sapevano aspettare, di dolori accolti, di piaceri cercati insieme.
Lorena chiuse gli occhi solo quando sentì che il corpo di Princy si era del tutto rilassato, morbido e fiducioso contro il suo.
Non riusciva a dormire. Il respiro di Princy, calmo e regolare, la cullava senza accorgersene, ma la sua mente era ancora in pieno movimento. Le braccia la stringevano con naturalezza, la gamba appoggiata sopra la sua, il calore della pelle nuda che respirava sotto le lenzuola.
Ripensò al loro primo incontro. Non in un locale, non tra luci e specchi, ma lì, nella villa di lei, quando si era presentata come un fulmine nella sua vita ordinata. Princy l’aveva guardata dalla finestra, vestita di pelle e occhi scuri, e senza dire una parola si era fatta prendere, guidare, esporre. Il desiderio si era rivelato senza veli. Fin dal principio.
Poi erano venute le prove. Il palco, la croce, la gogna. Ogni volta più a fondo, ogni volta più vero. Un percorso senza ritorno, una spirale che non prometteva nulla se non la verità di chi sei, quando sei costretta a cedere tutto.
Eppure… qualcosa dentro di lei cominciava a intuire che non sarebbe finita lì.
Princy era sì sottomessa, ma mai spezzata. Cedeva, sì, ma per scelta. E quella scelta, prima o poi, avrebbe potuto trasformarsi in sfida.
Lorena lo sentiva nel modo in cui si lasciava andare, ma poi stringeva i denti. Nel modo in cui gemeva, ma poi la guardava negli occhi.
Non era la resa di una schiava.
Era il gioco feroce di una lupa travestita da agnello.
E forse un giorno avrebbe provato a rovesciare tutto.
Forse l’avrebbe legata lei. Forse le avrebbe detto “Adesso basta, ora sei tu mia”.
Sorrise nel buio, senza aprire gli occhi.
L’idea non la spaventava.
La eccitava.
Il sonno la prese così, con un brivido caldo che le saliva dalla schiena.
Ancora abbracciata a lei, il corpo rilassato, ma la mente già pronta alla guerra che un giorno forse sarebbe arrivata.
Il sonno era stato profondo, senza sogni. Il corpo di Lorena, svuotato da ogni tensione, affondava nel materasso caldo ancora intriso dell’odore di pelle, di crema, di piacere consumato. Era una quiete totale, la stessa che si prova dopo la tempesta, quando l’aria è sospesa e il mondo pare essersi messo in pausa. E fu in quella calma irreale che avvertì qualcosa. Un tocco appena accennato sulle labbra. Un bacio leggero, delicato, come quello che si lascia a chi si ama. O a chi si ringrazia prima di abbandonarlo.
Lorena si mosse appena, senza ancora aprire gli occhi, con un sorriso pigro sul volto. Cercò di allungare il braccio per attirarla contro di sé, per stringerla e sentire di nuovo il suo calore addosso. Ma il braccio non si mosse. Neanche l’altro. Provò allora con le gambe, e fu lì che il respiro si spezzò.
Il corpo rispose, ma non come avrebbe voluto.
I polsi erano bloccati, le caviglie assicurate alle estremità del letto. Non c’erano nodi ruvidi, non c’era violenza: solo fermezza, precisione. La presa era perfetta. Silenziosa. Implacabile.
Aprì gli occhi di colpo, il cuore accelerato, l’adrenalina che riemergeva dal buio insieme al sangue. Nella penombra della stanza riconobbe subito le linee della figura che sedeva accanto alla finestra. Il profilo in controluce, le gambe raccolte contro il petto, i capelli spettinati e il viso truccato appena, ancora sporco della notte.
Princy.
Era nuda sotto una camicia sbottonata che non le copriva nulla. La stoffa cadeva sui fianchi come una carezza inutile, lasciando visibile ogni centimetro di pelle. Lo sguardo era calmo. Quasi tenero. Ma lucido. Troppo lucido.
Lorena trattenne il fiato per un istante. Non era sorpresa. No, non del tutto. Aveva intuito che qualcosa si stava muovendo sotto la superficie già da prima che il sonno la prendesse. Lo aveva visto in quegli occhi, in quel modo di stringersi a lei, non con paura, ma con determinazione. E ora eccola lì. Non con un frustino in mano, né con una voce urlante. Ma con quel silenzio carico di volontà che non chiede il permesso.
Fece per parlare, ma si fermò. Non c’era bisogno di parole. Princy la stava guardando. Non come la ragazza che si era lasciata portare nel buio. Non come la pupilla che impara. Ma come una donna che ha deciso di cambiare le regole.
Lorena distese le dita, testò i legacci, sentì la forza che li teneva saldi. Sorrise.
Non per debolezza. Ma perché si aspettava la guerra.
Solo non così presto.
E questo, in fondo, la eccitava più di ogni altra cosa.
Lorena si mosse appena. Non era il nodo che la teneva ferma, era la consapevolezza. Non si era mai sentita davvero prigioniera, ma quella sensazione ora aveva un sapore diverso. E non era amaro.
— Lo sai che stai giocando con qualcosa che non conosci ancora — disse, senza rabbia. C’era solo una lieve stanchezza nella voce, quella che arriva dopo una notte vissuta troppo a fondo.
Princy era ferma accanto al letto. La camicia aperta le danzava appena attorno al corpo nudo, accarezzata dall’aria del mattino. Si abbassò, si inginocchiò accanto a lei, e i suoi occhi verdi cercarono quelli di Lorena. Nessuna sfida. Solo presenza.
