Princy e Lorena 3^ Parte

di
genere
dominazione

Il corpo di Princy era ancora scosso da fremiti profondi, una stanchezza dolce le appesantiva le palpebre, ma Lorena non la lasciava andare. Le aveva fatto spazio nella doccia, le aveva lavato via il sudore, il trucco colato, le tracce del piacere violento che si era lasciata strappare sul palco. Ogni gesto era stato lento, preciso. L’acqua calda scorreva come una carezza continua, mentre Lorena, nuda accanto a lei, la insaponava e risciacquava come si fa con qualcosa di prezioso. Nessuna parola, solo le mani, lo sguardo, il respiro.
Uscite dal bagno, Lorena la tamponò con l’asciugamano, poi si chinò per aprire una sacca nera poggiata sulla sedia. Ne tirò fuori della biancheria fresca: un tanga nuovo, sottile, nero. Le sollevò le gambe una per volta, glielo fece scivolare lungo le cosce e poi aderire con precisione sul pube. Poi prese un vestito leggerissimo, nero anche quello, semplice, corto, senza maniche. Glielo infilò da sopra, le sistemò i capelli ancora umidi, le strinse le spalline sulle spalle ossute.
Le mise ai piedi dei sandali bassi, comodi, poi raccolse tutto quello che restava nella stanza — l’abito di scena, le autoreggenti arrotolate, il profumo di pubblico ancora sulle cuciture — e lo chiuse nella sacca. Solo allora si rivestì anche lei, con lentezza: pantaloni attillati, canottiera, giacca nera. Non serviva altro.
«Andiamo» disse semplicemente.
Fuori, nel parcheggio sul retro del Privé, la Mini rossa attendeva come una bestiola fedele. Lorena aprì la portiera del passeggero, aiutò Princy a sedersi. Il sedile era tiepido. L’interno profumava di cuoio e di un'essenza sottile, floreale, che sembrava scelta proprio per lei. Chiuse la portiera con un gesto calmo, salì al posto di guida e fece scattare la chiusura centralizzata.
Solo allora si voltò verso di lei. Il volto era illuminato dalla luce del cruscotto, gli occhi intensi, fissi.
«Sei stata perfetta. Hai dato tutto.»
Frugò nella tasca interna della giacca, estrasse un blister sottile, ne fece scivolare fuori una pastiglia.
«Ora però devi dormire. Prendila. Ti farà dormire come una bambina.»
Princy, senza dire una parola, aprì la bocca. Sentì la compressa sulla lingua, l’inghiottì senza acqua. Poi chiuse gli occhi, poggiò la testa sul vetro, il respiro cominciò a rallentare. Lorena le accarezzò la coscia con il dorso della mano.
«Domani ricominceremo. Da dove voglio io.»
Poi mise in moto.
La prima sensazione fu il freddo. Un freddo irreale, sottile, non tanto sulla pelle quanto dentro il petto, tra le costole, là dove il respiro si era fermato. Poi, lentamente, la percezione del corpo. Le braccia tese, doloranti. I polsi serrati. Le gambe divaricate, sospese, immobilizzate da cinghie strette che scavavano nella carne. La schiena poggiata su una superficie rigida e inclinata. Il cuore, incerto, ricominciava a battere.
Princy aprì gli occhi. La luce la colpì in pieno viso, abbagliante, senza pietà. Davanti a lei, nulla. Solo il vuoto. Non un volto. Non un oggetto. Solo quella chiazza bianca che annientava ogni contorno. Tentò di muovere un braccio, ma le cinghie la tennero ferma. Si voltò appena col capo, cercando di capire, ma anche il collo era prigioniero. Il vinile lucido del body le aderiva come una seconda pelle, l’unica cosa che la separava dalla totale nudità. Sentiva il materiale tirare sul petto ogni volta che respirava, come se non le fosse concesso neppure di inspirare a fondo. Il girocollo la costringeva a mantenere il mento alto, quasi in atteggiamento di sfida, ma lei non stava sfidando nessuno. Era solo esposta. Offerta.
Poi arrivò il suono. Lieve, come un’eco ovattata: il rumore dei suoi stessi tacchi sul legno. Lorena. Stava camminando lentamente intorno alla pedana. I passi erano misurati, precisi, come il ticchettio di un metronomo. Princy non poteva vederla, ma la sentiva avvicinarsi. La luce tagliava l’aria, isolando la pedana dal resto del mondo. Era in un’altra dimensione, un altare nero da cui non si fuggiva.
Lorena entrò nel cono di luce. I capelli sciolti le cadevano sulle spalle come un sipario dorato, in contrasto con la pelle chiara e i lineamenti scolpiti dal trucco. Il corsetto le stringeva il punto vita con una ferocia elegante, le gambe fasciate nel vinile sembravano scolpite. Le mani, coperte da lunghi guanti, si muovevano lente lungo i fianchi. Non parlava. Non c’era bisogno. Era il centro di gravità di quella stanza senza pareti.
Si fermò davanti a Princy. La osservò in silenzio. Gli occhi di lei si agitarono, cercando un appiglio, ma trovarono solo lo sguardo della donna che l’aveva legata, preparata, portata lì come una creatura sacrificale e adorata insieme.
Lorena sollevò una mano e con due dita le accarezzò una guancia. Il trucco era ancora perfetto, ma già lucido di sudore. Le labbra tinte, le ciglia folte, il viso tirato come una maschera di porcellana.
«Ben svegliata, mia bella prigioniera…» sussurrò. La voce era morbida, quasi premurosa, ma ogni sillaba era ferro e velluto. «Sai dove sei?»
Princy deglutì. Sentiva la saliva scendere faticosamente in gola. Provò a parlare, ma non ci riuscì. Le corde vocali sembravano immobili, come il resto del corpo. Lorena le sfiorò il mento, poi la zip del body, ne seguì la linea con l’indice fino all’ombelico.
«Non serve parlare. Stasera parlerai in altri modi.»
Si voltò di lato, lentamente, lasciandole scorgere lo specchio che rifletteva tutta la scena: la croce, la pelle, il vinile, le autoreggenti. I piedi nudi, immobili, vulnerabili. Princy si vide intera, per la prima volta. Il pubblico non si vedeva, ma lo sentiva. Il loro respiro sommesso. Il lieve fruscio di qualcuno che si sposta. L’attesa.
Lorena tornò davanti a lei. Un sorrisetto appena accennato le curvò le labbra.
«Inizia la tua consacrazione.»
Lorena non aveva fretta. I suoi passi erano misurati, lenti, come se il tempo stesso si fosse arreso a lei. Camminò intorno alla croce, osservando il corpo esposto di Princy con la stessa calma di chi contempla un’opera non ancora finita. Il vinile lucido del body rifletteva le luci dei faretti, accentuando la curva dei fianchi, la tensione del busto, le linee perfette delle gambe strette nelle autoreggenti.
