Sotto la pelle
di
Nicola Pavelli
genere
etero
Scrivo racconti erotici su commissione. Se interessati/e, contattatemi al mio indirizzo e-mail: nicola.pavelli@gmail.com o su Instagram: nicola_pavelli
La pioggia batteva contro i vetri come un rullante ostinato. In studio l’aria sapeva di carta cotone e polvere di gesso, con una traccia leggera di gelsomino dal diffusore che Chiara dimenticava sempre acceso. Aveva preparato il fondale nero e spostato le lampade un poco più in alto, per far scivolare la luce sulle spalle come su un rilievo. Sulla mensola, tre Polaroid nuove aspettavano come biglietti mai spediti.
Quando Leon bussò, erano le sette passate. Portava un giubbotto scuro bagnato e i capelli rasi luccicavano di gocce. La cicatrice sullo zigomo sinistro sembrava più chiara del solito, una virgola di pelle sotto un cielo d’acqua.
«Sei sicuro di volerlo fare oggi?» Chiese Chiara, stringendosi nel maglione. «Possiamo rimandare.»
Leon fece un passo dentro, chiuse la porta col gomito. «Sono qui,» disse, semplice. Poi, con un mezzo sorriso: «E non voglio che le Polaroid si sentano abbandonate.»
Chiara abbassò lo sguardo, e le sfuggì una risata breve, che le parve quasi una parola dopo mesi di silenzio. Gli porse un asciugamano. «Togliti la giacca. Ho messo un tè.»
Si mossero nello spazio come chi ha imparato un ritmo comune: lei controllava la messa a fuoco, provava l’esposizione con la mano aperta davanti alla luce. Lui, senza bisogno di indicazioni, si posizionava di tre quarti, cercando l’ombra giusta sul profilo. Era un gioco che avevano costruito nelle settimane precedenti: spostarsi di pochi centimetri, ripetere lo stesso gesto finché quella minuscola variazione non rivelava qualcosa.
«Il corpo come diario,» disse lui, osservando l’angolo in cui Chiara teneva le stampe appese con le mollette. «Mi chiedo che cosa scriva il mio.»
«Cose che non vuoi vedere e cose che non puoi perdere,» rispose Chiara, istintiva. Si accorse di aver parlato troppo in fretta e arrossì.
Leon guardò verso il fondale, poi tornò su di lei. «E il tuo?»
Chiara allungò una mano e spostò una ciocca scura dietro l’orecchio. «Il mio ha pagine strappate,» disse piano. «Ma le cicatrici tengono insieme i fogli.»
Non aggiunse altro. Il nome di Andrea restò appoggiato sulle gengive come una parola che si decide di non pronunciare. Prese la macchina, si avvicinò. L’odore del tè al bergamotto e della pioggia di strada si mescolarono.
«Pronto?» Chiese.
Leon annuì. Inspirò, trattenne il fiato. Il suono dello scatto riempì lo studio, netto come un metronomo. Il primo ritratto: occhi alti, bocca semiseria, una piega quasi impercettibile alla base del collo. Chiara si spostò di lato e lo guardò attraverso il mirino. Il mondo diventò un rettangolo tremolante in cui esisteva solo la linea del suo volto.
Scattarono altri due ritratti, poi Chiara abbassò la macchina. «Vorrei provare qualcosa,» disse. «Se sei d’accordo.»
Leon tese le spalle. «Dimmi.»
Lei indicò il tavolo sul quale aveva steso un lenzuolo bianco, con le pieghe ancora visibili. «Vorrei… la tua schiena. La voglio disegnare con la luce.»
Ci fu un istante in cui sentì il proprio cuore scomporsi, come se una parte chiedesse troppo e l’altra fosse pronta a tornare indietro. Ma Leon annuì, come si annuisce alle domande che in fondo si aspettano.
Si tolse la maglietta bagnata. Il gesto fu semplice, senza esibizione. La pelle, sotto, era un racconto di muscoli e riparazioni, la cicatrice sulla scapola destra sembrava un fulmine estinto. Chiara avvertì una stretta nel petto, non di desiderio soltanto, ma di riconoscimento: quella geografia imperfetta le era familiare.