— Non voglio sostituirti — disse piano. — Non voglio diventare come te. Voglio solo… capire. Sentire cosa provi quando decidi tutto. Quando guidi. Quando guardi l’altra persona tremare e sai che ti sta dando tutto. Voglio sapere cosa c’è dietro i tuoi occhi quando mi ordini di aprirmi. Voglio provarlo. Solo una volta. Solo stanotte.
Lorena la guardò. Quella risposta era disarmante, ma autentica.
Tentò di parlarle ancora, di metterla in guardia.
— Non basta volerlo. Tu non sai che peso ha il potere quando lo tieni davvero in mano. Può consumarti.
— Ma io non lo voglio tenere per sempre — rispose Princy, sfiorandole il polso con le dita. — Tu me l’hai dato, senza saperlo, quella prima volta.
Abbassò lo sguardo, e il sorriso le nacque sulle labbra come un fiore timido, ma irrefrenabile.
— Hai piantato qualcosa in me. Un seme. Non nel corpo, Lorena. Nel cuore.
Sollevò di nuovo gli occhi su di lei, brillanti.
— E adesso… lo stiamo facendo crescere insieme.
Lorena la fissò, colpita più da quella dolcezza che da qualsiasi catena.
Il desiderio che sentiva non era quello di liberarsi, ma di vedere cosa sarebbe accaduto. Dove sarebbero potute arrivare, se avessero smesso per un attimo di stare ognuna solo nel proprio ruolo.
Princy si avvicinò. La sfiorò con la guancia. Un tocco, non un gesto. Poi appoggiò la fronte sulla sua spalla, e per un attimo nessuna delle due parlò.
Quando riaprì gli occhi, Princy non era più accanto al letto. Il lenzuolo sfiorava appena la pelle, i polsi tiravano piano, come per ricordarle dove finiva la libertà. Poi un suono. Quasi impercettibile. Il clic metallico di una lama che scatta fuori. Lorena voltò appena il volto sul cuscino e la vide: in piedi davanti allo specchio, con lo sguardo concentrato e assorto, Princy teneva in mano il rasoio da barbiere. Lo stesso della sera passata. La lama lunga, lucida, sottile come un’idea pericolosa.
Lo osservava come se stesse cercando di ricordare qualcosa. Forse una scena. Forse il gesto di Lorena, quando lo usò su di lei. Poi si voltò. E si avvicinò.
Lorena non parlò. Non si agitò. Seguì ogni passo. Ogni piccolo movimento. Sentiva l’aria diventare più densa. Ogni centimetro di pelle in attesa.
Princy si chinò sul letto e passò la lama aperta tra le dita, quasi accarezzandola, come a saggiare la propria sicurezza. Poi la sollevò e la posò, piatta, sul ventre di Lorena, appena sotto l’ombelico.
Il metallo era freddo. Ma la mano che lo guidava, stranamente ferma.
— Non muoverti — sussurrò.
Lorena trattenne il fiato. Sentì la lama scivolare lenta sul suo addome, non affondava, ma tracciava. Segnava invisibili percorsi sulla pelle. Si fermò all’elastico del perizoma.
— È così che hai fatto con me? — chiese Princy, la voce bassa, quasi un sussurro incuriosito. — Quando me lo hai tagliato… avevi paura?
Lorena sorrise appena.
— No.
— Neanch’io.
Poi abbassò la lama con un gesto preciso.
Un leggero fruscio.
La seta tesa si ruppe all’istante. Prima da un lato, poi dall’altro. Il perizoma nero si aprì come un fiore reciso e scivolò via, lasciando Lorena completamente nuda, stesa, legata, offerta.
Princy lo raccolse con due dita e lo lasciò cadere sul pavimento. Non lo guardò nemmeno.
Ora la sua attenzione era tutta per il corpo che aveva davanti.
La lama tornò sulla pelle, questa volta sul fianco. La fece scorrere lungo la curva morbida dei seni, senza premere. Solo sfiorare. Era il gesto a parlare, non il metallo. Un gesto che diceva: adesso ti sento mia. Anche solo per poco. Anche solo per gioco. La passò tra i seni, poi salì alla clavicola, indugiò sulla linea tesa del collo. Lorena non tremava. Aveva gli occhi socchiusi, il respiro appena più affannato. Era lì. Dentro quel momento.
Princy si abbassò, appoggiando un ginocchio sul letto. Con la lama ancora in mano, fece scorrere le dita libere lungo la coscia di Lorena, poi si chinò a baciarla sul ventre. Non un bacio tenero. Un bacio silenzioso, grave, come un segno di rispetto. Poi sollevò lo sguardo.
— Sei bellissima così. —
La voce era tremante, ma non insicura.
— Non voglio farti male. Ma voglio vederti tremare per me. Come io ho tremato per te.
Trattenne il respiro quando vide Princy sollevare di nuovo il rasoio. La lama, lucida e perfetta, danzava nell’aria come una promessa silenziosa. Non c’era più esitazione nei suoi gesti. Solo precisione, attenzione, desiderio. Non quello che divora. Quello che osserva. Che esplora.
Appoggiò il filo d’acciaio poco sotto la clavicola e lo fece scivolare lentamente verso il seno. Non affondava. Ma premeva. Quanto bastava perché la pelle reagisse, si tendesse, si sollevasse in un fremito. E poi… una sensazione sottile, quasi impercettibile, come un graffio di luce che non sanguina. Un’incisione minima, invisibile, ma presente. Lorena trattenne un gemito, le dita delle mani si chiusero a pugno, i polsi strinsero i legacci.
Non per paura.
Perché il piacere, così vicino al pericolo, aveva il sapore della verità.
Princy si avvicinò ancora, chinandosi sopra di lei. La lama scivolò lungo il fianco, poi oltre l’ombelico, poi tra le cosce. Non tagliava. Ma lasciava una scia.
La mano libera cominciò a muoversi in parallelo.