Si fermò di fronte a lei. Le mani guantate si alzarono come in un rito, e con i polpastrelli nascosti sotto il raso cominciò a sfiorarla, piano. Seguí la curva del collo, la linea tra le clavicole, poi si abbassò lentamente sul seno, accarezzando il vinile teso sopra le coppe. Il materiale scricchiolava leggermente sotto la pressione delle dita, e Princy sentì quel rumore come se le risuonasse dentro. Ogni contatto era freddo e pungente, ma lasciava dietro di sé una scia calda, come una bruciatura sottile che saliva dalla pelle al cuore.
Lorena non parlava. Le dita tracciavano cerchi, salivano, scendevano. Si fermavano sull’ombelico, sulle costole, sfioravano i lati del seno senza mai premerlo. Poi tornarono su, lentamente, e si posarono sulle labbra. Un solo dito a disegnarne i contorni, morbido e preciso, come se stesse leggendo un messaggio segreto scritto nella carne.
Princy ansimava a piccoli colpi. Il respiro breve, trattenuto, quasi colpevole. Il trucco cominciava a cedere: una goccia scura le scese dall’angolo dell’occhio, disegnando una linea obliqua sulla guancia.
Lorena si chinò, il viso vicino al suo, la voce calda e ruvida come velluto bruciato.
«Così bella… così mia.»
Poi, con un gesto calmo e definitivo, abbassò lo sguardo. Portò una mano alla zip del body, là dove partiva dal collo. Le dita si posarono sul cursore. Nessuno parlava. Il pubblico taceva, ma si percepiva il fremito collettivo, il respiro trattenuto di decine di persone invisibili.
Lorena tirò la zip lentamente. Il suono del metallo che scorreva spezzava il silenzio come un morso. Scese fino allo sterno, poi oltre, oltre ancora. Il vinile si apriva in un sorriso nero, svelando la pelle chiara e tesa del ventre, l’arco dolce dell’ombelico, la curva dove cominciava il pube, nuda, liscia, offerta.
La pelle nuda tremava. Il respiro di Princy si fece più irregolare, quasi soffocato. Gli occhi spalancati, lucidi, cercavano un punto d’appoggio, ma trovavano solo lo specchio, la sua immagine inchiodata e indifesa.
Lorena non andò oltre. Lasciò la zip aperta fino al limite, senza scoprire nulla di più. Appoggiò un palmo aperto sul ventre scoperto, lo tenne lì un istante, ferma, come a dire: qui comincerà tutto.
Lorena si voltò di nuovo verso il pubblico invisibile. Per la prima volta, si rivolse a loro. Sollevò lentamente le braccia, con gesto ampio e sicuro, come un direttore d’orchestra pronto a dare il via al primo movimento.
«Signore e signori…» disse con voce ferma, tagliente, che rimbalzò sulle pareti di velluto e sembrò assorbirsi nella pelle. «Vi chiedo un applauso per lei. Per Princy.»
La frase si fermò nel vuoto per un secondo. Poi esplose.
Lo scroscio fu improvviso, fragoroso, un'onda di suono che investì la pedana come una scarica elettrica. Le mani battevano forti, convinte, senza pudore. Alcuni fischi, poche urla spezzate da risate basse, ma soprattutto il battito secco e insistente di almeno trenta persone che applaudivano la donna inchiodata alla croce.
Princy sussultò. Il rumore la colpì in pieno petto, come uno schiaffo. Le guance arsero. Il respiro si spezzò in un singhiozzo corto. Tutto il corpo si irrigidì nelle cinghie. Non c’era più solo luce. Non c’era solo Lorena. C’erano loro. I presenti. Gli spettatori. I testimoni.
La stavano guardando. Giudicando. Desiderando.
Il trucco le colava sulle tempie, sulla bocca. Una goccia scura scese lungo il profilo del naso e si fermò sul labbro superiore. Non osava chiudere gli occhi. Lo specchio rifletteva la sua vergogna, il suo corpo semiaperto, la sua anima svuotata. Era lì per loro.
Lorena aprì lo sportello del mobiletto lentamente, come si apre un piccolo altare. Le dita guantate si muovevano con familiarità tra oggetti di ogni tipo, ma non esitò: sapeva esattamente cosa cercava. Quando si voltò verso Princy, nella sua mano brillava un rasoio da barbiere, di quelli antichi, eleganti, con il manico nero lucido e la lama in acciaio ben affilata.
Lo sollevò a mezz’aria, poi ne aprì lentamente il braccio, facendolo scattare con un gesto netto e silenzioso. La lama brillò un istante sotto i faretti, riflettendo il volto stravolto di Princy nel suo metallo. Il pubblico trattenne il fiato, ma nessuno osò emettere un suono.
Lorena si avvicinò con lentezza, il rasoio sospeso tra pollice e indice. Le passò una mano sulla guancia per tenerle fermo il viso, poi portò la lama a sfiorarle la pelle, appena sotto l’orecchio. Non tagliò. Solo il freddo dell’acciaio sulla carne. Un brivido improvviso fece fremere Princy, ma le cinghie la tennero ferma. Il respiro si spezzò.
Lorena sorrise.
«Questa sera» disse piano, con voce profonda, «toccherai il fondo… e il paradiso.»
La lama scese lenta lungo il collo, attraversò la clavicola, accarezzò il contorno di un seno, poi l’altro. Ogni movimento era controllato, studiato, millimetrico. Le sfiorò i capezzoli eretti, tesi, vibranti sotto la carezza gelida del metallo. Princy trattenne un gemito, un suono che morì in gola come una preghiera strozzata.
Lorena continuò a parlare.
«Ti renderò mia. Ti spezzerò con dolcezza. Ti spoglierò della paura, del pudore, dell’orgoglio. E se solo proverai a sottrarti, se penserai di non essere degna…»
Il rasoio scese ancora, passando tra i seni, disegnando un solco lungo il ventre nudo e tremante, fino al pube esposto dal body aperto. Lorena si fermò lì, la lama a un soffio dalla carne più vulnerabile, ma senza toccarla.
«Ti darò in pasto a tutti gli uomini presenti. Farò di te un dono pubblico. Ti venderò al migliore offerente come si fa con la carne pregiata. E tu, amore mio… ringrazierai.»
Poi, in un ultimo gesto lento, risalì col rasoio fino all’ombelico, lo tenne sollevato tra loro come un trofeo rituale.
Non lo chiuse.
Non lo ripose.
Le dita glielo accarezzavano ancora, ferme, affettuose, come se fosse un’estensione del proprio corpo.
«Ma se sarai brava, piccola Princy… io ti porterò via. E nessuno potrà più toccarti.»
Fece un passo indietro, il rasoio ancora aperto, lucido, vivo. La lama rifletteva la luce tremante, sfiorava l’aria. La osservò.
Le lacrime si mischiavano al trucco che ormai colava senza pudore, i capezzoli duri, la pelle d’oca, i piedi nudi, il respiro spezzato. Tutto in lei tremava. Di terrore. Di eccitazione. Di vergogna. Di desiderio.
Il pubblico taceva, ipnotizzato.
Lorena sollevò la lama a pochi centimetri dal busto di Princy e la inclinò, con lentezza.
Solo allora parlò.
