Princy e Lorena 2^ Parte

di
genere
dominazione

Il sole scivolava lento sulle colline, disegnando riflessi dorati sul bordo della piscina. Princy era sdraiata su un lettino in legno, il corpo steso, rilassato, coperto solo da un sottile pareo bianco annodato sul ventre. Il seno nudo, lucido di olio, si sollevava appena a ogni respiro. Gli occhi chiusi, il viso rivolto al sole, sembrava essersi sciolta in quella pace estiva che conosceva da bambina.
Quel silenzio interrotto solo dal frinire delle cicale fu spezzato da un suono breve, netto.
Un clacson. Una sola volta.
Gli occhi si aprirono immediatamente. Il cuore fece un balzo. Nessun dubbio, nessun bisogno di verificare.
Si alzò lentamente, lasciando il pareo scivolare giù senza badarci. I piedi scalzi calpestavano l’erba rasata del giardino mentre si avvicinava al cancello. Non c’erano auto attese, non amici, non visite. Eppure quella Mini Cooper rossa col tettuccio bianco era lì, ferma come un punto fermo in una frase che sapeva già leggere.
Al volante, Lorena non accennava a muoversi. Semplicemente aspettava. Occhiali da sole, gomito fuori dal finestrino, la coda alta che lasciava il collo scoperto.
Solo la presenza. Solo quel gesto secco che diceva: aprimi.
Princy restò ferma un istante. Le mani leggere sui fianchi, il seno ancora teso dal sole, il respiro un po’ più corto. Poi tornò sui suoi passi, rientrò in casa e premette il pulsante del cancello.
Il rumore secco del cancello che si apre spezzò definitivamente l’equilibrio silenzioso del pomeriggio. La ghiaia del vialetto scricchiolò sotto le gomme larghe della Mini mentre avanzava lentamente, come un animale abituato alla caccia. Si fermò con precisione chirurgica davanti alla scala in pietra che saliva al portico della villa. Il motore si spense. Poi silenzio.
Princy era rimasta lì, accanto alla piscina. Non si era rivestita. Le braccia strette attorno al busto, come a proteggersi, anche se sapeva bene che da quel momento non avrebbe potuto più schermarsi da nulla.
Vide la portiera aprirsi. E fu come se il tempo rallentasse.
Scese.
Un piede prima dell’altro, affondando con grazia nei tacchi a stiletto da dodici centimetri, neri e lucidi, avvolti da cinturini che abbracciavano le caviglie. Le gambe lunghe, scolpite, affioravano da uno spacco vertiginoso che si apriva sul lato di un abito tubino nero lucido, aderente come una seconda pelle, perfetto nel seguire ogni curva. La scollatura a cuore lasciava in mostra il seno alto e compatto, sostenuto ma libero, vibrante a ogni passo.
Sopra, una giacca in pelle nera, corta, aperta, che non nascondeva nulla.
Sulle labbra, un rosso fuoco lucido che sembrava ancora più vivido nel sole obliquo del tardo pomeriggio. Occhi marcati, allungati da un eyeliner deciso, con ombretto oro brunito fino all’arco sopraccigliare.
I capelli raccolti in una coda altissima, tesa, che lasciava il viso perfettamente esposto: una visione di controllo e potere.
Tra le dita sottili, una sigaretta elettronica nera, che portò lentamente alla bocca. Tirò una boccata lunga, poi lasciò uscire il vapore in un soffio che le sollevò il mento e la mise in piena luce.
Tutto in lei urlava “sto per portarti fuori”. Ma non come si porta un’amica.
Come si conduce un animale da palcoscenico, vestito per essere visto, giudicato, desiderato, senza potersi difendere.
Solo allora sollevò lo sguardo su Princy.
La guardò da capo a piedi. Non disse nulla.
Poi, con voce bassa e ferma, lasciò cadere la prima frase.
Solo allora Lorena sollevò lo sguardo su Princy.
La guardò da capo a piedi, senza dire nulla per qualche secondo, come se stesse valutando ogni centimetro di pelle esposta. Poi, con una calma quasi sorprendente, parlò.
«Fai una doccia, tesoro.»
La voce era morbida, ma conteneva un comando assoluto.
«Questa sera usciamo, e voglio che tu sia… perfetta.» Un lieve sorriso si disegnò sulle labbra rosso fuoco. «Controlla che la depilazione sia impeccabile. Io deciderò cosa indosserai e ti truccherò io stessa.»
Fece un passo avanti, avvicinando il volto al suo. «Quando sei pronta, chiamami. Voglio vederti, pelle pulita, senza niente addosso. Solo così saprò da dove cominciare.»
Princy non disse nulla. Si voltò, un brivido lungo la schiena. Sapeva che quel “uscire” non avrebbe avuto nulla di normale.
Princy salì le scale senza voltarsi. Sentiva ancora gli occhi di Lorena scivolarle addosso, anche se ormai era al riparo, oltre la porta. Il cuore le batteva troppo in fretta, le mani fredde e sudate allo stesso tempo.
“Fai una doccia, tesoro.”
Le parole di Lorena risuonavano dentro di lei come una carezza obbligata, come un comando mascherato da invito.
Entrò in bagno e chiuse la porta alle sue spalle. Fece scorrere l’acqua e cominciò a spogliarsi. Prima il pareo, ormai umido di sudore e di sole, poi i pantaloncini da piscina, e infine lo slip bianco, ancora umido. Il contatto con l’aria le fece rabbrividire. Non era freddo: era anticipazione.
Salì nella doccia in muratura, piastrellata di bianco lucido. L’acqua, calda e abbondante, le scivolò addosso con uno scroscio avvolgente. Inclinò la testa all’indietro e chiuse gli occhi. Si insaponò lentamente, con un gesto attento e preciso, come se ogni passaggio fosse importante.
Passò più volte sul collo, sulle spalle, sotto le ascelle. Poi scese al petto, massaggiando i seni con cura, stringendoli tra le mani come a verificare che fossero ancora parte di sé. I capezzoli erano duri, troppo sensibili. Si sforzò di ignorarli. Ma era inutile.
Insaponò il ventre, i fianchi, le cosce. Poi si sedette sul bordo interno in marmo liscio e alzò una gamba alla volta, passandosi la lama del rasoio con mani ferme ma il fiato corto. Le caviglie, le ginocchia, l’interno coscia. Ogni centimetro. Ogni pelo doveva sparire.
Quando fu il momento di passare tra le gambe, tremò. Lo fece lentamente, con precisione. Controllò due volte. Tre. Poi rise piano, senza gioia: stava obbedendo a una donna che era venuta a prenderla senza invito, che avrebbe scelto come vestirla, che l’avrebbe portata nel mondo a testa alta... come una troietta addestrata.
E lei non voleva opporsi.
Si risciacquò, poi rimase lì, in piedi, sotto l’acqua, con gli occhi chiusi e le cosce strette. Il pensiero di Lorena sotto il portico, in attesa, silenziosa, seduta con le gambe accavallate e una sigaretta tra le dita, la eccitava in modo feroce.
Ogni gesto, ogni carezza d’acqua sul corpo sembrava un’anticipazione del piacere e dell’umiliazione che sarebbe venuta.
Quando si spense l’acqua, era rossa in viso, con la pelle lucida di calore e il cuore in gola.
Si avvolse in un asciugamano, si guardò un’ultima volta allo specchio. Le guance erano accese, le labbra gonfie, i capezzoli duri. Il pube completamente glabro.
Era pronta.
Uscì in silenzio, scese lentamente e si affacciò alla porta finestra che dava sul portico.
Lorena era lì.
Seduta, una gamba elegantemente accavallata sull’altra, il busto eretto, lo sguardo rivolto verso il giardino come se nulla la riguardasse. Ma quando sentì la porta aprirsi, girò appena il viso, senza dire una parola.
Princy si fermò. Non parlò.
Poi, con voce appena percettibile, sussurrò:
«Sono pronta.»
Lorena si alzò con la calma di chi sa di avere tutto sotto controllo. Spense lentamente la sigaretta elettronica, raccolse la trousse dei trucchi e si avvicinò alla porta finestra.
Il legno scivolò contro il binario con un sussurro. Entrò.
Princy era lì, in piedi nel mezzo del salotto, completamente nuda, con l’asciugamano lasciato volutamente sul divano. La luce calda della sera, che entrava morbida dalle vetrate, la illuminava senza pietà.