Accarezzava, tastava, sentiva ogni reazione, ogni contrazione muscolare, ogni trattenuto respiro.
Quando arrivò tra le gambe di Lorena, le dita trovarono la verità prima ancora della bocca.
Si fermò.
Sollevò lo sguardo e la fissò.
Gli occhi si fecero più scuri. La voce uscì bassa, roca, ma nitida.
— Sei una troia.
Lorena sussultò. Lo insulto colpì come uno schiaffo al centro del petto, ma non c’era odio in quella parola.
Solo verità.
E un pizzico di vendetta dolce.
Princy avvicinò le labbra al suo orecchio, e sussurrò lentamente, parola per parola, senza nascondere nulla.
— Sei già bagnata… come se te la fossi fatta addosso.
La lama risalì lentamente, scivolando tra i seni, poi sul petto, fino alla base del collo. Lorena non parlava. Ogni muscolo del suo corpo era teso, ogni fibra in attesa. L’acciaio era freddo, ma la pelle bruciava sotto quel tocco. E quando Princy glielo posò alla gola, proprio lì, dove il battito era più forte, premette appena di più.
Non era una minaccia. Non voleva farle male. Ma voleva che lo sentisse. Che sapesse fino a che punto si era spinta.
La voce le uscì sottile, lenta, quasi senza emozione.
— Potrei ucciderti.
Lorena inspirò.
— E tu… non potresti fare nulla.
Poi la baciò.
Non un bacio tenero. Ma neanche violento. Era una presa, una chiusura, una consacrazione. La bocca si schiuse, si prese tutto, come se il respiro stesso fosse diventato un atto d’amore e di dominio.
Nel frattempo, la lama scivolò via, lasciata cadere sul cuscino.
E la mano di Princy le si infilò tra le cosce, diretta, sicura.
Un dito.
Poi due.
Lorena gemette, il suono caldo, vibrante, impossibile da trattenere. La penetrazione fu lenta, ma decisa. Le dita si muovevano come se conoscessero già quel corpo, come se ci fossero sempre state, come se fossero nate per quel gesto preciso, in quel momento esatto. La sentiva umida, aperta, pulsante.
Era sua.
Lorena aprì la bocca per lasciar uscire un altro gemito.
Ma Princy non glielo permise.
Le chiuse la bocca con un altro bacio, ancora più profondo, ancora più lungo. Le labbra premettero sulle sue come una morsa morbida, mentre le dita la facevano vibrare dentro.
Tutto il corpo di Lorena tremava.
Non c’era più differenza tra paura e piacere.
Tra resa e desiderio.
Princy si alzò senza dire una parola. Le dita, umide del desiderio di Lorena, si asciugarono sulla coscia mentre attraversava la stanza. I suoi passi erano lenti, silenziosi. Ogni gesto sembrava parte di un rituale. Lorena la seguiva con gli occhi, il petto che si sollevava piano, come per non disturbare il momento. Sapeva che qualcosa stava per accadere. Lo sentiva nell’aria. Nell’elettricità che vibrava tra i corpi.
Princy tornò con una candela sottile, color avorio. L’accese senza fretta, accostando il fiammifero alla cera come se stesse risvegliando una creatura dormiente. La fiamma tremolò, si stabilizzò.
Poi si avvicinò al letto.
Lorena la guardava, la bocca appena socchiusa, il seno che si muoveva lento sotto il respiro profondo. Le mani legate, le gambe aperte, la gola ancora calda del rasoio.
Era pronta. O forse no. Ma non avrebbe fermato nulla.
La prima goccia cadde tra i seni.
Un fremito. Nient’altro. Ma bastò a farle chiudere gli occhi.
Poi ne venne un’altra. Poco più in basso, sul ventre, vicina all’ombelico.
Il calore era quasi dolce, un dolore sottile che non respingeva, ma attirava.
Princy avvicinò la candela, inclinò leggermente il polso, lasciò cadere una scia irregolare lungo il ventre di Lorena, fino alla zona pubica, dove il corpo, rasato, vulnerabile, sembrava implorare qualcosa che nemmeno lei sapeva definire.
Lorena gemeva a occhi chiusi, ma non si muoveva. La cera tracciava linee invisibili, si raffreddava in pochi secondi, lasciando piccole macchie opache sulla pelle arrossata.
Era bellissima. Era sua.
Princy si chinò tra le sue gambe. Sfiorò con la lingua il punto dove la cera si era fermata.
Poi si sollevò di nuovo.
E tirò fuori una piccola pinzetta d’acciaio, sottile, lucida.
Lorena la vide e smise di respirare per un istante.
Princy la aprì. Con delicatezza. Come se stesse maneggiando un gioiello prezioso.
E la fece scattare sul clitoride gonfio, teso, bagnato.
Il gemito fu immediato. Profondo. Spaventato. Eccitato.
Lorena si arcuò appena, ma le cinghie non le permisero movimento. Il dolore era acuto, ma pulsava nello stesso ritmo del suo piacere, come se i due battiti fossero diventati uno.
Princy rimase lì a guardarla contorcersi piano, poi prese un filo di seta sottile, lo legò alla pinzetta e lo fece passare tra le dita.
Tirò.
Poco.
Basta per far salire il piacere di un altro mezzo centimetro.
Il filo di seta, teso, legato alla pinzetta che stringeva il clitoride di Lorena, era sottile come un pensiero proibito. Princy lo faceva vibrare tra le dita, tirandolo appena, lasciando che il metallo premuto sulla carne viva trasmettesse picchi sottilissimi di dolore che si confondevano con il piacere. Lorena ansimava, la bocca aperta, il respiro irregolare. Non sapeva più cosa chiedere: che smettesse? Che continuasse? Che la lasciasse venire?