«Ora… vediamo cosa c’è davvero sotto questa pelle lucida.»
Lorena sollevò di nuovo la lama, la fece ruotare tra le dita con eleganza crudele, poi si avvicinò. Non c’era fretta, non c’erano gesti superflui. Si chinò, e con la mano libera agganciò appena il bordo del vinile sul petto, lì dove la zip si era già aperta fino al pube. Il materiale tese un respiro, quasi volesse opporsi. La lama entrò.
Il primo suono fu secco, netto: crac.
Princy sussultò. Non era dolore. Era qualcosa di più sottile. Il rumore del vinile che si tagliava vibrava sulla sua pelle come un filo sottile di elettricità. Il materiale non cedeva subito: si apriva con una resistenza viva, come se anche lui volesse restare. E invece no. Lorena premeva piano, con la lama affilata che tracciava il suo cammino millimetro dopo millimetro, tra il seno e il ventre, facendole sentire ogni singolo secondo del distacco.
Il vinile si apriva come pelle morta.
Il suono sfrigolava nell’aria, simile a quello di una ferita che si apre, e insieme a ogni taglio, Princy sentiva qualcosa in lei staccarsi. Ogni centimetro che cadeva era una parte che non serviva più, un involucro, una difesa, un’illusione.
Lorena non parlava. Solo il respiro di Princy, sempre più affannato, e il suono della lama sul materiale riempivano lo spazio. Il rasoio scivolava lungo il busto, accarezzava la curva del fianco sinistro, poi quella del destro. Con pazienza, tagliò anche le bretelle. Il vinile cominciò a cedere, a staccarsi dal corpo, a penzolare come un serpente scorticato. Il seno nudo si liberò, alto, teso, segnato dalla pressione della stoffa e dalla tensione. I capezzoli, scurissimi, duri, pulsavano.
Lorena continuava. Ora la lama scendeva sul fianco, tagliava uno dei lembi inferiori del body, arrivava sul dorso, poi si spostava sull’altro lato. Ogni gesto era preciso, chirurgico, ma carico di qualcosa che non era semplice efficienza. Era intimità. Era potere. Era amore malato e totale.
Quando l’ultimo lembo cadde, lasciando solo le autoreggenti, Princy rimase nuda, con pezzi di vinile che pendevano ancora dalle cinghie, come ali strappate. Il corpo lucido di sudore, le guance rigate dal trucco disfatto, la bocca socchiusa, gli occhi larghi. Tremava. Ma non piangeva più.
Lorena gettò i frammenti del body ai piedi della croce, come una pelle offerta in sacrificio. Poi si chinò e le sfiorò il ventre con la lama, stavolta senza tagliare.
«Benvenuta, creatura nuova.»
E fece un passo indietro.
Il corpo nudo di Princy brillava sotto i faretti, una scultura viva trafitta dalla luce. La pelle respirava finalmente libera, ma l’aria sembrava troppo fredda, troppo nuda. I lembi di vinile tagliati giacevano ai suoi piedi come vestiti dimenticati da una vita precedente. Le cinghie ancora tese, i polsi arrossati, i piedi nudi poggiati appena sui supporti della croce, le gambe aperte, le cosce che tremavano per lo sforzo e per la vergogna.
Lorena non si era allontanata del tutto. La osservava. Il rasoio ancora aperto nella mano destra, come un’estensione della sua volontà. Si avvicinò ancora di un passo, chinò appena il capo e le si avvicinò all’orecchio.
La voce fu un soffio. Calda, feroce, inevitabile.
«Ma ogni nascita… deriva dal dolore.»
Poi si raddrizzò.
Si voltò verso il mobiletto.
La sala restò sospesa. Il pubblico trattenne il respiro.
E Princy capì che il vero inizio… era adesso.
Lorena restava in piedi, immobile, come se stesse osservando un’opera ancora incompleta. Il rasoio ancora aperto scintillava nella sua mano destra. Scese lentamente lo sguardo lungo il corpo di Princy, ora nudo tranne che per le autoreggenti nere. La luce radente metteva in risalto ogni tremolio muscolare, ogni goccia di sudore, ogni respiro affannoso che sollevava appena il seno.
Poi si mosse. Con lentezza assoluta si inginocchiò ai piedi della croce. Un gesto umile, sì, ma solo in apparenza. La posizione le permetteva di avere il massimo controllo. Gli occhi erano a livello delle ginocchia di Princy, le mani sfioravano appena le cinghie che bloccavano le caviglie. Con il rasoio tra le dita, Lorena inclinò la lama lateralmente, accarezzandola piano sul bordo delle autoreggenti, lì dove terminavano appena sopra il tallone. Nessuna pressione, solo un tocco annunciato.
«Copri tutto tranne ciò che è più vulnerabile…» sussurrò. «Ma io voglio tutto.»
Poi, senza cambiare tono, affondò la lama.
Il tessuto cedette con un suono lieve, quasi un fruscio. Il primo taglio seguì la curva del tallone, poi risalì lungo l’arco del piede, fino a liberare le dita, una a una. Il piede nudo apparve, umido, sensibile, quasi imbarazzato nella sua esposizione. Lorena ripeté l’operazione con l’altro piede, tagliando con la stessa lentezza, lasciando che la stoffa si arrotolasse su sé stessa e cadesse a terra come un serpente svuotato. Ora entrambi i piedi erano completamente nudi, legati ma esposti, caldi di paura e di vergogna.
Lorena si alzò, andò al mobiletto e prese una bacchetta di legno lucido, lunga quanto un avambraccio, sottile, elegante. La passò tra le dita, assaporandone il peso. Tornò a inginocchiarsi.
Sollevò la bacchetta e la fece scivolare piano sotto la pianta del piede destro, solo sfiorandola. Princy sobbalzò, un riflesso involontario. Il piede cercò di ritrarsi, ma non c’era spazio. Le cinghie la tenevano ferma. Lorena sorrise.
«Se i tuoi piedi hanno camminato senza guida… ora impareranno.»
E colpì.
Il primo tocco fu deciso, ma non forte. Un suono secco, sottile, come una virgola nella pelle. Il piede si contrasse, le dita si arricciarono. Il secondo colpo seguì l’arco. Il terzo colpì appena sotto le dita. Poi passò all’altro piede. Ogni colpo era preciso, mirato, non per ferire ma per risvegliare.
Princy ansimava, il volto piegato da una smorfia. Il trucco continuava a colare. Lacrime? Sudore? Umiliazione? Nessuno poteva dirlo. Ma il suo respiro diceva tutto: stava cominciando a cedere.
Lorena si fermò. Passò la punta della bacchetta tra le dita appena colpite, lentamente, come una carezza dopo la punizione. Poi si chinò e baciò il collo del piede sinistro, piano, con le labbra morbide.
Lorena non si alzò subito. Restò ancora inginocchiata, il viso all’altezza del bacino di Princy, osservandola con attenzione chirurgica. Il vinile era stato strappato via, non c’era più alcun tessuto a coprire la pelle. Le cosce aperte, tese dalle cinghie, esponevano ogni dettaglio della sua intimità, senza più nessun filtro.