La pelle ancora leggermente umida. Il ventre teso. Le gambe unite. Gli occhi bassi.
Lorena non parlò. Si fermò davanti a lei. La guardò in silenzio.
Cominciò a girarle intorno lentamente.
Un passo alla volta. Le scarpe a tacco alto suonavano come un metronomo sul pavimento lucido. Un’esaminatrice in pieno diritto. Un’artista che contempla la sua creta.
Non la sfiorò subito. Prima solo gli occhi: la nuca scoperta, le scapole delicate, il punto esatto in cui il fondoschiena cominciava a curvarsi. Le gambe toniche. Il pube liscio e lucente.
Poi, con due dita, le accarezzò il fianco. Un gesto lento, quasi distratto, che scivolò sul ventre, poi verso il basso, fermandosi a un soffio dall’intimità.
Si fermò dietro di lei.
Le mani guantate le si posarono sulle spalle nude. Poi scesero, lentamente, lungo le braccia.
Con una delicatezza innaturale, le sfiorò i seni, trattenendosi solo un secondo in più sui capezzoli già rigidi.
«Molto meglio di quanto mi aspettassi» sussurrò, piegandosi a sfiorarle il collo con le labbra, senza baciarla. «Pulita, docile, lucente. Adesso sei mia.»
La fece girare su sé stessa, con una leggera pressione su un fianco. Le osservò il ventre piatto, il solco tra le gambe, la curva dei glutei. Le passò dietro di nuovo, e con una carezza aperta, le accarezzò entrambi i fianchi e si fermò proprio lì: con le mani a incorniciare il sedere.
«Qui metteremo qualcosa di davvero scandaloso» disse Lorena, le mani ancora posate come cornici sul suo sedere. Poi, con un soffio caldo all’orecchio, aggiunse:
«Ma non qui.»
Fece un passo indietro, raccolse la trousse e si voltò verso la scala.
«Andiamo su. In camera tua. Voglio vederti sotto la luce giusta.»
Princy obbedì in silenzio. La precedette lungo la scala, nuda, con la pelle ancora umida che rifletteva la luce calda del tardo pomeriggio. Sentiva il peso dello sguardo di Lorena sulla schiena, come un filo teso che la attraversava.
Entrarono nella stanza.
Luminosa, ordinata, con un letto in ferro battuto e grandi specchi laterali.
Lorena posò la trousse sulla toilette, aprì le imposte senza dire nulla e lasciò che la luce dorata entrasse prepotente. Poi si girò.
Princy era in piedi, esposta al centro della stanza. La luce del tramonto ne disegnava ogni curva.
Lorena si avvicinò di nuovo. Le sistemò una ciocca umida dietro l’orecchio, poi con due dita le sfiorò la mascella.
«Hai una base perfetta. Non serve cancellarti. Serve solo… accentuarti.»
Fece un gesto verso la sedia davanti allo specchio.
«Siediti.»
Princy obbedì. Le gambe strette, le mani sulle cosce, nuda davanti allo specchio.
Lorena aprì la trousse. Tirò fuori rossetti, ombretti, eyeliner, fondotinta liquido, ciprie, fard. Nessuna esitazione nei gesti.
Cominciò dal fondo: pennello leggero, preciso, che uniformava senza nascondere. Poi passò agli occhi.
Un ombretto nero opaco nella piega dell’occhio, sfumato verso l’alto.
Un tocco di oro lucido al centro della palpebra. Eyeliner grafico, tagliente, tirato verso le tempie.
Mascara in abbondanza, ciglia pettinate e definite.
Sopracciglia riempite, arcuate con decisione.
«Guarda dritto» ordinò.
Poi arrivò il rossetto.
Scelse un colore scuro, nero liquido, lucido, che applicò con precisione chirurgica.
Infine, un tocco di cipria sulle guance, un contour leggero e sapiente.
Lorena fece un passo indietro, incrociò le braccia e la osservò.
Cominciò dal fondo: pennello leggero, preciso, che uniformava senza nascondere. Poi passò agli occhi.
Un ombretto nero opaco nella piega dell’occhio, sfumato verso l’alto.
Un tocco di oro lucido al centro della palpebra. Eyeliner grafico, tagliente, tirato verso le tempie.
Mascara in abbondanza, ciglia pettinate e definite.
Sopracciglia riempite, arcuate con decisione.
«Guarda dritto» ordinò.
Poi Lorena prese il rossetto.
Un tubetto sottile, scuro, che aprì con lentezza.
Applicò un bordeaux lucido profondo, stendendolo con movimenti calmi e precisi.
Ma non bastava.
Intinse un pennellino più fine in un pigmento nero opaco, e sfumò il contorno delle labbra verso l’esterno, ampliandole appena, dando spessore, sensualità, e un accenno di eccesso.
Si allontanò di un passo.
Il viso ora sembrava appartenere a un’altra.
«Sei perfetta. Ma sembri ancora una ragazza. Ora… vestiamoti da ciò che sei davvero.»
Lorena si avvicinò alla poltroncina accanto al letto. Vi aveva posato la sua piccola borsa rigida, nera, con dettagli cromati. La aprì senza fretta, come se contenesse strumenti chirurgici, non vestiti.
Estrasse il primo capo e lo posò con cura sul letto, poi il secondo, il terzo.
Princy, ancora seduta davanti allo specchio, guardava in silenzio, ma dentro di sé sentiva una scossa elettrica montare sempre più.
Lorena si voltò.
«Alzati.»
La ragazza obbedì, rimanendo immobile, nuda, con le labbra ancora lucide di bordeaux e gli occhi truccati come una bambola lussuriosa.
Lorena prese i collant lucidi color carne, li srotolò lentamente, facendoli frusciare tra le dita. Sembravano vernice liquida.
«Piedi» disse semplicemente.
Si inginocchiò davanti a lei.
Le infilò i collant con precisione, guidando le dita uno per uno, poi salendo lentamente lungo le caviglie, i polpacci, le ginocchia. Ogni centimetro faceva brillare la pelle come vetro.
Quando arrivò alle cosce, li tirò su con un gesto secco, deciso, facendo aderire perfettamente il tessuto al pube depilato.
Princy tremò appena.
Lorena si rialzò, e questa volta prese gli shorts in vinile rosso. Minuscoli, lucidi, elasticizzati. Le passò dietro, le posò una mano sulla schiena, e con l’altra glieli fece infilare.
Quando li tirò su, dovette sistemarli con le dita tra i glutei, spalmandoli letteralmente addosso.
Il vinile scattò a posto con un suono secco.
Poi toccò al top a rete nera, largo quanto bastava per non coprire nulla.
Glielo passò sopra la testa, lo fece scendere, aggiustò i bordi. I capezzoli scuri, già duri, si vedevano chiaramente attraverso la maglia traforata.
Non serviva altro. Ma Lorena aveva ancora un dettaglio da aggiungere.
Afferò una cavigliera in pelle nera con piccole borchie cromate, la chiuse attorno alla caviglia destra di Princy, poi un’altra alla sinistra. Le stesse borchie tornavano sul braccialetto rigido che le chiuse intorno al polso.
Infine, aprì una scatola sottile e tirò fuori gli stivaletti neri in vernice, con tacco largo ma deciso.
«Indossali.»
Princy obbedì. Si chinò. I collant lucidi si tesero sulle cosce, accentuando ogni muscolo, ogni linea.
Quando si raddrizzò, Lorena fece un passo indietro e la osservò.
Poi si mosse dietro di lei, si abbassò appena, e le sussurrò all’orecchio:
«Adesso sembri una bambola da vetrina. Ma chi ti guarderà, capirà che sei reale. E che sei… pronta a tutto.»
Princy deglutì.
Era eccitata.
Spaventata.
Completamente esposta.
Eppure… non avrebbe voluto essere altrove.
Lorena si voltò verso la porta, come se stesse per lasciarla andare.
Fece un paio di passi, il tacco scandiva il silenzio della stanza. Poi si fermò.
«Ah, quasi dimenticavo.»
Tornò indietro con calma, aprì di nuovo la sua borsa.
Tirò fuori una piccola scatola nera, lucida, delle dimensioni di un palmo. Non disse cosa fosse. Si avviò verso il bagno.
Princy, in piedi davanti allo specchio, sentì il flusso d'acqua del lavabo.