Ma Princy non aveva fretta.
Prese la candela ancora accesa e la sollevò sopra il busto.
Inclinò il polso e lasciò cadere una goccia sul bordo interno del seno sinistro, proprio sotto la curva morbida. Lorena sussultò. Poi ne lasciò cadere un’altra sul capezzolo, colpendolo in pieno. La donna gemette forte, la schiena si sollevò di pochi centimetri, ma le cinghie la riportarono giù, prigioniera del proprio corpo.
Princy allora puntò l’altra mammella, ma non con fretta.
Fece scorrere prima la lama del rasoio — ancora calda della pelle — lungo il contorno, lasciando che Lorena si aspettasse la cera.
E solo quando il capezzolo si irrigidì di paura, la goccia cadde. Precisa. Bruciante.
Le reazioni erano più violente ora. Il piacere cominciava a confondersi con qualcosa che somigliava al panico. Ma non c'era rifiuto. Non c'era mai stato.
La candela si abbassò lentamente, disegnando un tracciato tortuoso lungo l’interno delle cosce, dove la pelle era più sottile, più sensibile. Le gocce cadevano una a una, ognuna come una goccia d'inchiostro bollente in un diario scritto a pelle viva. Lorena stringeva i denti, ma il corpo parlava per lei. Ogni volta che la cera cadeva, il bacino si sollevava. Ogni volta che la pinzetta veniva sfiorata, le cosce si aprivano di più.
Princy si chinò tra le gambe, lasciando la candela accesa sul comodino.
Fece scorrere lentamente la lingua sopra la cera rappresa sul pube, poi lungo la base del filo teso, e infine baciò il metallo che stringeva il centro pulsante di Lorena.
— Così bagnata. E ancora così mia — sussurrò.
Poi si rialzò. Guardò il corpo davanti a sé, segnato, acceso, tremante.
E si accorse che non aveva ancora finito.
Prese la candela un’ultima volta.
Ne abbassò la fiamma nell’incavo dell’ascella, e lì — dove nessuno penserebbe mai di colpire — lasciò scivolare una singola goccia.
Lorena urlò.
Ma non era dolore.
Era un orgasmo trattenuto a forza.
— Ancora no — disse Princy, tirando piano il filo. — Tu vieni quando lo decido io.
E Lorena, nuda, legata, consumata, le credette.
Lorena era un corpo aperto, attraversato da troppe sensazioni per distinguerle una dall’altra. Il calore della cera ancora colava in piccole scie spente, la pelle tirava dove la pinzetta stringeva il clitoride, e la mente era in un punto sospeso, dove non c’era più controllo, solo attesa. Attesa e desiderio. E paura. Quella giusta, quella che accende il ventre.
Princy tornò con la candela tra le dita. Ancora accesa. Il bastoncino avorio era leggermente ricurvo, la base liscia, lucida. La fiamma ondeggiava appena, consumando la cera un centimetro alla volta.
Lorena la guardò. La bocca aperta, il respiro lento.
Princy la guardò, e sorrise.
Non disse nulla. Solo si chinò. E con la fiamma accesa sopra, inclinò la candela e la fece scivolare tra le labbra umide di Lorena, sul sesso gonfio, tra i bordi arrossati del desiderio trattenuto.
La base della candela era calda, ma non bollente. E la sua superficie perfettamente levigata. La premette contro l’ingresso, lentamente. Senza fretta.
Lorena gemette. Un suono rauco, strozzato. Il bacino si mosse, i muscoli si contrassero, ma le cinghie la tennero immobile.
Princy premette ancora. E la candela entrò.
Calda. Densa.
Simbolica.
Lorena lanciò un gemito che si confuse col respiro. Il calore non bruciava, ma invadeva. Si diffondeva dall’interno verso fuori, come un’eco che risaliva la colonna vertebrale.
Princy la spinse fino a metà, poi la ruotò piano tra le dita. La fiamma, viva sopra, ardeva pochi centimetri sopra il pube, e Lorena lo sentiva. Il calore. Il rischio. L’abbandono.
— Potresti venire ora — sussurrò Princy, chinandosi sopra di lei. Le labbra le sfioravano l’orecchio, le dita accarezzavano l’interno coscia, senza fretta. — Ma non voglio.
Tirò leggermente il filo della pinzetta. Il metallo strinse. Lorena sussultò.
— Ci sei vicina, vero? Lo sento.
Infilò lentamente un dito accanto alla candela.
— Il tuo corpo non ne può più.
Ne infilò un secondo. Lì, dentro, mentre la candela restava ferma.
Lorena lanciò un urlo sommesso.
Era troppo. Troppo.
Il calore, la pressione, il metallo sul clitoride, le dita dentro.
E ancora…
Niente.
Princy si fermò.
— No. Non ancora.
Sfilò lentamente le dita.
Lasciò la candela lì, ferma, palpitante.
Poi si chinò tra le sue gambe.
Le labbra a pochi millimetri dalla pinzetta.
La lingua sfiorò.
Lorena tremava. Il respiro le si spezzava nel petto. Gli occhi sbarrati.
Princy risalì. Le tolse il bavaglio immaginario dalla bocca con un bacio. Profondo. Totale.
Poi le guardò negli occhi.
E sussurrò:
— Ora sì.
Tirò il filo, la candela ancora dentro, e affondò le dita con un colpo netto, preciso, deciso.
Lorena venne come se si stesse spezzando.
Un urlo lungo, gutturale, che lacerò il silenzio. Le gambe si irrigidirono, le mani strinsero il vuoto. Il corpo si contrasse tutto insieme, poi si abbandonò, crollò, si sciolse.
Le lacrime le bagnarono le tempie.
E la voce, quella, non le serviva più.
