Il giorno che bastava

di
genere
etero


Scrivo racconti erotici su commissione. Se interessati/e, potete contattarmi al mio indirizzo e-mail: nicola.pavelli@gmail.com o su Instagram: nicola_pavelli.

Marco aveva imparato presto che ci sono dolori che non fanno rumore. Non come un urlo, non come una ferita che sanguina, ma come una pioggia lenta che ti bagna ogni giorno, senza tregua.
Da venticinque anni guardava crescere suo figlio Luca in un corpo che non gli apparteneva davvero: le gambe sottili come rami, la mano che tremava nel cercare la presa, la voce spezzata in suoni che solo lui, come padre, riusciva a tradurre.
Marco gli aveva insegnato a sorridere alle persone, anche se molte volte quelle persone abbassavano lo sguardo. Aveva combattuto battaglie silenziose contro la burocrazia, i medici, le cure che promettevano e non mantenevano.
Ma c’era una battaglia che non poteva combattere a colpi di carte o firme: quella contro il tempo che scivolava via, portando con sé occasioni che Luca non avrebbe mai vissuto.
Non si trattava solo di lavoro, amici, viaggi. Era qualcosa di più intimo, più invisibile agli occhi degli altri: la possibilità di sentirsi uomo, di essere toccato con desiderio, di conoscere quella carezza diversa, che non nasce dall’accudimento ma dall’attrazione.
Di notte, spesso, Marco si ritrovava sveglio. La luce del corridoio illuminava appena la porta socchiusa della camera di Luca. Lui dormiva, sereno, ignaro. E Marco lo guardava, chiedendosi se nel suo cuore, nonostante la malattia, ardesse quel bisogno che la vita sembrava avergli negato.
Fu in una di quelle notti che prese la decisione. Non fu semplice. Ogni passo verso quella scelta gli pesava addosso come una colpa.
Passò giorni a cercare senza sapere cosa cercava davvero, fino a quando trovò una foto su un sito discreto, quasi elegante. Una donna di nome Elena. Non c’era nulla di volgare in quell’immagine: capelli scuri, un sorriso appena accennato e occhi che parevano ascoltare anche senza parlare.
Il primo incontro avvenne in un caffè vicino alla stazione. Marco era nervoso come non lo era mai stato. Le mani sudate, le frasi preparate e poi dimenticate appena lei arrivò.
Elena si sedette di fronte a lui con un cappotto chiaro e un profumo sottile. Non rise del suo imbarazzo, non fece domande curiose. Lo ascoltò in silenzio, senza giudicare.
Quando Marco finì di spiegare, lei restò qualche secondo in silenzio, poi disse soltanto:
“se è per lui, troveremo un modo. Ma dev’essere fatto con cuore, non solo con la pelle.”
Quelle parole gli restarono dentro.
Il giorno stabilito arrivò come una data segnata a matita, incerta fino all’ultimo.
Marco si svegliò presto, molto prima dell’alba. Non riusciva a fare colazione, ma preparò comunque quella di Luca, come ogni mattina: il pane tostato tagliato in piccoli pezzi, il bicchiere di latte tiepido.
Luca lo guardava con il suo sorriso lento, come se potesse percepire l’agitazione che riempiva la stanza.
Elena arrivò puntuale. Non indossava abiti vistosi, ma un maglione morbido e chiaro. Portava con sé una borsa che non aprì mai davanti a Marco. Gli rivolse solo un sorriso tranquillo, come a dire va tutto bene.
La stanza era stata preparata con cura: tende chiuse, luce soffusa, il letto ordinato. Marco si fermò sulla soglia. Non entrò. Non voleva essere un’ombra su quel momento, ma neppure andarsene. Si sedette su una sedia nel corridoio, a pochi metri.
Dal silenzio cominciarono ad arrivargli suoni lievi: il fruscio di tessuti, un mormorio. Poi, una risata. Era la voce di Luca. Non l’aveva mai sentita così: non era la risata che nasce da un cartone animato o da un gioco, ma una risata di imbarazzo dolce, di sorpresa.
Marco chiuse gli occhi. In quel momento comprese che non si trattava solo di un contatto fisico. Elena stava dando a Luca qualcosa di infinitamente più raro: uno spazio dove essere visto, accolto come uomo, non come malato.
Il tempo passò lento.
Quando la porta si aprì, Elena uscì piano, con lo sguardo lucido. Si fermò davanti a Marco e non disse nulla. Gli mise una mano sulla spalla, poi si chinò e gli sussurrò: “era pronto. E l’ha capito.”
Marco sentì le lacrime arrivare, ma le trattenne finché non fu solo. Entrò nella stanza. Luca era stanco, ma il suo sorriso era diverso, più calmo, come se avesse attraversato una porta invisibile.