«Fa freddo?» Domandò.
«Un po’.» Lui sorrise, e il sorriso gli addolcì il viso come una smussatura. «Ma ci sei tu con la luce.»
Lei avvicinò la lampada, regolò l’intensità finché la pelle non divenne un campo morbido. Alzò la macchina e, prima di scattare, appoggiò le dita sulla schiena di lui, appena, per guidarlo nella posizione. Sentì il calore del corpo e un tremito piccolo, come quello di chi si trattiene. «Se non va bene, me lo dici,» sussurrò.
«Va bene,» disse Leon. E fu vero.
Scattarono. Chiara spostò la lampada di qualche grado, poi prese la Polaroid e la inserì nella macchina d’istante. «Stai fermo, ancora un secondo.»
Il suono di carta che esce, lo scatto ottuso del meccanismo. Il rettangolo lattiginoso le si scaldò tra le dita. Soffiò appena, un gesto antico e inutile, ma che le dava il senso di accompagnare qualcosa alla nascita. «Lo sviluppo è sempre un po’ un’avventura.»
Leon si voltò a guardarla. «Come noi?»
Lei alzò gli occhi su di lui, e per un attimo fu più giovane di dieci anni. «Sì. Come noi.»
Appese la Polaroid con una molletta. L’immagine iniziò a venire a galla lenta, come se la pioggia fuori le impartisse una lezione di pazienza. La curva della schiena, il margine della cicatrice, una sfocatura quasi carezzevole sulla spalla. Chiara si avvicinò, senza la macchina, solo con le mani. Sfiorò con il pollice il punto in cui la pelle si scuriva, e Leon trattenne il respiro in modo udibile.
«Ti fa male?» Chiese.
«No. O non nel modo che pensi.» Di nuovo quel mezzo sorriso che sembrava una crepa nella corazza. «Chiara è strano, ma con te sembra tutto meno pesante.»
Lei fece un passo indietro per non affondare troppo in quel momento, poi lo cancellò e tornò avanti. «Posso fare un’altra cosa?»
«Qualsiasi cosa tu voglia.»
Chiara prese il cavalletto e lo piazzò davanti al fondale. Sistemò la macchina in modo che inquadrasse non solo Leon, ma uno spicchio di stanza, la lampada, sé stessa sul margine, appena un’ombra. «Voglio esserci anch’io in questo ritratto,» disse, e la voce le tremò.
Leon inclinò la testa. «Sei sicura?»
«Non più di quanto lo sia quando respiro. Ma lo farò lo stesso.»
Avviò l’autoscatto. I dieci secondi si allungarono in un filo di sospensione. Chiara si posizionò alle spalle di Leon e gli appoggiò la mano sul costato, sentendo l’onda del respiro sotto il palmo. Lui posò la mano sopra la sua, la tenne. Quando il click attraversò la stanza, si scambiarono un’occhiata che non sapeva più essere né professionale né prudente.
«Vieni,» disse Leon, piano, senza tirarla. Fu un invito, non un ordine. «Vieni qui.»
Chiara scese dal piedistallo di paure che aveva costruito in due anni. Si mise di fronte a lui. Il rumore della pioggia spezzettava il silenzio in pezzi più piccoli e sopportabili. «Da quanto non…» iniziò, poi si fermò. Non era quella la domanda. «Posso toccarti?»
«Sì,» disse lui. «Ma solo se mi tocchi come mi guardi.»
Chiara sorrise appena. Allungò la mano e gli sfiorò la cicatrice con la punta delle dita. Non fu un gesto pietoso, ma un atto di lettura. Leon chiuse gli occhi, e il battito delle tempie gli salì alla pelle. Lei passò dall’osso dello zigomo al bordo della mascella, dal collo alla clavicola, disegnando un percorso che non chiedeva altro se non di essere seguito.