Il cuore cominciò a battere più forte. Le mani le tremavano appena. Il vinile teso sugli shorts sembrava stringerle ancora di più i glutei.
Lorena tornò.
Chiuse la porta del bagno dietro di sé con un piede, poi si avvicinò a lei con la scatolina in mano.
Non disse nulla.
Le passò dietro. Lentamente.
Con voce bassa, quasi dolce, mormorò:
«Piegati. Gambe dritte.»
Princy obbedì. Si inclinò in avanti, le mani sulle ginocchia, le natiche perfettamente esposte. Il top a rete si sollevò, lasciando scoperta la parte alta dei collant. Lorena abbassò con decisione gli shorts di vinile, poi tirò giù i collant fino a metà coscia. La luce che colpì la pelle lucida della ragazza la rese ancora più esposta.
Con dita esperte, le aprì dolcemente le labbra intime. Era già umida, pronta.
Lorena estrasse l’ovetto dalla scatolina — piccolo, nero, appena lucido — e lo inserì in un gesto lento e profondo.
Princy emise un respiro strozzato.
Lorena lo spinse con due dita fino a farlo scomparire. Poi le risollevò prima i collant, poi gli shorts, lisciandoli con un palmo pieno su entrambi i glutei.
«Adesso sì… sei pronta.»
Prese il cellulare dalla borsa, lo fece scivolare nella mano destra e senza aggiungere altro uscì dalla camera, lasciando la porta socchiusa.
Princy rimase sola. Un nodo in gola, le gambe leggere, il ventre contratto.
Si fece forza e cominciò a scendere le scale, un gradino alla volta.
E fu lì, al terzo scalino, che una vibrazione improvvisa e violentissima le scosse il ventre. L’ovetto si attivò con un impulso profondo, continuo, diretto, liquido.
Princy barcollò, dovette aggrapparsi alla ringhiera, con il cuore in gola e la bocca aperta in un gemito muto. Quasi perse l’equilibrio. Le gambe tremavano. Ogni muscolo delle cosce cercava di trattenere quell’onda, invano.
Lorena la aspettava sotto.
Sorridente. Con il telefono in mano.
Occhiali da sole, spalle dritte, il piede che batteva il ritmo sul pavimento.
Le parlò senza abbassare la voce, come se nulla fosse.
«Mentre gli altri godranno di te ignuda… io godrò torturandoti la tua bella fighetta.»
Fece un ultimo sorriso, più tagliente.
«Com’era la frase? Leccata… dal cagnolone?»
La vibrazione si interruppe all’improvviso.
Princy tremava. Ma non si era mai sentita così viva.

















Lorena si voltò senza una parola e si diresse verso la Mini, lasciando che Princy la seguisse.
I tacchi suonavano sul vialetto in pietra con ritmo costante, quasi cerimoniale. Princy camminava qualche passo dietro, cercando di tenere la postura composta nonostante l’ovetto silenzioso ancora dentro di lei, un ricordo pulsante e instabile.
Quando raggiunsero la macchina, Lorena aprì lo sportello del lato passeggero con un gesto ampio e preciso.
Si voltò verso di lei, lo sguardo basso ma intenso.
Le accennò con il mento: “Entra.”
Princy obbedì, scivolando lentamente sul sedile in pelle chiara, stendendo con cautela le gambe lucide, cercando di non far salire troppo gli shorts. Ma era inutile. La posizione da seduta sollevava tutto: il bordo dei glutei, il ventre teso, la rete sul seno che si appiattiva contro il top.
Lorena le chiuse la portiera, piano, con cura.


Fece il giro della macchina, aprì la portiera del lato guida ma non si sedette subito.
Si chinò verso di lei, il busto che sfiorava il volto di Princy, e con un movimento lento prese la cintura. La tirò piano, con uno scatto metallico secco, e la fece passare sul corpo della ragazza.
Le mani sfiorarono il seno, poi indugiarono sul ventre, guidando la fibbia fino allo scatto finale. Ma non si ritirò.
Rimase chinata, la bocca vicina all’orecchio di Princy, che trattenne il respiro.
Lorena appoggiò il palmo sulla sua coscia, poi risalì con lentezza. Il contatto con il collant liscio sembrava eccitarla, o forse solo incuriosirla. Arrivò fino al bordo degli shorts, infilò appena le dita sotto l’elastico teso.
Poi la baciò.
Non un bacio affettuoso.
Un morso lento e liquido sul collo, all’altezza dell’arteria.
La lingua lasciò una scia umida, seguita dalle labbra che si aprirono su un secondo bacio, più in basso.
La voce uscì a filo, calda, perversa.
«Così lucida… così indecente. Non so come farò a non fermarmi prima.»
Poi si ritrasse. Si sedette con calma al suo posto, chiuse la portiera, accese il motore.
La Mini uscì dal vialetto con eleganza felina, la strada davanti a loro cominciava a stringersi tra i primi profili d’ombra della sera.
Nel silenzio dell’abitacolo, Lorena appoggiò il telefono nella mano sinistra, sollevandolo leggermente verso la luce. Scorse con il pollice sullo schermo, con calma chirurgica, mentre lo sguardo restava fisso sulla strada.
Poi, con un solo tocco, attivò il comando.
Princy sentì l’ovetto vibrare all’improvviso dentro di lei, una scossa piena, continua, che le piegò le gambe anche se era seduta. Un gemito le sfuggì dalle labbra, strozzato, trattenuto. Si aggrappò alla cintura con una mano, all’imbottitura della portiera con l’altra.
Lorena sorrise appena.
Non si voltò. Parlò come se stesse leggendo il traffico.
«Gli altri godranno della tua pelle, ignari. Io invece… godrò torturando la tua bella fighetta.»
Fece una pausa, quasi distratta, poi mormorò:
«Cagnolone.»
Un solo sussurro. Ma bastò.
Princy trasalì visibilmente, come se quella parola le fosse esplosa direttamente tra le gambe.
L’ovetto vibrò più forte, attivato con un nuovo tocco sullo schermo.
La Mini correva fluida lungo le curve strette tra i campi, il motore borbottava basso, i fari illuminavano la strada che si faceva via via più buia. All'interno dell’abitacolo, il silenzio era tagliato solo dal ronzio sottile degli pneumatici e dalla vibrazione leggera del cellulare nella mano di Lorena.
Princy guardava fuori dal finestrino, ma non vedeva nulla. Il trucco le tirava la pelle, l’ovetto le martellava dentro in ondate irregolari, e le dita tremavano sul bordo della portiera.
Dopo qualche minuto, non resistette più.
«Lorena, ma… dove stiamo—»
Un’ondata improvvisa. Violenta.
L’impulso le spezzò la frase in gola, la fece curvare sul busto, trattenendo un singhiozzo.
Lorena non si voltò. Non disse nulla.
Con un tocco sul telefono, disattivò la vibrazione.
Princy ansimò. Cercò di riprendersi.
Attese. Poi, più piano, più cauta, provò ancora:
«È lontano? Andiamo in un—»
Altro impulso. Più lungo. Più profondo.
Il bacino le si sollevò appena dal sedile, le cosce strette, la voce strozzata in gola.
Lorena sorrideva, impercettibilmente.
Sfiorò lo schermo con grazia, fece salire il livello di potenza, senza fretta, solo per due secondi.
Poi parlò, a mezza voce, come se commentasse il paesaggio:
«Tu non chiedi. Tu segui.»
Poi lasciò che la notte le avvolgesse di nuovo nel silenzio.
La Mini svoltò lentamente e si fermò sotto il pergolato laterale del locale, tra luci calde sospese e un profumo di agrumi e vino bianco che galleggiava nell’aria.
Il parcheggio era elegante, curato, discreto. Una figura fimminile si intravedeva all’ingresso, qualche cliente già ai tavolini più interni.
Lorena spense il motore. Poi si voltò un attimo verso Princy, non per parlarle, ma solo per guardarla. La ragazza era immobile, ma le gambe fremevano. Le mani, chiuse a pugno sulle cosce, cercavano di non tremare.
Lorena scese.
Tacchi precisi sulla pietra levigata.
Aggirò l’auto e aprì lentamente la portiera del lato passeggero.
Princy si mosse per scendere, sollevando una gamba in modo innaturale elegante, come Lorena le aveva insegnato. Ma proprio mentre si sollevava dal sedile, un’ondata improvvisa la attraversò.