Princy le accarezzò i capelli.
La candela, ancora viva, bruciava piano sopra di loro.
Princy esitò solo un istante. La mano tremava appena, ma il gesto fu deciso: afferrò la base della candela ancora calda, e con lentezza la sfilò dal corpo di Lorena, centimetro dopo centimetro. La cera, sciolta dal calore interno, colava piano lungo le cosce. Il corpo si contrasse, un gemito sfuggì dalle labbra della donna. Ma non era solo piacere.
Era bruciore. Dolore. Vuoto.
Come se la carne si rifiutasse di lasciarla andare.
Poi le dita di Princy raggiunsero la pinzetta. Il metallo era umido, stretto, pulsante. Scattò.
Un istante.
La circolazione tornò di colpo.
Lorena urlò.
Un suono lungo, gutturale, profondo, diviso tra l’agonia e l’estasi.
Le gambe legate si irrigidirono, il bacino si sollevò di pochi centimetri, poi ricadde con un fremito. Il clitoride pulsava come una ferita viva. Era troppo. Era magnifico.
Era troppo magnifico.
Princy rimase lì, a guardarla. Il corpo nudo di Lorena era aperto, arrossato, colante di sudore e cera, segnato da ogni attenzione ricevuta.
Avrebbe dovuto sentirsi padrona. Ma qualcosa le scivolava tra le dita.
Lorena sollevò il capo. I capelli appiccicati alla fronte, il petto che si alzava a scatti. Gli occhi brillavano.
E poi, la risata.
Bassa. Secca.
Beffarda.
— È questo tutto quello che sai fare?
Un silenzio denso riempì la stanza.
— Mi hai fatta tremare, brava.
Un sospiro.
— Ma non basta farmi tremare, bambina. Devi farmi crollare.
Le parole erano pietre.
Lorena piegò appena la testa di lato, il sorriso ora feroce, carnale, consapevole.
— Hai avuto il mio corpo.
Scivolò più in basso con la voce.
— Adesso dimmi, Princy.
Un battito.
— Hai anche il coraggio di prenderti la mia anima?
Le gambe le tremavano ancora. Il clitoride la pulsava come se chiedesse vendetta. Il ventre si contraeva, l’interno ancora caldo, ancora aperto.
Ma Lorena era lì. Viva. Più viva che mai.
— Fammi male davvero, se ci riesci.
Un respiro.
— O scioglimi. E lascia che te lo insegni io, come si va fino in fondo.
Il gioco era finito.
La guerra era cominciata.
Lorena era un corpo ancora vivo di piacere, ma incompleto. Le mani legate, il sesso umido, aperto, segnato, il ventre ancora caldo per la candela e dolente per la pinzetta. Il respiro era affannoso, spezzato, profondo. Ma non bastava.
Qualcosa dentro di lei chiamava oltre.
Princy lo capì senza bisogno di parole. Si chinò tra le sue gambe, prese il lubrificante e ne versò generosamente sul palmo, poi lasciò che colasse tra le dita, scivolando lungo la pelle già tesa, gonfia, viva.
Il primo dito entrò con facilità. Calda, scivolosa. Lorena emise un gemito breve, quasi un sospiro trattenuto.
Il secondo si aggiunse. Il suono divenne più cupo, il respiro più profondo.
I tessuti cominciavano ad aprirsi, ma non senza combattere.
Il terzo entrò con maggiore resistenza. Le pareti vaginali si tendevano, si opponevano, si distendevano un millimetro alla volta.
Lorena gemette più forte. La bocca si aprì, il fiato sfuggì. Le gambe cercarono di chiudersi, ma i legacci le tennero spalancate.
Il piacere si stava trasformando.
In dolore.
E poi di nuovo in piacere.
Princy inspirò.
Aggiunse il quarto.
Le dita si allargarono per fare spazio.
I tessuti tiravano, scivolavano, si contraevano sotto lo sforzo.
Lorena lanciò un gemito lungo, quasi un lamento, il corpo sussultava.
— Aaahhh...
La voce vibrava nella stanza come un canto animalesco.
Il ventre si gonfiava, cercava di espellere, ma accoglieva.
Poi, Princy fermò il polso.
Lo piegò appena.
Il quinto dito era lì.
L’ingresso stretto, teso come una fessura viva, pulsava come per difendersi.
Lorena spalancò gli occhi. Non parlò. Ma gemette più forte, più gutturale, più grezzo.
— Nghhh… ahhh… ah…
Princy spinse. Poco. Poi ancora. La vagina cedette e la lasciò entrare di colpo.
Lorena si tese in un arco perfetto, il fiato le si strappò dal petto come se qualcosa l’avesse colpita al cuore. La carne la accoglieva a fatica, scivolosa e stretta, viva, tesa fino al limite. Era troppo, ma non abbastanza. Princy la sentì stringersi attorno alla pelle del polso, pulsare come se volesse ingoiarla, tenerla prigioniera, e allora serrò le dita, chiuse la mano nel suo corpo caldo, vivo, devastato, e la trasformò in un’arma. In un sesso che non esisteva. In un gesto che diceva: adesso sei mia.
Cominciò a muoversi. Con lentezza all’inizio, scivolando dentro e fuori con un attrito denso, carnale, come se la sua mano venisse risucchiata e respinta a ogni passaggio. La carne si richiudeva su di lei, bagnata, lubrificata, ma in costante resistenza. Lorena gemeva senza controllo, le urla erano spezzate, animalesche, interrotte da singhiozzi che venivano dalle viscere. Il bacino si muoveva, a scatti, in avanti e poi indietro, e ogni volta il pugno affondava più deciso, più profondo, più vero. Le cosce le tremavano, i legacci vibravano sotto lo sforzo del corpo che cercava di reagire, ma era troppo tardi. Princy la stava possedendo dall’interno.