Il primo bacio arrivò quasi senza rumore. Non fu impaziente. Aveva quella esitazione dei primi passi sulla sabbia umida: una misura, uno scarto, un ritorno. Leon le prese il viso tra le mani come si prende una fotografia che può rovinarsi, e Chiara sentì un calore che veniva da dentro, non dalla stanza. Si separarono un istante, abbastanza per guardarsi davvero, e poi tornarono a cercarsi.
«Ho paura,» confessò lei, con un filo di voce.
«Anch’io.» La risposta venne senza vergogna e senza maschere. «Ma preferisco la paura qui con te che la sicurezza di prima.»
Si spostarono verso il lenzuolo steso sul tavolo. Chiara ci sedette, stringendo le ginocchia. Leon rimase in piedi, incerto un secondo. «Non voglio essere… troppo,» disse, e abbassò lo sguardo come si fa da ragazzi.
«Non lo sei,» disse lei. «E se lo sarai, te lo dirò.»
Si baciarono di nuovo, più lunghi, più veri. Le mani trovarono strade nuove con delicatezza: la curva di un fianco, la piccola alcova dove si annida il respiro quando si ride piano. Non ci fu fretta. Ogni gesto chiedeva risposta e trovava una lingua. La pioggia fuori cambiò ritmo come un pubblico che trattiene il fiato.
Chiara prese la Polaroid dal tavolo. «Fammi fare una pazzia,» sussurrò, ridendo per la prima volta senza colpa. Inquadrò con una mano e con l’altra si tenne a lui, scattò quasi alla cieca. Il rettangolo uscì e lei lo posò sul calorifero spento, come si posa un segreto dove nessuno guarda.
«Che cosa stiamo facendo?» Chiese Leon, con quella serietà senza pesi che ogni tanto gli compariva addosso.
«Stiamo smettendo di essere soli,» disse Chiara. «Per cinque minuti. O per il tempo che serve.»
Si sdraiarono sul lenzuolo, uno accanto all’altra. Le luci rimasero accese, perché non c’era nulla da nascondere alla stanza. Le loro parole si ridussero ai monosillabi che non servono a dire ma a stare: sì, qui, così, aspetta, va bene. Le mani di Chiara esplorarono il torace, il respiro di Leon si fece profondo, i loro corpi trovarono un’accordatura come strumenti che si cercano da tempo.
Non ci fu impeto cieco, né bisogno di dimostrare. L’intimità arrivò come una marea che non ha bisogno di alzare la voce: lenta, sicura, piena. Quando si fermarono, lo fecero nello stesso istante, come se un direttore invisibile avesse deciso un tempo comune. Restarono immobili, con il suono della pioggia che riprendeva il suo rullante dalla strada.
Leon posò la fronte sulla spalla di Chiara. «Ti devo dire una cosa,» mormorò.
Lei girò il viso verso il soffitto. Le luci le facevano luccicare gli occhi. «Dimmela.»
«A volte, quando dormo, la rivedo. La scena. L’ultimo colpo. Sento l’urlo. Non è vero che non ricordo… È che… è come se ricordassi con il corpo. E il corpo non mi perdona.»
Chiara inspirò piano, come per non romperlo. «Il corpo è testardo,» disse. «Ma non è un giudice. Cerca solo di tenerci vivi.»
Leon tacque. Le infilò una mano tra le dita e gliela strinse. «E tu?»
«Io ho dimenticato come si sta quando si sta bene,» disse, con uno sforzo che le arrossò le guance. «Per questo fotografo. Perché a volte la macchina vede per me. E stasera… stasera ha visto che sono ancora qui.»
Il silenzio che seguì non fu imbarazzo: fu tregua. Si sollevarono piano. Chiara si avvolse nel lenzuolo come in una vestaglia improvvisata, Leon si rimise la maglietta asciutta che lei gli porse. Le lampade facevano riflessi caldi sui bordi delle cose. La stanza pareva più grande, come se avesse espirato.
«Vediamo,» disse Chiara, indicando la Polaroid lasciata sul termosifone. Si avvicinarono insieme. L’immagine stava venendo a galla lentamente, con quella pazienza che la luce insegna. Si distingueva il profilo di due figure vicine, non nitide, appena separate da un bordo di chiaroscuro. Una mano su un petto, un mento appoggiato a una fronte. Non c’era nulla di esibito, eppure era tutto lì.