L’ovetto si attivò alla massima potenza.
Un’esplosione profonda e assoluta.
Le gambe le cedettero. Il respiro le si mozzò in gola.
Ricadde di schiena sul sedile, le cosce contratte, i talloni che sbattevano sul tappetino. Un lamento strozzato le uscì dalle labbra, più un sussulto animale che una parola.
Lorena si avventò su di lei.
Entrò con mezzo busto nell’auto, le ginocchia sul bordo del sedile.
Una mano le strinse un seno con violenza, l’altra le torse il capezzolo destro, afferrandolo tra pollice e indice attraverso la maglia a rete.
La bocca affondò sul suo collo, poi sulla clavicola, poi salì a morderle le labbra, senza dolcezza.
Princy si contorse sotto di lei, incapace di difendersi, incapace di volersi difendere.
Il corpo tese l’addome, le gambe si allargarono da sole, le mani si aggrapparono alla giacca di Lorena come per ancorarsi.
Il piacere esplose con violenza.
Un orgasmo improvviso, irregolare, sporco, potentissimo, che le scosse le viscere e le fece quasi perdere coscienza. Mugolò contro la bocca di Lorena, mentre l’ovetto continuava a vibrare dentro di lei, prolungando ogni contrazione.
Lorena la baciò ancora una volta, lunga, lenta, come a suggellare il momento.
Poi si ritrasse. Si sistemò i capelli con calma, come se nulla fosse successo, e le disse con tono gelido ma dolce:
«Ora puoi uscire.»
E si voltò verso l’ingresso del locale.
Come se niente fosse accaduto.
Come se tutto fosse appena iniziato.
Princy scese dall’auto con le gambe ancora tremanti. Il trucco perfetto, il viso scolpito, ma lo sguardo leggermente appannato dal piacere appena vissuto. Camminava dietro Lorena a piccoli passi, mentre le cosce lisce nei collant lucidi sfregavano impercettibilmente ad ogni passo, e il vinile degli shorts si tendeva sul suo sedere come carta da regalo attorno a un segreto peccaminoso.
La porta del locale si aprì automaticamente.
All’ingresso, una ragazza in tailleur elegante le accolse con un sorriso misurato.
«Benvenuta Lorena.»
«Tesoro, sei sempre splendida» rispose lei, con naturalezza assoluta, come se frequentasse quel posto ogni sera. Le diede un bacio lieve sulla guancia, mentre un’unghia color sangue sfiorava appena il colletto della giacca della hostess.
L’altra non lanciò nemmeno un’occhiata a Princy. Forse per educazione. Forse perché non osava.
Le accompagnò con passo sicuro a un tavolino riservato, in un angolo laterale, parzialmente in ombra, ma con visuale perfetta sul resto del locale.
Poltroncine basse, tavolino in vetro scuro, illuminazione calda e bassa. Atmosfera perfetta.
Lorena si sedette con eleganza. Le gambe accavallate, la giacca appena scostata, il décolleté pieno che sfiorava la luce dorata della candela.
Princy fece per sedersi accanto a lei.
Ma una mano sottile si alzò a fermarla.
«Tesoro…»
Lorena la guardò appena, ma la voce era tagliente e inconfutabile.
«Vammi a prendere da bere, per favore. Un Courvoisier. E non ti disturbare a prendere qualcosa per te: non sei qui per bere. Sei qui per servire.»
Princy si bloccò. Si rialzò subito, abbassando lo sguardo con un piccolo cenno del capo. Fece un passo indietro e si voltò, dirigendosi verso il bancone.
Lorena la seguì con lo sguardo, apertamente, senza ritegno.
Ogni passo faceva dondolare il sedere fasciato nel vinile rosso, e la luce del locale si rifrangeva sul tessuto lucido, disegnando curve precise, desiderabili, eccessive.
Quando Princy arrivò al banco, chiese il Courvoisier sottovoce, e stese il braccio per prendere il bicchiere dal vassoio che il barista le porgeva.
Fu in quell’istante che la vibrazione tornò.
Violenta. Profonda. Precisa.
Le gambe si piegarono di colpo, il bicchiere oscillò sul vassoio, le mani tremarono.
Chiuse le cosce con forza, le unghie nella pelle lucida dei collant, un sussulto silenzioso la attraversò.
Dal tavolo, Lorena osservava tutto.
Con il telefono in mano, un dito ancora appoggiato sullo schermo, e un mezzo sorriso sulle labbra.
Nessuno nel locale sapeva nulla.
Solo lei.
Solo Princy.
Solo quella piccola tortura invisibile, che l’avrebbe accompagnata per tutta la notte.
«Sta bene?» chiese il barman, con tono gentile ma diretto.
Lei non riuscì a parlare.
Chiuse gli occhi un secondo, poi annuí lentamente col capo, le labbra appena dischiuse, il trucco che sembrava più pesante sotto quella luce.
Si raddrizzò a fatica, stringendo il vassoio con entrambe le mani, mentre il calore le saliva dal ventre al collo. L’ovetto continuava a pulsare dentro di lei, una carezza incandescente che la faceva tremare in silenzio.
Si voltò.
Con passi piccoli e controllati, tornò verso il tavolo, le gambe che sembravano di vetro, le cosce lucide avvolte nei collant che riflettevano ogni luce.
Il sedere nel vinile rosso oscillava impercettibilmente a ogni passo, mentre le contrazioni la prendevano a tradimento, e ogni respiro era un atto di resistenza.
Quando arrivò al tavolo, vide Lorena con un uomo al suo fianco.
Princy si fermò accanto al tavolo.
Il vassoio tra le mani, il respiro ancora irregolare, l’ovetto che sembrava volerla divorare da dentro.
Rimase lì, in piedi, a mezzo passo dalla luce, in posizione perfetta per essere vista e ignorata allo stesso tempo.
Il bicchiere non lo porse. Lo tenne.
Come si tiene un’offerta che verrà accettata solo quando il momento sarà giusto.
Lui la guardò appena. Solo un rapido cenno degli occhi, per identificarla.
«È lei?» chiese all’orecchio di Lorena, con un sorriso tranquillo.
Lorena non rispose subito.
Prese il bicchiere dal vassoio, senza dire nulla, e lo portò lentamente alle labbra.
Poi, dopo il primo sorso, parlò.
Senza guardare Princy.
Come se fosse una terza sedia. O una bottiglia.
«Sì. È mia. Solo io decido cosa può fare e cosa no.»
Lui sorrise, guardandola stavolta un po’ più a lungo. Lo sguardo scivolò dal viso truccato ai seni visibili sotto il top a rete, poi più in basso.
«Può essere toccata?»
Lorena sorseggiò ancora, poi poggiò il bicchiere.
«Può essere toccata. Strizzata. Pizzicata. Guardata.»
Fece una pausa.
«Ma niente di più.»
L’uomo annuì, con aria soddisfatta.
«Deve restare vestita così per tutta la sera?»
Lorena alzò un sopracciglio, girò il viso verso di lui.
Un sorriso lento, appena accennato.
«Si vedrà.»
Lui la fissò per un momento più lungo.
Poi, quasi distrattamente, chiese:
«E dopo? Più tardi… possiamo averla anche di là?»
Lorena sorrise apertamente stavolta.
Non di compiacimento. Di potere.
«Certo che sì. Ma prima… facciamola servire ai tavoli.»
Princy sentì tutto.
Ogni parola.
Ogni virgola.
Ma non mosse un muscolo.

Princy si mosse tra i tavoli con il vassoio tra le mani.
Camminava lentamente, come le era stato insegnato: schiena dritta, passo contenuto, il bacino che sembrava guidato da una mano invisibile.
Gli sguardi la seguivano. Alcuni la spogliavano. Altri la possedevano già.
Le mani cominciarono ad allungarsi. All’inizio timide, poi più sicure.
Una le sfiorò il fianco. Un’altra le accarezzò apertamente i glutei. Due dita cercarono il bordo, lo premettero piano, come a chiedere accesso.
Lei non reagì. Solo il respiro più corto, un impercettibile inarcarsi della schiena.
Ma mai uno sguardo. Mai una parola.
Poi, un uomo solo al centro della sala la fermò.
«Scusa… posso ordinare?»
Si avvicinò. Rimase in piedi accanto al tavolo, in silenzio.
Lui la toccò.
Dalla caviglia, su per il polpaccio. Lentamente.