Fu allora che lo notò.
Una goccia di umidità brillava tra le pieghe gonfie della carne, scivolava lentamente lungo la curva interna di una coscia, trattenuta solo dalla tensione del muscolo. Non c’era bisogno di sfiorarla. L’evidenza era lì, viva, pulsante.
Lorena sorrise, piegando appena il capo.
Sollevò lo sguardo verso il volto di Princy, che tremava visibilmente. Il trucco le colava sulle guance, le labbra dischiuse, il petto che si sollevava a ondate brevi e irregolari.
«Guarda un po’...» sussurrò. La voce si posò sulla pelle come una lama affilata. «Hai già la figa bagnata, troietta.»
Non c’era rabbia. Non c’era insulto. Solo constatazione. Un’ammissione pronunciata ad alta voce, davanti a chiunque fosse in ascolto. Una verità che Princy non poteva più nascondere.
Lorena si alzò con lentezza, la bacchetta ancora in mano, il corpo davanti a lei era nudo, esposto, eccitato, prigioniero e desideroso.
Lorena si fermò un istante davanti a Princy, la bacchetta tra le dita come un pennello sottile pronto a scrivere un nuovo capitolo sulla sua pelle. I piedi erano già nudi, segnati, ma ora era il centro che la interessava. Le gambe divaricate, tese dalle cinghie, lasciavano scoperto tutto. L’interno coscia era liscio, teso, nervoso. Vibrava ad ogni respiro.
Lorena sollevò la bacchetta.
Il primo colpo arrivò lieve, quasi un tocco.
Poi un altro, e un altro ancora.
Colpiva sempre nello stesso punto, a sinistra, poi a destra. Il rumore era secco, simile a quello del legno che rompe l’aria. I muscoli di Princy si contraevano a ogni colpo. Le cosce cominciavano a colorarsi di rosso, la pelle a scaldarsi. Non gridava. Ma il respiro era diventato ansimante, irregolare. Il busto oscillava leggermente, le braccia tese sulla croce tremavano.
Lorena contava dentro di sé, calibrava ogni colpo come si accorda uno strumento.
Poi si fermò.
Fece scivolare lentamente la bacchetta verso l’alto, accarezzando la pelle martoriata. La punta si posò tra le gambe, nel punto più umido. Senza toccare, rimase lì sospesa.
Princy trasalì. Il fiato si spezzò in gola.
Lorena si chinò di poco, e parlò a voce bassissima, a pochi centimetri dal ventre esposto.
«Quando il corpo disobbedisce… va corretto.»
E senza alcun preavviso, colpì.
Un colpo secco, preciso, violento. La bacchetta si abbatté sulle grandi labbra, facendole vibrare sotto l’urto improvviso. Il suono fu diverso, più profondo, umido. Princy gemette, forte, per la prima volta. Un lamento che si confuse con un singhiozzo.
Lorena la osservò. Il trucco ora era distrutto: le lacrime avevano disegnato linee spezzate sulle guance, le ciglia appiccicate, il rossetto sciolto agli angoli della bocca.
La bacchetta rimase puntata tra le gambe, immobile.




Lorena non si mosse subito. Restò a guardarla per qualche istante, con la bacchetta ancora puntata tra le gambe. Il corpo di Princy era tutto un tremore muto: le cosce arrossate, la pelle perlata di sudore, la vulva pulsante, appena percossa. Ma fu il volto a catturare la sua attenzione. Non per debolezza, ma per estetica. Quel viso che pochi minuti prima era una maschera impeccabile, ora era un campo devastato.
Il trucco colato aveva tracciato linee spezzate sotto gli occhi. Il rossetto era sciolto in sbavature stanche. C’era qualcosa di fragile, bellissimo, profondamente vero in quel volto. Ma anche… sporco.
Lorena si voltò, con un gesto calmo, e andò al mobiletto. Questa volta non prese strumenti di tortura, né lacci, né ferri. Estrasse una spugna naturale, grande, morbida, ancora umida d’acqua tiepida. La strinse tra le mani per toglierle l’eccesso, poi tornò accanto a Princy, che non osava parlare.
Le sollevò il mento con due dita. Lo fece con cura, senza premere.
Poi, con la spugna, cominciò a detergerle il viso.
Iniziò dalle guance, lente passate circolari, che cancellavano il nero delle lacrime miste a mascara. Poi passò sugli zigomi, sul naso, sulla fronte. Puliva ogni traccia con scrupolo assoluto, quasi religioso. Non parlava. Non sorrideva. Ma i suoi occhi erano colmi di qualcosa che assomigliava alla tenerezza più pura.
Quando arrivò alle labbra, si fermò. Le osservò: gonfie, sbavate, aperte.
Le sfiorò con la spugna con un tocco quasi impercettibile.
Poi si chinò, le baciò la fronte, appena.
Un bacio reale. Caldo. Sincero. Disarmante.
Lorena tornò davanti a lei con un passo misurato, il volto impassibile, la bacchetta ancora in mano. Princy era appesa alla croce, completamente nuda, la pelle lucida, i muscoli scossi da piccoli tremiti involontari. Il viso, ora deterso, non era più una maschera ma una tela fragile, gli occhi lucidi, aperti, pieni di paura e bisogno.
Lorena si inginocchiò di nuovo.
Questa volta non c’erano cerimonie. Nessuna lentezza decorativa. Solo attenzione, precisione. Sollevò la bacchetta e la fece scivolare tra le gambe di Princy, fino a sfiorarle la vulva. Non colpì. Non premette.
Solo sfiorava. Disegnava contorni. Tracciava linee invisibili lungo le labbra gonfie, tra le pieghe umide. Ogni passaggio della punta le strappava un sussulto. Un fremito interno che partiva dal bacino e si irradiava in alto, ai polsi, alle spalle, al collo.
Lorena la guardava in volto mentre lo faceva. Ogni movimento della bacchetta era sincronizzato con il respiro di Princy. Quando lei tratteneva l’aria, Lorena si fermava. Quando esalava, ricominciava.
Poi parlò. Senza mutare tono.
«Questo è tutto tuo. Ma ora è mio.»
La bacchetta sfiorò il clitoride una sola volta, dall’alto in basso.
«Ogni tuo brivido è mio. Ogni goccia. Ogni spasmo. Ogni gemito che trattieni.»
Sfiorò di nuovo, più lentamente.
«Non ti farò godere. Ma ti farò supplicare.»
Poi, con un gesto calmo, posò la bacchetta e usò le dita. Le accarezzò il pube con il dorso, con delicatezza sorprendente, come si fa con qualcosa di prezioso. Poi fece scivolare l’indice lungo la fessura, dividendo le labbra, aprendo appena, senza entrare. Princy gemette piano, un suono spezzato, come se avesse cercato di fermarlo a metà.
Lorena le sollevò il mento con la mano libera.
«Sai che non puoi chiedermelo. Non ancora. Ma il tuo corpo lo sta facendo al posto tuo.»