«Siamo noi?» Chiese Leon, come se potesse esserci un’altra risposta.
«Siamo noi,» disse Chiara. E per la prima volta da due anni, la parola “noi” non le fece paura.
Restarono a guardare la foto finché i contorni non furono abbastanza certi. Chiara la appese con una molletta accanto alla schiena di Leon. Due tasselli della stessa storia: il prima e l’adesso. Forse un dopo.
«Resterà?» Chiese lui. «O domani la tirerai giù?»
Chiara si voltò, rispose con una sincerità che non le riusciva da tempo: «domani la guarderò ancora. E se vorrò tirarla giù, ti scriverò. Ma credo che rimarrà.»
Leon fece per salutare, poi esitò sulla soglia. «Posso tornare domani? Anche solo per il tè.»
«Puoi,» disse lei. «Anche solo per il tè.»
Si scambiarono un bacio breve, come si mette un segno in un libro per non perdere la pagina. Quando la porta si richiuse, la pioggia sembrò meno rumorosa. Chiara rimase in piedi in mezzo allo studio, avvolta nel lenzuolo, le mani ancora calde. Guardò le foto appese. La schiena con il fulmine estinto. Le due figure che si cercavano nella luce.
Spense le lampade una alla volta, lasciando accesa solo quella più piccola, quella che usava quando non voleva che la stanza si sentisse sola. Si sedette sul pavimento, la schiena contro il muro, e respirò. Il dolore era là, come sempre, ma si era tolto le scarpe. Aveva smesso di correre per un po’.
Prima di uscire, prese un pennarello sottile e, sul bordo bianco della Polaroid in cui erano insieme, scrisse una parola minuscola: qui. Poi sorrise della sua goffaggine e aggiunse un punto. Qui.
Chiuse lo studio con un gesto lento, come si chiude una finestra per custodire un odore. Fuori, Torino brillava d’acqua sotto i lampioni. Nel vetro della porta, Chiara vide riflesso il suo viso. Non era più lo stesso di due ore prima. Non era più un prima.
Camminò sotto la pioggia senza aprire l’ombrello. Ogni goccia le sembrava una sillaba sul corpo, una frase che ricominciava. E per la prima volta, non ebbe fretta di arrivare.
La pioggia batteva contro i vetri come un rullante ostinato. In studio l’aria sapeva di carta cotone e polvere di gesso, con una traccia leggera di gelsomino dal diffusore che Chiara dimenticava sempre acceso. Aveva preparato il fondale nero e spostato le lampade un poco più in alto, per far scivolare la luce sulle spalle come su un rilievo. Sulla mensola, tre Polaroid nuove aspettavano come biglietti mai spediti.
Quando Leon bussò, erano le sette passate. Portava un giubbotto scuro bagnato e i capelli rasi luccicavano di gocce. La cicatrice sullo zigomo sinistro sembrava più chiara del solito, una virgola di pelle sotto un cielo d’acqua.
«Sei sicuro di volerlo fare oggi?» Chiese Chiara, stringendosi nel maglione. «Possiamo rimandare.»
Leon fece un passo dentro, chiuse la porta col gomito. «Sono qui,» disse, semplice. Poi, con un mezzo sorriso: «E non voglio che le Polaroid si sentano abbandonate.»
Chiara abbassò lo sguardo, e le sfuggì una risata breve, che le parve quasi una parola dopo mesi di silenzio. Gli porse un asciugamano. «Togliti la giacca. Ho messo un tè.»
Si mossero nello spazio come chi ha imparato un ritmo comune: lei controllava la messa a fuoco, provava l’esposizione con la mano aperta davanti alla luce. Lui, senza bisogno di indicazioni, si posizionava di tre quarti, cercando l’ombra giusta sul profilo. Era un gioco che avevano costruito nelle settimane precedenti: spostarsi di pochi centimetri, ripetere lo stesso gesto finché quella minuscola variazione non rivelava qualcosa.