Salì senza fretta, sfiorando la coscia.
E proprio quando arrivò tra le gambe, la vibrazione esplose.
Un’onda improvvisa, rotonda, profonda.
Lui la percepì chiaramente sotto le dita.
Il respiro caldo, l’elettricità sotto la pelle.
Sfregò con calma.
Un movimento preciso, leggero. Solo polpastrelli. Solo controllo.
Princy si piegò in avanti.
Il corpo tremava, i muscoli del ventre si contraevano.
Le mani ancora strette sul vassoio, la fronte quasi appoggiata al tavolo.
La voce era scomparsa.
Il mondo, anche.
Solo quella pressione. Solo quella vibrazione.
E da lontano, Lorena guardava.
Con un dito immobile sul telefono, e un’espressione che non lasciava spazio a dubbi:
“Verrà solo quando lo decido io.”
Princy si avvicinò. Rimase in piedi accanto al tavolo, vassoio tra le mani.
Non disse nulla.
Sapeva che non doveva iniziare lei.
L’uomo la sfiorò.
All’inizio fu un tocco lento, dalla caviglia verso l’alto, la punta delle dita che accarezzavano il nylon teso sul polpaccio, come se stesse cercando la direzione del desiderio.
Salì senza fretta, seguendo la linea dell’interno coscia, fino a sfiorarle l’attaccatura degli shorts.
Si fermò lì, solo un istante, come se stesse chiedendo il permesso a qualcosa che sapeva già essere suo.
Poi spinse appena le dita oltre il bordo del vinile, dentro, contro la pelle.
La trovò calda, pulsante.
Le dita scivolarono sotto.
Cercarono. Trovarono.
Il clitoride.
Gonfio. Umido. Vivo.
Lo accarezzò con due dita, lentamente.
Un movimento circolare, quasi distratto, ma preciso.
Il pollice si appoggiò sotto, l’indice sopra. Lo strinse appena. Poi tornò a sfiorarlo con delicatezza, più e più volte.
Ed è proprio in quel momento che Lorena attivò la vibrazione.
Un’onda improvvisa. Sorda. Liquida.
L’ovetto pulsava dentro di lei in perfetto sincrono con le dita dell’uomo.
Princy gemette piano.
Un suono spezzato, aperto. Le gambe si piegarono. Il bacino cercò l’appoggio.
Si piegò in avanti sul tavolo.
Il vassoio ancora tra le mani. Le nocche bianche.
Il respiro spezzato, il viso stravolto in uno sforzo disperato per non venire.
L’uomo non smise.
Continuò a sfiorare quel punto teso, vibrante, liquido.
Lo faceva con maestria, con calma.
Come chi conosce il corpo, ma non ne ha rispetto. Solo desiderio. Solo controllo.
Princy sentì il picco salire, violento, sporco.
Le contrazioni la prendevano, il ventre si gonfiava, il piacere saliva come lava.
E proprio lì — un secondo prima del crollo —
la vibrazione si fermò.
Secca. Severa. Totale.
Le dita dell’uomo si ritirarono con la stessa lentezza con cui erano entrate.
Solo uno sfioramento residuo, come a dire: ci torneremo.
Princy tremava.
Il respiro irregolare. Il corpo sul bordo del piacere, ma ancora vuoto.
Rimase piegata per un secondo. Poi si raddrizzò, lentamente.
La voce spezzata, ma composta.
«Cosa desidera da bere, signore?»
«Un Negroni. Ma servilo con calma» aveva detto l’uomo, con quel mezzo sorriso che parlava più delle parole.
Princy annuì con un filo di voce, poi si voltò.
I suoi passi verso il bancone furono lenti, incerti.
Ogni movimento del bacino sembrava scontrarsi con l’eco residua della vibrazione, con il calore del clitoride ancora pulsante, con le dita che avevano appena violato il confine.
Prese fiato, si avvicinò al banco.
Attese il drink. Non parlò.
Il bicchiere le fu consegnato con un cenno muto.
Lo prese con delicatezza, appoggiandolo sul vassoio. Lo guardò per un secondo, come se avesse paura di portarlo.
Poi tornò al tavolo.
L’uomo la aspettava nello stesso punto, calmo, rilassato, affamato.
Quando lei gli si avvicinò con il vassoio, non attese.
Allungò la mano dal fianco verso l’alto, sotto il top a rete, e trovò subito il seno nudo.
Lo accarezzò.
Poi lo prese.
Strinse il capezzolo tra due dita, lo ruotò lentamente.
Lo pizzicò, lo tirò, lo strinse ancora.
Princy trasalì, ma non indietreggiò.
Il vassoio tremava tra le mani, eppure riuscì a tenerlo.
Solo le labbra si aprirono in un gemito silenzioso.
Gli occhi socchiusi. Il respiro irregolare.
La seconda mano dell’uomo risalì lentamente verso l’altro seno, ma prima che potesse raggiungerlo —
«Tesoro, vieni qui un momento.»
Princy si voltò lentamente, ancora con il vassoio tra le mani.
Le gambe tremavano appena. Il capezzolo destro ancora bruciava del tocco precedente.
Si avvicinò. In silenzio.
Lorena la guardò un istante. Poi aprì la borsetta.
Con calma, ne estrasse una forbicina sottile e affilata, dorata, come un oggetto di precisione da chirurgia sartoriale.
La fissò negli occhi.
«Fermo il respiro, apri le spalle.»
Princy obbedì.
Lorena si alzò.
Le si mise davanti.
Sollevò il top a rete appena con due dita. Poi infilò la forbice al centro, tra i seni.
Snick.
Un taglio.
Snick.
Un altro.
Snick. Snick.
Il rumore era secco, preciso, lento.
Il tessuto si apriva esattamente lungo il solco, come una zip invisibile che rivelava la carne viva sotto.
Non tolse nulla.
Aprì.
Ora il top pendeva aperto ai lati, come due ali molli di rete tagliata.
I seni scoperti.
I capezzoli eretti.
Il respiro corto.
Lorena fece scivolare la forbicina nella borsa.
Poi, con due dita, le sfiorò entrambi i capezzoli.
Li pizzicò appena. Li testò.
Princy si irrigidì, le mani strette sul vassoio, il volto arrossato.
Non parlò. Non osò.
Lorena si voltò verso l’uomo.
«Così è molto meglio, vero?»
Lui annuì lentamente, con un sorriso sottile.
Lorena tornò a sedersi.
Riprese in mano il bicchiere.
E senza guardarla disse:
«Vai. I tavoli aspettano.»
Stava passando tra i tavoli, il vassoio vuoto tenuto stretto al petto, quasi a voler coprire i seni esposti, ma senza il coraggio — o il permesso — di farlo davvero.
Gli occhi di tutti erano su di lei.
Chi la fissava apertamente. Chi con finta indifferenza.
Ma nessuno la ignorava.
«Signorina!»
La voce arrivò da un tavolo a due posti, più isolato.
Un uomo solo. Elegante, abbronzato, sulla cinquantina. Sorriso calmo, sguardo affilato.
Lei si voltò.
Si avvicinò lentamente.
Lui le indicò la sedia accanto.
«Appoggia pure il vassoio. E girati un po’, fammi vedere com’è stato tagliato quel top. L’ha fatto lei?»
Lei non rispose. Lo fece solo.
Appoggiò il vassoio.
Si girò lentamente.
I seni nudi tremarono a quel gesto. I capezzoli sembravano chiamare l’aria.
L’uomo sorrise.
«Meravigliosa… davvero. Lorena è un’artista.»
Poi allungò la mano.
Non direttamente sul seno. Ma dal fianco.
Le accarezzò prima la pelle morbida appena sopra la cintura degli shorts, poi salì con lentezza verso il petto, senza fretta.
Le dita sfiorarono la curva inferiore.
Poi salirono.
Un dito solo, indice, che sfregò il bordo del capezzolo sinistro, poi lo disegnò in cerchio, lento, più lento.
Princy chiuse gli occhi.
Il respiro tremò.
Poi lo toccò con pollice e indice.
Lo strinse.
Lo arrotolò.
Lo pizzicò con decisione.
E fu in quel momento che Lorena, dal suo tavolo, attivò l’ovetto.
Un’esplosione.
Profonda.
Bagnata.
Violenta.
Princy emise un gemito basso, istintivo.
Le ginocchia si piegarono leggermente.