Mise l’altra mano sul ventre della donna, la schiacciò con forza, e sentì il movimento della sua mano sotto pelle, dentro di lei, come un’onda viva che la percorreva dal pube fino all’addome. Ogni colpo era pieno, pesante, deciso. Non c’era più gentilezza. Solo volontà. Solo dominio. Il corpo di Lorena sobbalzava sul letto come se ogni spinta le strappasse qualcosa, come se con ogni movimento le venisse strappata via una parte di sé — ma non cercava di fermarla. La voleva. La voleva tutta. E la voce lo diceva, anche quando non parlava: gemiti strozzati, rantoli profondi, un respiro che si faceva preghiera.
Il letto cominciò a bagnarsi sotto di loro. All’inizio una sensazione tiepida, quasi impercettibile. Poi divenne chiaro: il liquido usciva da lei a fiotti, a colpi, ogni volta che il pugno la penetrava più a fondo. Non si tratteneva più. Non poteva. Il suo piacere era esploso, liquido e violento, e si riversava ovunque, impregnando tutto, come se il corpo non fosse più in grado di contenerlo. Princy continuò a muoversi, sempre più forte, sempre più affondata in lei, mentre Lorena gemeva come se non ci fosse più nulla da salvare.
Era un corpo che crollava. Un piacere che non chiedeva permesso.
E Princy, immersa fino all’avambraccio, non aveva mai amato tanto quel silenzio distrutto che veniva da Lorena.
Il respiro cominciava a regolarizzarsi, ma le mani erano ancora legate e la carne ancora percorsa da brividi involontari. Lorena sollevò appena il mento, con la testa ancora affondata nel cuscino. Aveva gli occhi lucidi, il corpo disfatto, la gola arsa, ma qualcosa dentro di lei, qualcosa che non cedeva mai davvero, riemerse. Il sorriso le tornò sulle labbra, sporco e bellissimo. La voce era roca, graffiata, ma netta.
— Ti senti grande adesso, eh?
Il tono era sottile come una lama. Non era rabbia, non era sfida. Era quel veleno dolce che solo lei sapeva usare quando voleva stringere qualcuno più forte, anche da sotto. Come se volesse provocare un’altra spinta, un altro colpo, come se volesse dirle: non basta, fammi ancora.
Princy non rispose. La guardava, ma non da fuori. La guardava da dentro. E lì, dove stava ancora annidata con il pugno chiuso e vivo, rispose nel modo più semplice. Si mosse.
Lorena si bloccò. Il fiato si spezzò nel petto con un colpo sordo. La carne reagì prima della mente, si strinse attorno a quella presenza, il ventre si irrigidì di colpo, il bacino si sollevò appena, ma una mano si posò sopra e lo tenne fermo. Il sorriso si spense sulle labbra, tremolò, si spaccò in un gemito più grande di lei.
— Nnnh… no… ah…
La voce provò a tornare, ma fu sostituita dal suono più primitivo, quello che non si può fingere. Ogni movimento dentro di lei la faceva crollare un po’ di più, ogni spinta era un silenzio imposto. Princy la stava zittendo con il corpo, con dolcezza, con assoluta perversione.
Lorena cercò ancora le parole, ma non c’erano più. Solo il calore liquido che scendeva tra le cosce, solo il pugno che si muoveva dentro di lei con la precisione di un gesto eterno. Le mani strette contro il letto, la schiena che si inarcava a scatti, e quella voce, la sua, che ormai non diceva più nulla. Solo ansimi, gemiti, richiami spezzati che chiedevano, senza chiedere.
Il corpo di Lorena era immobile, ogni fibra ancora attraversata da un’eco profonda, come se ogni parte di lei stesse ancora ascoltando la presenza che la abitava. Il respiro era lento, denso, ogni battito un’onda che sfiorava il limite del dolore e lo trasformava in qualcosa di più alto. Ma Princy sentì che era il momento.
Con infinita lentezza, cominciò a ritirare la mano. La sentì scivolare via millimetro dopo millimetro, accolta e trattenuta da una carne calda, viva, contratta. Lorena gemette piano, come se quella separazione fosse peggio di una spinta. Il pugno si aprì solo all’ultimo istante, prima di lasciare il corpo che lo aveva accolto con così tanta violenza e gratitudine. Quando la mano fu fuori, umida, lucida, tremante, un piccolo fiotto la seguì, caldo, liquido, silenzioso. Come se Lorena stesse ancora venendo, ancora dicendo sì con il corpo, anche senza più voce.
Princy si alzò. Non la toccò più. Non la baciò. Non la guardò. Raccolse con calma il lubrificante, chiuse il flacone, si passò una mano tra i capelli per scostare il sudore dalla fronte. Poi si avviò verso il bagno, nuda, le cosce ancora bagnate, l’avambraccio segnato del piacere di un’altra donna.
Arrivata sulla soglia, sollevò appena il mento. Non si voltò.
— Non abbiamo ancora finito.
La porta del bagno si aprì con un fruscio di vapore, e per un attimo Lorena non vide nulla. Solo il suono dei passi nudi sul parquet, il battito ancora irregolare del proprio respiro, il vuoto caldo che sentiva tra le gambe, sotto la pelle, dentro il ventre. Poi la vide.
Princy rientrò nella stanza completamente nuda, la pelle ancora umida, i capelli scuri lucidi e sciolti sulla schiena. Camminava con calma, come se niente fosse. Ma il dettaglio che catturava tutto era quello che portava addosso. Lo strap-on. Scuro, lucido, lungo, spesso. Di dimensioni esagerate, sproporzionato, volutamente crudele. Osceno.