Poi si abbassò, e con la lingua le leccò una goccia che colava lungo l’interno coscia. Un solo gesto, rapido, umiliante, che cancellò ogni resistenza.
Si rialzò, raccolse la bacchetta, e si voltò.
Lorena si avvicinò al mobiletto e aprì uno scomparto secondario, più stretto. Dentro, ordinati come strumenti chirurgici, c’erano diversi tipi di pinzette in metallo. Ne prese due. Lunghe, sottili, a molla. La punta era rivestita da un cuscinetto nero in gomma dura. Il centro era collegato da una catena leggera, sottile come un gioiello.
Si voltò, tornò da lei con passo sicuro.
Princy, ancora sospesa alla croce, tremava. Le gambe divaricate, la vulva completamente esposta, ancora lucida di eccitazione trattenuta. Lorena si inginocchiò di nuovo. Posò la catena sul palmo della mano, la fece tintinnare appena.
«Hai mostrato troppo, troppo presto. Ti sei bagnata come una cagna in calore, e io ti avevo appena toccata.»
Le accarezzò l’interno coscia con il dorso della mano. «Ora lo vedranno tutti. Così. Così come sei.»
E senza altro preavviso, applicò la prima pinzetta sulla labbra sinistra.
Princy sobbalzò. Non un urlo, ma un guaito trattenuto, secco. Il metallo chiuse il lembo carnoso con una stretta viva, precisa, bruciante. Lorena non le diede tempo.
«Ferma. Non ti muovere. Se contrai, fa più male. Se tremi, si strappa.»
La seconda pinzetta arrivò subito dopo, sulla labbra destra. Ora la catena pendeva tra le due, tenendole separate, spalancando la fessura, esponendola in modo innaturale, forzato, ineluttabile. Lorena la osservò. Gli occhi di Princy erano spalancati, lucidi. Il respiro breve, colmo di vergogna e desiderio.
«Ti piace, vero? Guardati. Guarda come sei messa. Apri bene le orecchie, troietta, perché non lo dirò due volte: questo è il tuo corpo. Così dev’essere. Così si mostra. Così si prende.»
Poi tirò leggermente la catena. Non abbastanza per strapparla, ma per farle sentire il morso delle pinzette tirare la carne. Princy gemette forte, la schiena si inarcò contro il legno.
Lorena rise piano.
«Brava. Senti come tira. Senti come ti brucia. È il tuo corpo che canta.»
E poi, senza preavviso, con un movimento rapido e deciso, strappò via le due pinzette insieme, spezzando la morsa con un clac secco, metallico.
Il dolore fu acuto. Un colpo di frusta puntuale. Ma durò un attimo solo.
Poi accadde.
Il respiro di Princy si bloccò, gli occhi si spalancarono nel vuoto, il busto si tese come una corda. Il piacere, represso troppo a lungo, esplose. Il corpo fu scosso da un orgasmo improvviso, incontrollabile, violento, che partì dalla vulva e le attraversò l’addome, il petto, le braccia. Un urlo breve, gutturale, le sfuggì dalle labbra. Il liquido le colò giù dalle cosce, tiepido, visibile, inconfondibile.
Lorena rimase inginocchiata di fronte a lei, immobile, gli occhi fissi sul suo ventre che si contraeva ancora a scatti. Le accarezzò un fianco con il dorso della mano, poi lasciò cadere a terra la catena delle pinzette, ormai inutili, come un serpente spezzato.
Si alzò in piedi, lisciandosi i guanti con un gesto calmo.
Non parlò.
Il pubblico taceva, incantato.
Lorena era ancora in piedi, a pochi passi dal corpo tremante di Princy. Il pubblico era immerso nel silenzio, un silenzio denso, carico, come prima del tuono. La bacchetta era sempre tra le sue dita. Flessibile, sottile, lucida. La sollevò alla luce, la piegò appena tra le mani. Il legno vibrò come un serpente in tensione.
Poi si mosse.
Si posizionò di lato, all’altezza del fianco destro di Princy. Il ventre era ancora contratto dai tremori dell’orgasmo, ma ora era disteso, esposto, senza difese. Lorena piegò appena il polso, caricò il colpo sfruttando l’elasticità della bacchetta, e la lasciò andare.
Tac.
Un suono secco, più sibilante dei precedenti. Il colpo atterrò due dita sotto l’ombelico, netto, incassato nella carne viva. Princy trasalì, il busto si sollevò contro la croce. Un respiro mozzato le sfuggì dalle labbra.
Lorena parlò, senza cambiare tono.
«Questo per il modo in cui hai gemuto.»
Un secondo colpo, leggermente più in alto.
Tac.
«Questo per ogni goccia che ti è scesa tra le gambe.»
Un terzo, più laterale, appena sotto la costola.
Tac.
«E questo per avermi fatto vergognare… della tua bellezza.»
Poi si spostò. Ora era di fronte a lei. Gli occhi nei suoi.
Il seno di Princy era perfettamente esposto, i capezzoli duri, gonfi, sensibili. Lorena sollevò la bacchetta, la piegò leggermente… e colpì.
Tac.
Il primo colpo colpì la base del seno sinistro, un’area morbida ma nervosa.
Il secondo, sul fianco del destro.
Poi una pausa.
Princy ansimava. Non piangeva, non urlava. Ma il corpo trasudava calore, dolore, vergogna, orgoglio ferito.
Lorena abbassò lo sguardo. Un ultimo colpo.
Tac.
Dritto sul capezzolo sinistro.
Princy sobbalzò, e per un attimo chiuse gli occhi, un guaito strozzato le uscì dalla gola. Lorena attese. Poi fece lo stesso con l’altro seno.
Ora entrambi i capezzoli erano arrossati, gonfi, sensibili, e ogni piccolo movimento di Princy faceva vibrare il dolore come un’eco.
Lorena si avvicinò alla croce senza fretta, la bacchetta ancora tra le dita, ma abbassata lungo il fianco. I colpi si erano ormai assorbiti nella pelle, ma restavano impressi sotto forma di tremori e rossori. Il corpo di Princy pendeva teso, appeso, un’offerta stremata, il petto che si sollevava ancora con fatica, le braccia tirate, i polsi segnati dalle cinghie.
Lorena portò le mani ai primi lacci. Cominciò dalle braccia.
Aprì la fibbia sinistra con gesto deciso, poi la destra. Il peso di Princy scese tutto insieme, di colpo. Le spalle cedettero, il busto oscillò. Ma non cadde.
Lorena la afferrò appena sotto le ascelle, la sostenne.
Poi, con lentezza, sciolse anche le cinghie alle caviglie. Il corpo nudo, ora completamente libero, scivolò contro il legno, le gambe piegate, le cosce arrossate, i piedi appena poggiati sul pavimento.
Princy barcollò.
Lorena non la sollevò.
La lasciò in piedi. Tremante. Esibita.
Le mise una mano sulla schiena, delicata ma ferma. E la fece girare. Un solo passo. Poi un altro.
Ora era di fronte al pubblico. Completamente nuda. I seni segnati dai colpi, i capezzoli gonfi. L’addome macchiato dal rossore, le cosce brillanti di umidità recente. I capelli incollati alla fronte, il viso deterso ma provato. Le braccia lungo i fianchi, senza forza.