Le mani si aggrapparono al bordo della sedia, per non crollare.
L’uomo la guardava.
Sentiva le vibrazioni.
Le dita ancora sul capezzolo teso.
«Accidenti… la fa vibrare davvero.**
E non solo dentro.»
Poi aggiunse, sussurrando:
«Sei sul punto, vero? Stai per venire…»
E proprio allora —
la vibrazione cessò.
Princy restò lì.
Senza fiato.
Senza sollievo.
Senza forza.
L’uomo le diede una lieve pacca sulla coscia.
«Portami un whisky, dolcezza. Ma con le mani ferme, se ci riesci.»
Il whisky era scivolato via dalle sue mani con un piccolo tremore appena percettibile, ma l’uomo lo aveva ricevuto con la calma di chi sa che non è l’alcol ciò che davvero conta. L’aveva fissata ancora un istante, come a volerle far sapere che non era finita, poi aveva lasciato andare.
Princy si era voltata, il vassoio vuoto contro il fianco, e aveva ripreso il suo giro, cercando di rimettere ordine al respiro e alla vergogna che le si muoveva sotto la pelle. Ogni sguardo era un’ustione, ogni passo un rischio. Nessuno parlava, ma la seguivano tutti.
Poi arrivò quella voce. Bassa, pesante, già carica di pretesa.
«Ehi. Tu. Vieni qui.»
Non lo aveva mai visto prima, ma già sapeva chi era. Non uno di quelli scelti. Non un complice. Solo un corpo volgare che si sentiva autorizzato. Aveva gli occhi impastati e la bocca troppo sciolta. Era seduto storto, ma la sua mano era dritta, già tesa verso di lei.
Princy si fermò davanti a lui. Le spalle rigide, la mascella serrata.
«Desidera qualcosa da bere?»
Lui non rispose. Le afferrò il polso. Il gesto fu sottile, nemmeno violento, ma bastò. Lo sguardo si fece predatorio, la bocca tirò un mezzo sorriso.
«Voglio sentire se vibra anche fuori.»
E le spinse la mano tra le sue gambe, senza attesa, senza diritto, senza alcun permesso.
Ci fu un solo secondo di gelo. Poi il suono secco di una sedia che slitta.
Un’ombra immensa si avvicinò alle sue spalle. Nessuno la vide arrivare. Solo lui se la trovò addosso.
Il buttafuori lo sollevò senza preavviso, come si prende un animale fastidioso per la collottola e lo si toglie dalla scena. Il cliente tentò di reagire, ma era solo rumore. Pugni piccoli, piedi che non toccavano più terra.
Fu spinto via tra i tavoli, urtando vetri e sedie, tra mormorii improvvisi e sguardi che si abbassavano per finta. La voce del gigante era una pietra lanciata sul pavimento:
«Fuori. Ora. E non varchi mai più questa soglia.»
Poi silenzio. Il portone si richiuse alle sue spalle con un colpo sordo. Il locale riprese fiato.
Princy era rimasta lì, tremante, ancora con il polso nella posizione in cui era stato afferrato. Non riusciva a muoversi. Le braccia le dolevano, ma era dentro che stava cedendo.
Una presenza le si avvicinò. Non l’aveva sentita arrivare, eppure era lì.
Lorena.
Accanto a lei. Silenziosa. Precisa. Pericolosa.
Le passò due dita sul polso, come a cancellare l’impronta che vi era rimasta. Poi si chinò appena verso il suo orecchio. La voce era bassa, un sussurro controllato, venato di fuoco.
«Tu non sei qui per essere usata. Tu sei mia. Se qualcuno ti tocca dove non ho deciso io, lo butto fuori come spazzatura. Chiaro?»
Princy annuì, con un tremito che le attraversò la schiena fino alle cosce.
Crollata e rassicurata in un solo istante.
Il vassoio tra le mani, Princy si avvicinò al tavolo con passo composto. Lorena era seduta, il bicchiere accanto a sé, lo sguardo sul volto dell’uomo che le sedeva di fronte. Non la degnarono di uno sguardo. Lei posò il nuovo drink e attese. In piedi, zitta, come aveva imparato a fare.
Solo allora Lorena sollevò lo sguardo.
Non parlò.
Non serviva.
Bastò un gesto appena accennato con la mano, come a scacciare un granello d’aria, e tutto fu chiaro.
Princy abbassò lo sguardo, poi lo riportò su Lorena. Ma quegli occhi non chiedevano conferme. Solo obbedienza.
Le mani si mossero lente sui fianchi. Il bottone degli shorts si aprì con un clic ovattato. Il tessuto, morbido e sottile, scivolò giù in un soffio, disegnando curve nude tra le cosce e lasciandola in piedi, esposta, impacchettata nel collant lucido che aderiva ovunque.
Un mormorio sordo attraversò il locale.
Non perché fosse nuda.
Ma perché non lo era abbastanza da giustificare quel tremore, quel rossore sulle guance, quella chiazza scura, impossibile da ignorare, che si allargava tra le gambe serrate.
Chi la guardava cercava un perizoma, una linea, un bordo.
Non trovavano nulla. Solo la presenza esplicita del desiderio, intrappolato sotto quella pellicola lucente.
Lorena si alzò. Le si avvicinò con calma, con lentezza chirurgica. Non una parola, non un sorriso.
Sollevò la mano, le sfiorò i fianchi, poi — come per sistemarle qualcosa — passò un’unghia tesa tra le natiche, lungo la fessura che il collant divideva senza celare.
Princy si irrigidì. Non per timore. Per eccitazione troppo vicina all’umiliazione.
«Adesso puoi tornare a servire.
Solo che questa volta… lascia pure gli shorts qui.»
Lorena si voltò verso l’uomo, sedendosi con eleganza, come se nulla fosse accaduto.
«Sai cos’è la perfezione?»
Sorseggiò il cognac.
«È quando qualcosa sembra coperto, ma in realtà è già pronto a essere usato.»
Lorena non le dice nulla.
La guarda, semplicemente. Poi accenna col capo. Un richiamo secco, autoritario, eppure privo di voce.
Princy lascia il vassoio, cammina verso di lei come rispondendo a un bisogno fisiologico, come se l’aria in quella sala fosse diventata troppo densa senza la sua padrona vicina.
Lorena si alza con una lentezza precisa, calcolata, e si volta.
Attraversa lo spazio tra i tavoli senza voltarsi, sapendo che verrà seguita.
La porta in una zona d’ombra, accanto a una parete scura, dove la musica ovatta tutto e la gente è troppo occupata a fingere disinteresse.
Appena arrivate, senza girarsi, attiva l’ovetto.
Non al minimo. Non al massimo.
A quel livello perfido che vibra dentro e accende il sangue senza farlo esplodere.
Poi si volta. La prende per i polsi, la spinge con decisione contro il muro, il viso vicinissimo al suo, gli occhi fermi come una lama posata sulla pelle.
Le mani scendono sul ventre, tracciano la curva sotto l’ombelico, si insinuano tra le cosce e affondano contro il collant bagnato.
Niente esitazione. Solo controllo.
Il dito medio disegna cerchi, poi pressioni, poi sfregamenti brevi e secchi, sul punto preciso in cui la vibrazione interna incontra la sua umidità.
Princy si piega leggermente in avanti, le mani aperte sul muro, il fiato corto.
Lorena la morde. Le prende un capezzolo tra le labbra, lo pizzica con forza, poi passa all’altro.
Le mani non smettono di lavorarla.
Le dita non cercano il permesso.
Il viso si sposta verso l’orecchio.
«Così mi piaci. Sporca. Tremante. Mia.»
Il corpo di Princy reagisce prima della sua mente. Le cosce si irrigidiscono, la schiena si inarca, il ventre si contrae.
Viene.
Senza chiedere.
Senza parlare.
Contro quella parete che assorbe il suo gemito come se fosse parte del gioco.
Lorena la guarda un istante mentre si aggrappa al muro, le dita ancora tese, la bocca aperta.
Poi, con calma, si sistema i capelli, le lecca due dita con lentezza esibita, e se ne va, lasciandola lì a recuperare fiato e lucidità.
Il messaggio è chiaro.
Nessuno la tocca.
Ma lei è sempre sotto controllo.
Camminava a fatica, con il corpo ancora percorso da quel brivido profondo che l’aveva piegata contro il muro. L’ovetto si era fermato, ma il calore che lasciava in grembo sembrava ancora vivo, pulsante, come un’eco continua sotto la pelle.