«Il corpo come diario,» disse lui, osservando l’angolo in cui Chiara teneva le stampe appese con le mollette. «Mi chiedo che cosa scriva il mio.»
«Cose che non vuoi vedere e cose che non puoi perdere,» rispose Chiara, istintiva. Si accorse di aver parlato troppo in fretta e arrossì.
Leon guardò verso il fondale, poi tornò su di lei. «E il tuo?»
Chiara allungò una mano e spostò una ciocca scura dietro l’orecchio. «Il mio ha pagine strappate,» disse piano. «Ma le cicatrici tengono insieme i fogli.»
Non aggiunse altro. Il nome di Andrea restò appoggiato sulle gengive come una parola che si decide di non pronunciare. Prese la macchina, si avvicinò. L’odore del tè al bergamotto e della pioggia di strada si mescolarono.
«Pronto?» Chiese.
Leon annuì. Inspirò, trattenne il fiato. Il suono dello scatto riempì lo studio, netto come un metronomo. Il primo ritratto: occhi alti, bocca semiseria, una piega quasi impercettibile alla base del collo. Chiara si spostò di lato e lo guardò attraverso il mirino. Il mondo diventò un rettangolo tremolante in cui esisteva solo la linea del suo volto.
Scattarono altri due ritratti, poi Chiara abbassò la macchina. «Vorrei provare qualcosa,» disse. «Se sei d’accordo.»
Leon tese le spalle. «Dimmi.»
Lei indicò il tavolo sul quale aveva steso un lenzuolo bianco, con le pieghe ancora visibili. «Vorrei… la tua schiena. La voglio disegnare con la luce.»
Ci fu un istante in cui sentì il proprio cuore scomporsi, come se una parte chiedesse troppo e l’altra fosse pronta a tornare indietro. Ma Leon annuì, come si annuisce alle domande che in fondo si aspettano.
Si tolse la maglietta bagnata. Il gesto fu semplice, senza esibizione. La pelle, sotto, era un racconto di muscoli e riparazioni, la cicatrice sulla scapola destra sembrava un fulmine estinto. Chiara avvertì una stretta nel petto, non di desiderio soltanto, ma di riconoscimento: quella geografia imperfetta le era familiare.
«Fa freddo?» Domandò.
«Un po’.» Lui sorrise, e il sorriso gli addolcì il viso come una smussatura. «Ma ci sei tu con la luce.»
Lei avvicinò la lampada, regolò l’intensità finché la pelle non divenne un campo morbido. Alzò la macchina e, prima di scattare, appoggiò le dita sulla schiena di lui, appena, per guidarlo nella posizione. Sentì il calore del corpo e un tremito piccolo, come quello di chi si trattiene. «Se non va bene, me lo dici,» sussurrò.
«Va bene,» disse Leon. E fu vero.
Scattarono. Chiara spostò la lampada di qualche grado, poi prese la Polaroid e la inserì nella macchina d’istante. «Stai fermo, ancora un secondo.»
Il suono di carta che esce, lo scatto ottuso del meccanismo. Il rettangolo lattiginoso le si scaldò tra le dita. Soffiò appena, un gesto antico e inutile, ma che le dava il senso di accompagnare qualcosa alla nascita. «Lo sviluppo è sempre un po’ un’avventura.»
Leon si voltò a guardarla. «Come noi?»
Lei alzò gli occhi su di lui, e per un attimo fu più giovane di dieci anni. «Sì. Come noi.»
Appese la Polaroid con una molletta. L’immagine iniziò a venire a galla lenta, come se la pioggia fuori le impartisse una lezione di pazienza. La curva della schiena, il margine della cicatrice, una sfocatura quasi carezzevole sulla spalla. Chiara si avvicinò, senza la macchina, solo con le mani. Sfiorò con il pollice il punto in cui la pelle si scuriva, e Leon trattenne il respiro in modo udibile.
«Ti fa male?» Chiese.
«No. O non nel modo che pensi.» Di nuovo quel mezzo sorriso che sembrava una crepa nella corazza. «Chiara è strano, ma con te sembra tutto meno pesante.»