Lorena fece mezzo passo indietro. Princy restava in piedi a fatica, le gambe molli, il busto ancora sollevato dallo sforzo, la pelle percorsa da scosse residue. I piedi nudi tremavano sul legno della pedana. I suoi occhi, lucidi, cercavano invano un punto dove nascondersi, ma la luce era ovunque. E ovunque, gli sguardi.
Lorena sollevò la mano. Le infilò due dita sotto il mento. Le alzò la testa.
«In piedi, piccola. Non è finita.»
Poi abbassò la mano e le prese il polso. La tirò piano. Princy fece un passo, esitante, poi un altro. Le gambe tremavano, ma si mossero. Camminava.
Nuda, arrossata, segnata.
Camminava.
La pedana sembrava immensa ora. I faretti seguivano i loro movimenti, lasciando sempre il resto del locale immerso nel buio. A pochi metri, la gogna si stagliava come un altare basso, semplice. Una struttura in legno scuro, levigata, massiccia. Tre aperture: due laterali per le braccia, una centrale per il collo. Il piano superiore era leggermente inclinato in avanti, pensato per esporre e costringere. Nessuna fuga, nessun riposo.
Lorena la fermò davanti alla struttura.
«Appoggia il ventre. Piegati. Tutto.»
Princy esitò solo un istante. Poi ubbidì. Le mani tremanti si posarono sul legno. Il busto si inclinò. Il ventre si abbassò. Il collo si avvicinò alla fessura. Era nuda, inchinata, pronta. I glutei si sollevarono appena. Le cosce si aprirono. Non c’era più nulla da proteggere.
Lorena la sistemò con precisione. Le spinse le braccia nei fori laterali. Poi abbassò con lentezza la parte superiore della struttura, facendola scendere fino a bloccarle il collo e i polsi. Il clic metallico della chiusura fu l’unico suono nella sala.
Ora Princy era in ginocchio, piegata in avanti, il busto imprigionato, il sedere sollevato e perfettamente esposto. Il volto appena visibile sotto il bordo della gogna, gli occhi persi nel vuoto.
Lorena le accarezzò i capelli, una sola volta.
Poi si allontanò di un passo, osservandola.
Lorena restava in piedi, di fronte alla struttura. Il corpo di Princy era completamente immobile, piegato in avanti, il collo e i polsi stretti nella gogna. Le scapole sporgevano sotto la pelle tesa. Il respiro era silenzioso, corto, trattenuto. Ogni muscolo parlava di resa, ma anche di tensione.
Sotto le ginocchia nude, il legno della pedana.
Lorena si voltò. Si avvicinò al mobiletto, aprì uno scomparto basso. Ne tirò fuori un cuscino spesso, rettangolare, rivestito di velluto rosso scuro. Lo prese con entrambe le mani, lo portò dietro di lei e si chinò.
Lo fece scivolare lentamente sotto le ginocchia di Princy, rialzandole un poco, con delicatezza.
Poi lo sistemò bene, premendo ai lati.
«Non ti lascerò spezzarti così in fretta» mormorò, quasi per sé.
«Non starai in ginocchio per poco tempo.»
Lorena si allontanò dalla gogna senza dire una parola. I suoi passi morbidi echeggiavano debolmente sulla pedana di legno, un ritmo tranquillo, quasi domestico. Si chinò davanti al mobiletto, ne aprì un vano basso. Prese una candela nera, spessa, infilata in un elegante supporto in ferro battuto. Sul fondo del cassetto, una scatolina di fiammiferi lunghi, con una grafica dorata in rilievo. La aprì, ne prese uno.
Tornò lentamente verso Princy.
La donna era ancora bloccata nella struttura, il busto inchinato, le braccia distese in avanti, il collo costretto nella stretta rigida. I glutei erano ben sollevati, la schiena arcuata in un’esposizione totale. Ogni tratto del corpo brillava di sudore, gli arrossamenti ancora visibili, la pelle tesa.
Lorena si fermò proprio dietro di lei. Strinse il fiammifero tra le dita, lo fece strisciare con decisione contro la scatola.
Ffffsh.
La fiamma si accese alta. Calda. Pulita.
Accese la candela.
Il primo bagliore tremolante accese la cera. Il fuoco si rifletté sulle cosce di Princy, sul suo fianco lucido, sui seni appena intravisti ai lati della gogna. L’ambra della luce rompeva il buio della sala, toccando solo loro. Tutto intorno, il pubblico taceva. Immobilizzato.
Lorena inclinò leggermente la candela, tenendola alta con una mano, e con l’altra cominciò ad accarezzare piano la parte bassa della schiena di Princy.
Poi le parlò.
La voce era morbida. Calda. Senza nessuna esitazione.
«Ora ti marchio. Non perché sei mia. Ma perché voglio che tu te lo ricordi, ogni volta che ti guarderai allo specchio. Ogni volta che qualcuno ti toccherà. Ogni volta che penserai di essere libera.»
E la prima goccia cadde.
Un piccolo punto rovente tra le scapole. Un sussulto immediato. Princy gemette piano, un suono strozzato, gutturale. Ma non si mosse. Non poteva.
Lorena non si fermò. Inclinò ancora un poco la candela.
Un’altra goccia. Poi un’altra.
Cominciò a tracciare una linea lenta, dal centro della schiena verso il basso, fino alla curva dei reni, poi sul solco tra i glutei, senza ancora toccare le zone più intime.
Ogni goccia colava come un morso di sole, lento, spietato, preciso.
Ogni scatto della pelle, ogni fremito, ogni smorfia del viso — erano parte del disegno.
«Brava» sussurrò Lorena, senza fermarsi.
«Non gridare. Non chiedere. Sentilo tutto.»
Poi si spostò un poco a sinistra.
Una goccia colpì la natica.
Un’altra seguì il contorno del gluteo.
Poi tornò al centro.
Infine, una goccia cadde proprio alla base della schiena, sopra il solco dei fianchi. Princy trasalì visibilmente, il fiato le uscì dai polmoni come un soffio lungo. Le ginocchia tremarono sul cuscino, ma restarono salde.
Lorena si raddrizzò. Soffiò lentamente sulla fiamma.
La candela si spense.
Il fumo salì nell’aria, una spirale odorosa di miele e ferro.
Le gocce sulla pelle si stavano già raffreddando, ma il calore rimaneva dentro.
Come un’impronta.
Lorena osservò il corpo davanti a sé.
Poi si chinò, con lentezza.
Le leccò una sola goccia dalla schiena.
E sorrise.
Il silenzio nella sala era quasi ipnotico. La cera aveva lasciato il suo disegno opaco sulla pelle, ormai freddo al tatto ma ancora vivo sotto. Le gocce brillavano alla luce, come piccole gemme fuse sul corpo. Il busto, bloccato nella gogna, si muoveva appena, a scatti, mentre il respiro si faceva più corto. I seni, abbandonati in avanti, pendevano pesanti, tesi, ancora arrossati dai colpi di poco prima.