La sala sembrava la stessa, eppure nulla era più come prima. Gli sguardi ora avevano perso il pudore della curiosità. Si erano fatti più densi, affilati, predatori. E non si nascondevano.
Un ragazzo passò dietro di lei, sfiorandole il fianco con la mano aperta. Non si voltò nemmeno. Ma la parola che lasciò cadere fu più pesante di qualsiasi tocco.
«Troia.»
Lei deglutì a vuoto. Continuò a camminare.
Altri due, seduti a un tavolo basso, la fissavano come si guarda un corpo senza più difese. Uno sorrise all’altro, con l’aria di chi ha appena trovato un segreto da sussurrare.
«Puttanella da vetrina… la vedi com’è lucida laggiù?»
Lei abbassò il vassoio.
Involontariamente le cosce si serrarono, ma era inutile. Il collant color carne mostrava tutto ciò che non avrebbe dovuto.
Eppure, nessuno la fermava. Nessuno la difendeva.
Solo Lorena, a distanza, osservava ogni singolo gesto con la stessa calma con cui si sorseggia un bicchiere di vino. Imperturbabile. Sovrana.
Una voce più rauca arrivò da sinistra.
«Tiracazzi ambulante. Ne ho viste tante, ma questa li fa impazzire tutti…»
Ridevano. Non forte. Ma a sufficienza.
Princy non reagì. Non poteva.
Perché ogni parola era come un ordine silenzioso:
stai lì.
accetta.
sei guardata.
sei giudicata.
sei quella.
Fu allora che Lorena si alzò.
Con un gesto minimo, elegante, tese la mano verso di lei. Nessuna fretta, nessuna tensione. Solo la certezza che sarebbe arrivata. E Princy arrivò. Le si fermò accanto, gli occhi lucidi, il respiro rallentato, il corpo ancora nudo sotto quel velo trasparente che non riusciva più a fingere niente.
Lorena la prese per il polso, senza una parola. Si voltò verso l’uomo con cui aveva parlato tutta la sera, e con un accenno del mento lo invitò a seguirle.
Poi, si mosse.
Attraversarono il locale come un corteo. Nessuno osava fermarle. Solo gli sguardi le seguivano, e le parole si spegnevano una dopo l’altra. Davanti a loro, una porta nera. Il privé.
Lorena non rallentò il passo. Non esitò.
Aprì. Entrò.
Solo allora si voltò, guardandola negli occhi.
E lì, nel silenzio improvviso della stanza riservata, con ancora le voci impresse sulla pelle, Princy capì che era solo l’inizio.
















Appena varcata la soglia del privé, l’atmosfera cambiò di colpo.
Le luci si fecero più basse, violacee, pulsanti. Il pavimento era lucido, rifletteva in modo sporco. L’aria aveva l’odore dolce e acre dei drink mischiati al sudore. Un palco centrale, circolare, emergeva come un altare, circondato da poltrone nere disposte in semicerchio. Sopra, solo un palo d’acciaio illuminato da un faretto.
Princy rallentò il passo.
Non c’erano più tavoli da servire.
Non c’erano più comandi sussurrati.
Qui non si nascondeva nulla.
Qui si esponeva.
Lorena la afferrò per il polso e la trascinò con passo deciso verso una porta sul fondo, dietro il palco. Nessuna parola. Solo un’occhiata rapida alla ragazza alla reception, che annuì senza chiedere. Una stanza angusta le accolse: pareti di velluto scuro, un grande specchio illuminato da luci al neon e un appendiabiti con qualche vestito troppo piccolo, troppo corto, troppo vistoso.
Lorena chiuse la porta e si voltò verso di lei con un’espressione diversa. Non più padrona, non ancora truccatrice.
«Spogliati.»
Princy obbedì in silenzio.
Non aveva molto da togliersi, il top tagliato, gli stivaletti e i collant con la macchia tra le gambe ancora visibile.
Princy era nuda. Esposta. Ancora una volta.
Ma non era finita.
Lorena si portò dietro allo specchio, aprì un piccolo armadietto e ne tirò fuori delle salviettine.
«Siediti.»
Le passò con decisione sul viso, rimuovendo ogni traccia del trucco precedente. Il rossetto sbavò prima sulle labbra, poi sulla guancia. Gli occhi si fecero nudi, disarmati.
Poi tornò all’armadietto e ne estrasse una nuova palette, più scura, più teatrale. Ombre profonde, glitter violacei, fard acceso.
Senza distogliere gli occhi da quelli di Lorena, si alzò in ginocchio sulla sedia, si sporse piano, e con un movimento tanto lento quanto preciso le divaricò le gambe. Lorena non fece nulla per impedirlo. Restò lì, fiera, con un sopracciglio appena sollevato e un accenno di sorriso tagliente sulle labbra. Le lasciò fare.
Princy le fece scivolare via lo spacco dell’abito, poi infilò le mani sotto il bordo di seta della lingerie e si abbassò, lasciando che le labbra trovassero il centro del piacere della sua padrona. La bocca cominciò a lavorare con dedizione assoluta, come se ogni leccata fosse una preghiera, ogni risucchio un’offerta.
Lorena chiuse gli occhi solo per un istante, il pennello ancora tra le dita, sospeso. Poi tornò a guardarsi allo specchio, le guance arrossate, il respiro che rompeva il ritmo. Una mano si chiuse sulla sedia, l’altra, finalmente, si posò tra i capelli di Princy, senza spingerla, solo per sentirne la presenza, la sottomissione. Le dita affondarono piano, poi più forte, mentre le gambe si tendevano e il bacino iniziava a muoversi con piccole scosse.
Princy non si fermò. Non arretrò neanche quando il corpo sopra di lei tremò. Anzi, aumentò la pressione, il ritmo, il calore. Voleva sentirla cedere. Voleva rubarle un grido.
Lorena inarcò la schiena, aprì la bocca, ma la voce uscì solo in un gemito sordo, trattenuto. Le gambe le tremavano. Poi, senza preavviso, venne. Con scatti brevi, incontrollabili. Il pennello le cadde di mano, rotolando a terra, dimenticato.
La testa di Princy restò lì, tra le sue cosce, immobile, finché il respiro tornò calmo. Poi si ritrasse piano, le labbra ancora umide, le guance arrossate. Si rimise seduta, senza parlare.
Lorena si chinò a raccogliere il pennello.
Lo guardò.
Poi guardò lei, non parlò subito.
Restò alle spalle di Princy, osservandola nello specchio: truccata, nuda, con l’ovetto ancora silenzioso dentro di sé.
Sembrava già pronta. Ma per Lorena non lo era mai abbastanza.
Aprì il borsone e ne estrasse con cura il body nero lucido. Lo tenne sollevato un istante, lasciando che la luce lo accarezzasse.
«Guarda che bellezza» sussurrò. «Solo il meglio per la mia bambola.»
Si inginocchiò davanti a lei e glielo infilò dalle gambe, con movimenti morbidi e lenti, quasi affettuosi.
Lo tirò su con cura, facendo aderire il tessuto al corpo, controllando ogni piega, ogni linea.
Quando le sistemò le coppe, le accarezzò i seni con i palmi aperti, stringendole i capezzoli tra le dita come a testarne la reattività.
«Perfetti» mormorò.
Dietro, sistemò la sgambatura alta, tirandole il body tra i glutei e lasciando la carne nuda ben visibile sopra le autoreggenti.
Poi arrivò il momento del miniabito blu elettrico, lucido e teso.
Lo fece scivolare dall’alto come se stesse vestendo una porcellana preziosa, calandolo centimetro dopo centimetro, lavorando con mani esperte e delicate.
Lo distese sui fianchi, sulle cosce, sulla vita. Poi glielo tirò leggermente sul seno, fino a farlo esplodere dalle spalline.
Ogni gesto aveva la cura disturbante di una madre devota e crudele.
Ogni tocco era un gesto d’amore deformato.
Lorena si alzò.
La fece voltare.
Le scostò i capelli corti con una mano per vederla meglio, mentre con l’altra lisciava la schiena fino al fondo della gonna.
«Ci siamo quasi.»
Poi prese le autoreggenti e gliele infilò una a una, in silenzio. Il suono del tessuto che sale sulla pelle creava un’eco strana nella stanza.