Lorena deglutì a vuoto. Non per paura. Ma perché il corpo le rispondeva prima ancora che la mente fosse pronta. Il sesso si contrasse. I glutei si irrigidirono appena, come a ricordarle che lì, proprio lì, non era ancora stata presa.
Princy si fermò ai piedi del letto. Le mani sui fianchi. Il membro finto teso, imponente, puntato verso di lei come una lama viva. E quando parlò, la voce era più ferma che mai.
— Ti sei fatta fare il culo da Thomas.
Lorena aprì la bocca, forse per negare, forse per sorridere, ma non ne ebbe il tempo.
— Prima con dolcezza. Poi con impeto. Ricordo ogni parola che hai detto.
Si avvicinò di un passo. Il membro sfiorava la pelle del ginocchio. Il respiro caldo.
— Io non sarò gentile.
Abbassò lo sguardo sul corpo legato, sulle natiche morbide, esposte, lucide di piacere e sudore.
— Ti aprirò in due anche lì.
Poi sorrise. Un sorriso lento, perverso, che brillava negli occhi.
— Anche se… a dirla tutta…
Si chinò un poco, il busto in avanti, la voce appena più bassa.
— …stavo pensando di metterci tutta la mano.
Un silenzio sospeso. Il fiato di Lorena si fece più profondo.
— Tu cosa ne pensi?
E non aspettava una risposta.
Non davvero.
Solo una resa. O una sfida.
E Lorena… sapeva che stava per essere presa dove non era mai stata portata.
Almeno non così.
Princy restava lì, in piedi, il corpo gocciolante, le mani sui fianchi e quello strap-on che sembrava un prolungamento del suo rancore. Lorena la fissava dal letto, le braccia ancora legate, il respiro che si era fatto più lento. L’ansia le era passata. Rimaneva solo il pensiero. Il fuoco. E qualcosa di nuovo negli occhi.
— Non pensavo mi odiassi — disse piano, senza alcuna traccia di paura.
Princy strinse appena la mascella.
— Non ti odio, al contrario, io sono tua, ma tu sei mia. Ma tu mi hai usata. Dal primo istante.
Lorena fece un mezzo sorriso, amaro.
— Ti ho forgiata. Non usata.
— No — la interruppe la ragazza. — Tu mi hai piegata a te. Senza chiedere mai se volevo.
Fece un passo avanti, lo sguardo feroce. — Hai goduto di me. Ma non mi hai mai dato una scelta.
Lorena inspirò a fondo.
— Ti ho dato un’identità. Ti ho fatto sentire viva. Mi hai seguita perché volevi essere portata oltre. E io… — si fermò, lo sguardo affilato — …io ti ci ho portata.
Princy si chinò, il membro finto che sfiorava il bordo del letto.
— E ora tocca a me.
— No — rispose Lorena, ferma. — Ora stai solo cercando vendetta. E non è così che si gioca.
Poi sollevò il mento, la voce più bassa, tagliente.
— Prima o poi dovrai slegarmi, Princy. E quel momento arriverà.
Il silenzio che seguì fu violento. Vibrante.
La stanza divenne piccola, calda, insostenibile.
— Lo so — rispose la ragazza.
Ma il sorriso che le fiorì sulle labbra era tutto tranne che spaventato.
— Ma prima ti voglio vedere tremare. Come hai fatto con me. Come fai anche adesso, anche se fingi di essere ancora tu a condurre.
Lorena abbassò lo sguardo per un istante. Poi tornò a fissarla.
— Allora fallo bene. Non farmi pena.
Princy inclinò la testa.
Il respiro le si calmò. Un brivido le attraversò la schiena.
Poi sussurrò:
— Nessuna pietà. Lo prometto.
Princy si inginocchiò, con un gesto lento, preciso, infilando le gambe sotto di lei, le ginocchia piegate a sollevarle il bacino.
Così il corpo di Lorena si sollevò, obbediente, come offerto.
Versò una generosa quantità di lubrificante tra le natiche, poi tra le dita, poi sulla punta scura del fallo. Lo lavorò con calma, come se stesse preparando un rituale antico, inesorabile.
Lorena si irrigidì, un fremito involontario le attraversò il ventre. Non parlava più. Ma gli occhi… quegli occhi non avevano mai tremato così.
Quando Princy appoggiò la punta contro di lei, non spinse subito. Restò ferma. Guardava. Sentiva.
Poi si alzò con tutto il bacino, premendo piano, un centimetro alla volta.
Lorena sussultò.
Un gemito — o forse un grido — le sfuggì dalle labbra.
Si contorse. Ma non per fuggire. Solo per accogliere, per adattarsi, per farsi prendere davvero.
Più si agitava, più il corpo si tendeva, e quella tensione — viva, cruda, bagnata — aiutava Princy a entrare più a fondo.
Ogni scatto, ogni resistenza, apriva un varco in lei.
Fino a quando il fallo fu tutto dentro. Profondo. Reale. Irreversibile.
In quel momento Princy trattenne il respiro. Il laccio dello strap-on le premeva contro la vagina, proprio nel punto più sensibile.
E ogni movimento — ogni spinta dentro Lorena — era anche una carezza che la faceva impazzire.
Cominciò a muoversi.
Lenta.
Poi più decisa.
Il piacere cresceva in entrambe, ma si esprimeva in modo diverso: Lorena gemeva, spalancava gli occhi, si tendeva come un arco pronto a spezzarsi. Princy lo sentiva tutto: il corpo, il potere, la vendetta che diventava godimento.
Il respiro di Lorena si era fatto incostante, spezzato in fiotti che sembravano mescolarsi ai gemiti trattenuti.
La bocca semiaperta, gli occhi sbarrati.
Non riusciva a pensare, a parlare, solo a sentire.