Lorena tornò al mobiletto. Le dita, lente, cercarono tra gli strumenti. Scelse due pinzette metalliche, sottili ma dotate di piccoli anelli per l’aggancio dei pesi. E, accanto, due capsule nere, piccole, eleganti, che vibravano a comando. Le sistemò su un vassoio scuro, e tornò al centro della pedana.
Si chinò, lentamente.
Il primo capezzolo era turgido, scuro, leggermente arrossato. Lo sfiorò appena con l’indice, e la reazione fu immediata: un fremito. Un riflesso di chiusura. La schiena cercò di ritrarsi, ma il blocco al collo la tenne ferma. Le ginocchia si contrassero sul cuscino.
«No, eh?» sussurrò.
«Ora no. Dopo tutto quello che hai preso… pensi ancora di avere scelta?»
Afferò il capezzolo tra due dita, decisa. Non con forza, ma senza gentilezza. Lo tirò verso il basso, lo allungò. Una smorfia di dolore contorse il viso piegato in avanti. Le cosce si irrigidirono. Le dita delle mani si aprirono contro il legno.
«Lo senti, vero? Senti che lo stai perdendo. Il controllo. La dignità. Ogni volta che stringi i denti per non urlare, io ti sto vincendo.»
La prima pinzetta si chiuse con un clic secco.
Il capezzolo fu morso.
Il corpo sobbalzò.
Le dita cercarono subito il secondo. Ma questa volta il petto si contrasse, più forte. Un movimento di rifiuto, puro, disperato.
Lorena lo vide. E sorrise.
«No? Vuoi tenerlo per te? Vuoi tenermi fuori?»
Afferrò con forza. Il capezzolo sfuggì tra le dita. Lo strinse di nuovo, più a fondo, costringendolo. Il gemito che uscì dalla gola spezzò l’aria, sordo, rotto, sporco.
La seconda pinzetta chiuse la stretta.
Poi vennero i pesi. Due piccole sfere nere, legate agli anelli. Li lasciò cadere con precisione: il primo dondolò piano, allungando il capezzolo; il secondo lo seguì.
«Ora ti stai aprendo. Ora stai capendo.»
Poi accese le capsule.
Un suono sommesso. Una vibrazione profonda, continua.
Le agganciò agli anelli. Le sfere cominciarono a tremare. Il peso aumentò, la tensione si moltiplicò.
Il busto si inarcò, cercando di fuggire. I seni si mossero al ritmo delle vibrazioni.
Il piacere e il dolore si confusero. Le contrazioni arrivarono in basso, invisibili ma inevitabili.
Il corpo non resisteva più.
Il silenzio della sala è assoluto. Le luci restano concentrate sul corpo di lei, ancora chiuso nella gogna, le ginocchia appoggiate al cuscino che le tiene sollevate, la schiena arcuata, i seni esposti e tesi, i capezzoli ancora tormentati dal peso delle pinzette vibranti.
Alle sue spalle, il rumore di tacchi lenti.
Poi un fruscio metallico. Un oggetto cade sulla pedana con un tonfo sordo: tre strisce di cuoio nero, pesanti, arrotolate su sé stesse, si allungano piano come artigli sulla moquette nera.
— «Sai cos’è questo?» — La voce di Lorena è di nuovo dolce. Quasi materna.
Un brivido le corre lungo la schiena, ma non riesce a rispondere. La bocca è aperta, il respiro tremante.
Lorena si china, accarezza i capelli ormai appiccicati alla fronte sudata. — «Non serve che tu parli. Il tuo corpo lo fa per te.»
Poi si alza, afferra la frusta dalla base, la fa roteare una volta nell’aria: il suono è tagliente, vibrante, più spaventoso che doloroso. Serve solo a prepararla.
Il primo colpo non arriva.
La lascia in attesa.
Tre volte.
Solo al quarto movimento, la punta delle code atterra sul seno sinistro. Non un colpo secco, ma un colpo che scivola, che avvolge.
I pesi ondeggiano. La pelle arrossisce. Le gambe tremano.
Un lamento.
Lorena la osserva, seria. — «Non urli più? Non chiedi pietà? O lo vuoi davvero?»
Un secondo colpo, stavolta al centro dell’addome, appena sotto il seno. Le code si allungano, si arrotolano come serpenti in fuga, lasciano il segno del passaggio, caldo e bruciante.
Poi un terzo, diagonale, tra i due seni, sfiorando i capezzoli con precisione chirurgica.
Ogni volta, la tensione non è solo nei colpi. È nello sguardo di lei. Nella bocca aperta. Nel tremito.
Non è più prigioniera. È spettatrice del proprio crollo.
Il contatto della mano sul viso non è né carezza né schiaffo. È un gesto sospeso. Uno di quelli che confondono, che tolgono l’orientamento più di qualunque punizione. Un istante dopo, la frusta cade a terra. Lorena la lascia lì, con deliberata indifferenza.
Poi si inginocchia davanti a lei. Le mani sfiorano i fianchi, ma non li accarezzano. Solo la pelle che vibra sotto le nocche. Lo sguardo resta sollevato, fisso negli occhi di Princy.
— «Ora ti guardano tutti, ma nessuno ti vede davvero. Solo io so chi sei.»
I pollici si allungano e raggiungono i seni, non per stringerli ma per sollevare lentamente le pinzette. I pesi oscillano come pendoli, quasi ipnotici, prima di essere staccati.
Uno.
Poi l’altro.
Le pinzette restano dove sono, ma la liberazione dal peso è quasi uno shock. Un’ondata di calore e dolore insieme, che sale ai capezzoli e rimbalza nel ventre.
Lei emette un suono strozzato. Non un gemito, non un grido. Un’espressione che non aveva mai fatto prima.
Lorena si avvicina ancora, la fronte quasi appoggiata al suo petto, l’alito caldo sulla pelle bagnata di sudore.
— «Stai tremando, ma non per paura.»
E mentre lo dice, la lingua si posa sul bordo del capezzolo sinistro, lì dove la pinzetta stringe ancora. Non lo lecca. Non lo libera. Lo sfiora appena.
Poi si solleva, le passa dietro. Un rumore di metallo che si apre. Qualcosa cade: forse una fibbia, forse un gancio. Le mani di Lorena sono ferme, precise. Rilasciano con lentezza il meccanismo della gogna.
Princy resta lì, ancora in ginocchio. Il collo e i polsi liberi, ma le spalle pesanti come se fossero ancora bloccate.
Il metallo della gogna si richiude alle spalle con un suono sordo, mentre Princy rimane in ginocchio, il respiro ancora spezzato, il corpo acceso, tremante. Lorena non le dice nulla. Le afferra con fermezza il mento e le solleva il viso, poi un cenno impercettibile verso il tavolo.
Lei obbedisce.
Si alza, le gambe deboli, il corpo ancora segnato, ma il passo è docile, quasi automatico. I piedi scalzi sfiorano il velluto della pedana mentre si avvicina al tavolo al centro. Non ci sono più parole, solo il respiro del pubblico che si fa di nuovo sentire, come un coro sommesso che la accompagna.