Infine, i sandali trasparenti con plateau e tacco vertiginoso.
Princy, in equilibrio su quei trampoli del desiderio, sembrava ancora più esposta, ancora più fragile.
Lorena tornò a sedersi, prese il telefono e incrociò le gambe.
Un click.
L’app si aprì.
«Ascoltami adesso, amore. L’ovetto resta dove sta.
Io decido quando vibra, io decido quanto e dove.
Lì fuori non sarai una donna.
Sarai uno spettacolo. Un dono.
Ogni tuo orgasmo… sarà un mio capriccio.»
Le sorrise.
Poi si alzò, le sistemò un ciuffo ribelle, e sussurrò all’orecchio:
«Vai. Ti stanno già aspettando.»
Dietro la tenda il tempo si fermò. Il velluto sfiorava la pelle nuda di Princy come dita sospese. Lorena, alle sue spalle, non diceva nulla. Si limitò a sfiorarle la schiena, appena sotto la nuca, e quel tocco fu comando. Avanti.
Due passi. La luce.
Il palco la inghiottì.
Un’esplosione viola le inondò il viso, i fianchi, il seno. I fari riflettevano bagliori elettrici sul miniabito lucido, mentre nell’aria si libravano le prime note inconfondibili di Purple Rain. Lente, sensuali. Un assolo che sembrava cantarle dentro.
Applausi. Fischi di approvazione. Ma poi, il silenzio denso del desiderio. Il pubblico osservava, attendeva, tratteneva il respiro. Volevano capire. Volevano vedere.
Lei restò ferma. I tacchi trasparenti la radicavano sul legno vivo del palco, ma il cuore batteva troppo forte per fingere sicurezza. E fu allora che accadde. Un sussulto interno, una vibrazione profonda, intima. Lorena.
L’ovetto si risvegliò con la voce del basso nella canzone, con la voce di Prince che sussurrava versi di pioggia e abbandono. Princy vacillò, leggermente. Le ginocchia cedettero per un istante, il bacino si inclinò, il respiro si spezzò in gola.
E il pubblico lo vide.
Un boato di voci. «Guardate com'è bagnata!» «Faccela vedere!» «Spogliala!»
Ma Princy era sola sul palco. E non aveva bisogno di nessuno per spogliarsi.
Cominciò a muoversi.
All’inizio fu esitazione. Un passo incerto, le dita che si stringevano al bordo del vestito. Ma poi la musica la prese. Scivolò dentro il ritmo come dentro un amante. I fianchi cominciarono a ondeggiare, lenti, profondi. Le mani correvano lungo il corpo, si stringevano sul seno, accarezzavano le cosce sopra le autoreggenti.
Il calore delle luci la inondava, la pelle si tendeva di brividi. E ovunque, occhi che la seguivano. Alcuni avidi, altri estasiati. Ma nessuno poteva distogliere lo sguardo.
Sotto il vestito, il body lucido nero stringeva e metteva in risalto ogni curva, ogni tensione. Quando le mani scivolarono sulle spalle e giù, fino ai fianchi, il miniabito si arrese. Cadde lentamente, come un segreto rivelato troppo in fretta.
Un urlo. Un altro boato.
Il corpo di Princy ora brillava sotto i fari, la pelle avvolta nel vinile nero che sembrava disegnato sul desiderio. Il seno, le cosce, il ventre: tutto danzava insieme al ritmo, e all’ovetto che Lorena, da lontano, continuava a comandare.
Princy non ballava più. Si offriva. Si lasciava amare da una folla che non la conosceva, ma che la voleva intera.
E quando, con le gambe divaricate e il ventre inarcato, si piegò in avanti lasciando che il seno sfuggisse alle coppe, si sentì libera. Un grido le uscì dalla gola, e non era paura.
Era godimento.
Lorena, in fondo alla sala, sorrideva. Aveva appena aumentato la vibrazione.
E la pioggia viola cadeva, dentro e fuori dal suo corpo.
Un urlo esplose dalla platea.
«Troia!»
Altri lo seguirono.
«Guarda che figa!»
«Nuda! Nuda!»
«Guardate le tette, Dio!»
«Si sta bagnando!»
E lei si stava bagnando davvero. Non c’era più nulla da nascondere. Il body aderente, lucido, segnava ogni fremito del corpo. L’ovetto dentro di lei aveva cambiato marcia, ora pulsava in sincronia con il basso della musica, ma sembrava anche conoscere i suoi respiri. Ogni volta che cercava di riprendere fiato, un altro spasmo la attraversava.
Un movimento, uno solo, e il pubblico si incendiava. Quando si chinava, qualcuno si alzava in piedi. Quando apriva le gambe, le urla diventavano gemiti collettivi. Alcuni si toccavano sotto i tavoli. Altri stringevano i bicchieri con le dita tremanti. Qualcuno le mandava baci. Ma lei non li vedeva più. Ballava solo per una persona. Lorena.
Il suo sguardo era lì, fisso, gelido e caldo insieme. Con il telefono in mano e un sorriso appena accennato. Bastava un tocco sullo schermo, e il piacere si accendeva. Bastava un secondo tocco, e lei si piegava in due, le cosce tese, la testa all’indietro.
Un nuovo boato si sollevò dalla sala, ma stavolta fu più cupo, viscerale. La folla premeva contro il bordo del palco, i volti deformati dal desiderio, le bocche urlavano oscenità come mantra.
Lorena apparve da dietro le quinte.
Nessuno la notò subito. Ma lei camminava come un predatore, sicura, magnetica. Raggiunse Princy che ancora si dimenava sulla musica, il corpo bagnato di sudore e luce. Le si mise alle spalle, vicinissima, senza dir nulla. Poi la prese per i fianchi, la immobilizzò con forza e — senza preavviso — le afferrò il bordo del body.
Un solo gesto. Deciso. Violento.
Il vinile nero scricchiolò sotto le mani di Lorena e si abbassò di scatto, liberando tutto. Il seno nudo, il ventre teso, il sesso già umido e gonfio rimasero esposti, attraversati dai fasci di luce. Il pubblico esplose.
«Nudaaa!»
«Guarda che troia!»
«Faccela squirtare!»
Ma fu l’ovetto, comandato con perfida maestria, a colpire in quel preciso istante.
Lorena lo aveva portato alla massima intensità.
Princy urlò. Un urlo vero, da animale in estasi, mentre il corpo si inarcava all’indietro, schiacciato contro la padrona, le mani che tremavano a vuoto nell’aria. Le gambe crollarono. Si piegò sulle ginocchia e un getto improvviso e potente le sfuggì dal corpo, attraversandola con una forza devastante.
Squirtò come una fontana sotto gli occhi di tutti.
Un orgasmo violento, viscerale, che la fece tremare e piangere mentre la folla diventava delirio. Alcuni batterono i pugni sui tavoli, altri urlarono il suo nome. Ma lei non sentiva più nulla, solo la pelle di Lorena contro la schiena e il suo respiro calmo che le sussurrava all’orecchio:
Dietro le quinte, la musica si spense. Solo il boato della folla restava, ovattato, lontano, come un’eco che batteva contro le pareti nere. Princy tremava, ancora con il corpo scosso da spasmi residui, gambe molli, le mani che cercavano qualcosa a cui aggrapparsi e trovavano solo l’aria.
Loren, come una madre e una padrona insieme. Le fu accanto in un istante. Non disse nulla. La osservò, nuda, lucida, consumata dal piacere e dalla vergogna, o forse solo dalla verità.
Poi la sollevò. Con una facilità innaturale, la prese tra le braccia e la strinse contro di sé. Le mani le accarezzavano i capelli sudati, le cosce tese, la schiena che ancora vibrava. La portava via, ma non in fuga. La portava con sé.
Princy si rannicchiò contro il suo petto, piccola, docile, le braccia strette intorno al collo dell’unica persona che sapesse contenerla davvero.
Lorena sorrise.
La cullava, dolcemente, passo dopo passo nel corridoio buio, mentre la folla là fuori continuava a urlare il suo nome senza saperlo nemmeno pronunciare.
E poi, con voce bassa, calda, infilata direttamente nell’anima, le sussurrò all’orecchio:
«Chissà dove potremo arrivare noi due.»
Princy chiuse gli occhi.
E per la prima volta, si sentì davvero sua.

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scritto il
2025-09-05
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