Quella notte, Marco rimase seduto accanto a lui fino a tardi. Non pianse per dolore, ma per una gratitudine che non riusciva a contenere. Aveva sempre temuto che suo figlio se ne andasse senza mai conoscere quel brivido. Ora sapeva che non sarebbe stato così.
Marco non aveva programmato di rivederla. Pensava che tutto sarebbe finito lì, con quella porta che si chiudeva e quel silenzio che, in qualche modo, parlava da solo.
Eppure, dopo qualche giorno, sentì il bisogno di ringraziarla di persona. Non con un messaggio, non con una busta di denaro, ma con qualcosa che avesse un peso, anche se non sapeva ancora cosa.
Si diedero appuntamento nello stesso bar della prima volta. Quando Elena entrò, portava i capelli raccolti e una sciarpa rossa. Si sedette di fronte a lui, senza formalità.
“Come sta Luca?” Chiese.
“Bene… più di quanto potessi immaginare” rispose Marco, abbassando lo sguardo. Poi aggiunse: “non so come ringraziarti.”
Elena sorrise appena.
“Non devi. Non è stato un lavoro, Marco. Non come pensi tu.”
Lui la guardò, sorpreso. Lei fece un respiro profondo, poi cominciò a parlare.
“Mio fratello… aveva una forma grave di distrofia muscolare. Era più giovane di me, ma la vita non gli ha lasciato molto tempo. Non aveva mai avuto una ragazza, mai sentito che qualcuno lo vedesse davvero. Un giorno mi disse: vorrei solo sapere com’è, almeno una volta, per non portarmi via questa curiosità nel buio. Io non potei aiutarlo. Non avevo il coraggio, e non trovai nessuno che capisse. Morì così, con quella domanda dentro.
Si interruppe, passandosi una mano tra i capelli.
“Quando mi hai parlato di Luca, ho visto lui. Non potevo dire di no.”
Marco sentì un nodo salire alla gola. Non era solo gratitudine, ma una sorta di legame che non si era aspettato. Due vite diverse, due dolori che si riconoscevano.
Parlarono a lungo, di tutto e di niente. Quando si alzarono per andare, Marco le tese una busta con il pagamento pattuito. Elena la guardò, poi la spinse verso di lui.
“Tienila. A volte non si tratta di soldi, Marco. A volte si tratta di restituire qualcosa che la vita ti ha tolto.”
Si salutarono con un abbraccio che durò più del necessario, un abbraccio che non era tra cliente e professionista, ma tra due persone che si erano incontrate nel punto più fragile di sé stesse.
Quella sera, tornando a casa, Marco sentì che, in qualche modo, anche lui aveva varcato una soglia. Aveva regalato a suo figlio un frammento di vita, e, nello stesso gesto, aveva ricevuto la pace di sapere che, almeno una volta, aveva vinto contro la crudeltà del destino.
Era una domenica pomeriggio. Fuori, il cielo aveva quel colore incerto che precede la pioggia, e la casa era immersa in un silenzio tiepido.
Marco stava sistemando alcune foto in una scatola di legno: immagini di vacanze al mare, compleanni passati, vecchi ritratti di Luca con i capelli spettinati e lo sguardo limpido.
Quando Luca entrò in salotto con la sua andatura incerta, Marco lo invitò a sedersi accanto a sé sul divano. Non parlarono subito. Marco prese una foto e gliela mostrò: era lui, bambino, con un pallone tra le mani.
Luca sorrise, quel sorriso lento e pieno che sembrava venire da molto lontano.
“Ti ricordi questo giorno?” Chiese Marco.
Luca fece un cenno, incerto, ma i suoi occhi brillarono in modo diverso.
Restarono così, fianco a fianco, sfogliando immagini. A un certo punto, Luca posò la mano sulla spalla di suo padre. Era un gesto semplice, ma pieno di forza. Marco lo guardò, e in quel momento sentì che qualcosa, dentro suo figlio, si era aperto. Non era più soltanto il ragazzo fragile che aveva sempre protetto, ma un uomo che aveva assaggiato, anche solo per un istante, la pienezza di essere vivo.
Marco non fece domande. Non servivano.
Si limitò a stringergli la mano, lasciando che il silenzio raccontasse ciò che le parole non avrebbero potuto.
Fu allora che capì: non aveva solo regalato a suo figlio un’esperienza, ma gli aveva restituito un pezzo di identità, una consapevolezza che nessuna malattia poteva cancellare.
E per la prima volta dopo tanto tempo, Marco sentì di poter respirare senza quel peso costante sul petto. Guardò suo figlio, e vide in lui non la malattia, non il limite, ma la vita. Fragile, preziosa, irripetibile.

scritto il
2025-08-14
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