Si stende lentamente, con la schiena sulla superficie fredda, lasciando le braccia distese lungo i fianchi, i polsi rilassati, le gambe ancora aperte, ma non per comando: per abbandono. La pelle aderisce leggermente al cuoio del tavolo, ancora umida di sudore, come se non avesse davvero mai smesso di tremare.
Lorena la osserva in silenzio. Poi si avvicina e, con gesti lenti e meticolosi, rimuove una alla volta le pinzette ancora fissate ai capezzoli. Le dita sono attente, pazienti. Le pinze lasciano piccoli segni, un rossore circolare, un'ombra di dolore che rimarrà ancora a lungo.
Poi la libera anche dalle ultime cinghie. Non ci sono più vincoli, non corde, né pressione. Solo lei, sdraiata, nuda, completamente vulnerabile, ma per la prima volta senza costrizione.
Lorena si allontana senza dire nulla. Raccoglie la frusta, le pinzette, i pesi, la bacchetta e li ripone ordinatamente nel mobiletto. Ogni gesto è preciso, rituale. Come se stesse chiudendo un rito, non una punizione. Il pubblico non fiata. Osserva.
Quando tutto è in ordine, si gira e torna da lei.
Lorena si ferma accanto al tavolo. Si sfila lentamente i guanti in raso nero, un dito alla volta, lasciando che il tessuto scivoli piano lungo le mani. Le posa con cura sul bordo, come se quel gesto segnasse un passaggio d’intimità più profonda.
Poi si inclina verso il corpo disteso, si accovaccia con un’eleganza innata e inizia a toccarla con una delicatezza disarmante, lontana dall’autorità di poco prima. Le dita esplorano il ventre, le costole, seguono le tracce sottili lasciate dalla frusta con la dedizione di chi conosce ogni centimetro della pelle che ha marchiato.
Non dice nulla. Non ne ha bisogno.
La punta dell’indice sfiora il solco tra i seni, poi risale per accarezzare i capezzoli, ancora segnati dalla pressione delle pinzette. Le labbra di Princy si dischiudono in un respiro profondo, mentre il corpo si tende leggermente, come se il piacere arrivasse più forte ora, nel gesto gentile che segue la violenza, come un balsamo su una ferita ancora calda.
Lorena si abbassa piano, posa le labbra al centro del petto, in un bacio lungo, muto, che non chiede ma reclama. La bocca si muove con lentezza, scendendo verso il ventre, mentre una mano le accarezza il fianco, scivola lungo la curva delle anche, si ferma appena sopra l’intimità, senza ancora varcarne i confini.
— «Non sei sola qui, lo sai?» — sussurra. — «Tutti ti stanno guardando… ma nessuno può toccarti. Solo io. Solo io ti conosco così.»
Il respiro di Princy si fa irregolare, profondo, quasi trattenuto, come se temesse che anche l’aria potesse farle perdere il controllo.
Lorena non si muove ancora. Restano così, l’una sopra l’altra, in sospensione. Un momento che può diventare qualsiasi cosa: possesso, perdono, o solo un altro inizio.
La bocca di Lorena indugia sul ventre, lasciando una scia invisibile di calore e riverenza. La pelle di Princy vibra a ogni contatto, eppure è immobile, offerta. Non per costrizione, ma per scelta. Un abbandono completo, maturato nella fatica, nel dolore, nel piacere che sfiora i margini della coscienza.
Lorena solleva lentamente il viso. Gli occhi si incrociano. Non c’è sfida, non c’è supplica. Solo una certezza silenziosa che scorre tra loro, fatta di sguardi che bruciano più della frusta.
Si piega in avanti e le prende il volto fra le mani, accarezzandole con i pollici le guance segnate dal trucco colato, come se volesse scolpire in quella maschera disfatta una nuova identità. Poi si abbassa ancora, fino a sfiorarle la bocca con la sua.
Un primo contatto appena accennato, ma sufficiente a scuotere l’aria.
Il secondo è pieno, deciso. Le labbra si incontrano con fame trattenuta, mescolandosi, assaporandosi. Il bacio non è tenero, ma neppure violento. È il bacio di chi comanda e sa esattamente come farlo. Le dita di Lorena risalgono lungo i fianchi, sfiorano i seni tesi, li raccolgono tra le mani e li accarezzano con attenzione chirurgica, come se ogni gesto fosse un punto esatto sulla mappa del piacere.
Princy emette un gemito basso, involontario, nel bacio. Il suo corpo si tende, non per fuggire, ma per offrirsi di più. La bocca resta socchiusa quando Lorena si stacca appena, le labbra lucide, il respiro affamato.
— «Ora sì… ora sei perfetta.»
Un'altra carezza tra le cosce, questa volta solo un accenno. Quanto basta a farle trattenere il fiato.
Poi Lorena si allontana di pochi centimetri, il viso ancora vicino, lo sguardo fisso nei suoi occhi.
Le dita di Lorena si muovono con una precisione innata, come se leggessero sotto pelle ciò che Princy non riesce più a trattenere. Ogni sfioramento è misurato, calcolato, eppure vibrante. Il bacio non si è mai interrotto davvero: ora si posa sul mento, poi sul collo, lungo la clavicola, prima di tornare a reclamare la bocca, assetata e tenera a un tempo.
Il corpo di lei si inarca, si tende, ogni muscolo sembra cercare qualcosa che ancora non osa nominare. Il contatto delle mani di Lorena è caldo, saldo, determinato. Le conosce, le sue reazioni, e le insegue come si segue il ritmo di una melodia che si è scritta da sole.
I seni si gonfiano sotto le carezze, il respiro accelera, si spezza, poi riparte. Non ci sono parole, solo gemiti lievi, quasi rubati, come se ogni suono fosse un segreto. Lorena non le toglie gli occhi di dosso. La guarda contorcersi, socchiudere gli occhi, poi riaprirli di scatto, sorpresa da sé stessa.
Un tremito corre lungo l’addome, poi giù, più in basso. Il bacino si solleva di pochi centimetri, e le dita di Lorena assecondano quel movimento come uno strumento accordato alla perfezione. Non serve forza, non serve insistenza. Solo ritmo. Presenza. Precisione.
Poi accade. Non un’esplosione, ma una fessura che si apre dentro di lei, e da cui esce tutto: il desiderio, la tensione, la vergogna, il sollievo. Princy geme, il corpo si tende una volta ancora, poi cede. La pelle si imperla di sudore, le gambe tremano, il petto si solleva con affanno.
Lorena non si ritrae. La osserva mentre si scioglie, mentre il piacere la attraversa come un'onda calda, lunga, inarrestabile. Le accarezza i capelli umidi, la fronte, poi si china a baciarle le labbra ancora una volta, stavolta con una dolcezza nuova, intima, come un suggello.
— «Così si nasce davvero.»
La frase le scivola addosso come un vestito cucito su misura. Lei non risponde. Non può. Ma i suoi occhi, lucidi e persi, parlano al posto suo.

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scritto il
2025-09-05
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