Princy si muoveva con un ritmo crescente, affondando il bacino in lei con colpi lunghi, profondi, decisi. Ogni spinta era un’affermazione, ogni ritorno un avvertimento.
Ma fu quando abbassò la mano e cominciò a carezzarle il clitoride, che Lorena scivolò davvero in un’altra dimensione.
La punta delle dita era umida, precisa, rapidissima.
Non c’era esitazione. Solo desiderio.
Lorena urlò. Un suono che non aveva nulla a che vedere con il dolore. Era sete, sorpresa, resa.
La penetrazione divenne più intensa.
Ogni colpo dentro le faceva vibrare il ventre, mentre fuori, quel tocco sottile, pressante, la portava sull’orlo.
Le gambe legate tremavano.
Le mani contratte cercavano aria.
Le pupille la imploravano e la sfidavano insieme.
— Vieni — sussurrò Princy, senza fermarsi.
Lorena scosse la testa. Ma il corpo… il corpo la stava già tradendo.
— Vieni per me. Adesso. Così. Prigioniera. Mia.
Premette ancora di più con le dita.
Spinse più a fondo con i fianchi.
Il laccio le sfregava il sesso, il piacere montava anche dentro di lei, come se tutto il letto stesse gemendo.
Lorena non resse.
Un’ondata la travolse, calda, scura, assoluta.
Si inarcò.
Urlò davvero.
E in quel momento, mentre il corpo si contraeva e si scioglieva, mentre i muscoli interni stringevano quasi a voler trattenere il fallo in lei per sempre, Lorena venne.
Ma fu proprio quel movimento, quel fremito potente attorno al fallo, a spingere Princy oltre.
Il laccio del cinturone premette sul suo clitoride già gonfio, la frizione si fece più diretta, brutale, viva.
Ogni spinta contro il corpo dell’altra si riverberava dentro di lei come un’onda, non più solo dominio, ma godimento fisico pieno, devastante.
Alzò il bacino una, due, tre volte ancora, premendo forte, cercando lo sfregamento perfetto.
Lorena sotto di lei era molle, esausta, il ventre ancora che pulsava.
Princy si morse il labbro, poi lo lasciò andare.
Un gemito profondo le sfuggì dalla gola.
Fu scossa da un piacere concentrato, liquido, verticale.
Veniva come se fosse lei a essere penetrata.
Come se quella carne legata sotto di lei fosse uno specchio sensibile che restituiva ogni gesto cento volte più forte.
Le mani le tremarono sulle cosce dell’altra.
Poi si afflosciò in avanti, il viso sul collo di Lorena, il respiro acceso, ansimante.
Rimasero così.
Unite.
Sudate.
Sfinite.
Princy si sollevò lentamente, il respiro ancora irregolare.
Restò lì un momento, in silenzio, con le mani che tremavano appena. Poi cominciò a sfilarsi con attenzione.
Il fallo si ritirò con un suono quasi impercettibile, umido, profondo.
Lorena emise un sospiro lungo, indefinito, né piacere né dolore. Solo la fine di qualcosa che aveva richiesto tutto il suo corpo.
Princy le accarezzò la coscia, con un tocco leggero, quasi colpevole. Poi si chinò e iniziò a sciogliere le corde: prima le caviglie, poi i polsi, con movimenti attenti, rispettosi, come se stesse maneggiando porcellana viva.
Lorena non parlava. Si lasciava fare.
La prese tra le braccia, con la forza tenera di chi ha appena fatto tremare il mondo a una persona e ora vuole solo rimetterlo a posto.
La condusse in bagno, piano, passo dopo passo, con il corpo che ancora si piegava per gli sforzi, i muscoli che cedevano.
Aprì l’acqua, la regolò calda, accogliente.
E la lavò tutta, con gesti semplici. Nessun gioco, nessuna provocazione.
Solo dita che seguivano la curva del collo, il ventre, le cosce.
Le rimosse ogni traccia.
Poi l’avvolse in un asciugamano grande, morbido, e la portò di nuovo in camera.
Lorena tremava appena. Gli occhi erano aperti, ma assenti.
Princy la fece sedere sul divanetto, le pettinò con le dita qualche ciocca bagnata dalla fronte, poi si occupò del letto.
Le lenzuola erano inzuppate, rovinate dal piacere, dalla lotta, dai liquidi del corpo e dell’anima.
Le cambiò in silenzio.
Ogni angolo ben tirato. Ogni piega lisciata con precisione.
Quando fu pronto, tornò da lei, le slacciò con delicatezza l’asciugamano, la fece scivolare tra le coperte pulite come una creatura nuova.
Poi si spogliò anche lei, lasciando solo un perizoma addosso, e le si accoccolò dietro, in un abbraccio che non era più dominio, ma bisogno.
Le labbra cominciarono a depositare baci morbidi lungo il collo, come a ricucire ciò che era stato aperto.
Lorena non parlava.
Il corpo rispondeva appena, ma il cuore sembrava più calmo.
Princy avvicinò le labbra all’orecchio, e sussurrò:
— Sai che preferisco che sia tu a farlo a me.
Lorena sorrise appena, stanca, soddisfatta, umana.
— Bene… — mormorò.
Poi aprì gli occhi, quel sorriso affilato che era tornato a brillare.
— …perché il prossimo giro dovrai pagare per tutto questo.
Si strinsero nel silenzio.
Senza fretta.
Con una promessa che non aveva bisogno di tempo.
Solo di corpi. E di notte.
Se avete commenti o suggerimenti potete scrivere a mogliemonella2024@gmail.com
2
voti
voti
valutazione
8
8
Continua a leggere racconti dello stesso autore
racconto precedente
Princy e Lorena 3^ Parte
Commenti dei lettori al racconto erotico