Lei fece un passo indietro per non affondare troppo in quel momento, poi lo cancellò e tornò avanti. «Posso fare un’altra cosa?»
«Qualsiasi cosa tu voglia.»
Chiara prese il cavalletto e lo piazzò davanti al fondale. Sistemò la macchina in modo che inquadrasse non solo Leon, ma uno spicchio di stanza, la lampada, sé stessa sul margine, appena un’ombra. «Voglio esserci anch’io in questo ritratto,» disse, e la voce le tremò.
Leon inclinò la testa. «Sei sicura?»
«Non più di quanto lo sia quando respiro. Ma lo farò lo stesso.»
Avviò l’autoscatto. I dieci secondi si allungarono in un filo di sospensione. Chiara si posizionò alle spalle di Leon e gli appoggiò la mano sul costato, sentendo l’onda del respiro sotto il palmo. Lui posò la mano sopra la sua, la tenne. Quando il click attraversò la stanza, si scambiarono un’occhiata che non sapeva più essere né professionale né prudente.
«Vieni,» disse Leon, piano, senza tirarla. Fu un invito, non un ordine. «Vieni qui.»
Chiara scese dal piedistallo di paure che aveva costruito in due anni. Si mise di fronte a lui. Il rumore della pioggia spezzettava il silenzio in pezzi più piccoli e sopportabili. «Da quanto non…» iniziò, poi si fermò. Non era quella la domanda. «Posso toccarti?»
«Sì,» disse lui. «Ma solo se mi tocchi come mi guardi.»
Chiara sorrise appena. Allungò la mano e gli sfiorò la cicatrice con la punta delle dita. Non fu un gesto pietoso, ma un atto di lettura. Leon chiuse gli occhi, e il battito delle tempie gli salì alla pelle. Lei passò dall’osso dello zigomo al bordo della mascella, dal collo alla clavicola, disegnando un percorso che non chiedeva altro se non di essere seguito.
Il primo bacio arrivò quasi senza rumore. Non fu impaziente. Aveva quella esitazione dei primi passi sulla sabbia umida: una misura, uno scarto, un ritorno. Leon le prese il viso tra le mani come si prende una fotografia che può rovinarsi, e Chiara sentì un calore che veniva da dentro, non dalla stanza. Si separarono un istante, abbastanza per guardarsi davvero, e poi tornarono a cercarsi.
«Ho paura,» confessò lei, con un filo di voce.
«Anch’io.» La risposta venne senza vergogna e senza maschere. «Ma preferisco la paura qui con te che la sicurezza di prima.»
Si spostarono verso il lenzuolo steso sul tavolo. Chiara ci sedette, stringendo le ginocchia. Leon rimase in piedi, incerto un secondo. «Non voglio essere… troppo,» disse, e abbassò lo sguardo come si fa da ragazzi.
«Non lo sei,» disse lei. «E se lo sarai, te lo dirò.»
Si baciarono di nuovo, più lunghi, più veri. Le mani trovarono strade nuove con delicatezza: la curva di un fianco, la piccola alcova dove si annida il respiro quando si ride piano. Non ci fu fretta. Ogni gesto chiedeva risposta e trovava una lingua. La pioggia fuori cambiò ritmo come un pubblico che trattiene il fiato.
Chiara prese la Polaroid dal tavolo. «Fammi fare una pazzia,» sussurrò, ridendo per la prima volta senza colpa. Inquadrò con una mano e con l’altra si tenne a lui, scattò quasi alla cieca. Il rettangolo uscì e lei lo posò sul calorifero spento, come si posa un segreto dove nessuno guarda.
«Che cosa stiamo facendo?» Chiese Leon, con quella serietà senza pesi che ogni tanto gli compariva addosso.
«Stiamo smettendo di essere soli,» disse Chiara. «Per cinque minuti. O per il tempo che serve.»
Si sdraiarono sul lenzuolo, uno accanto all’altra. Le luci rimasero accese, perché non c’era nulla da nascondere alla stanza. Le loro parole si ridussero ai monosillabi che non servono a dire ma a stare: sì, qui, così, aspetta, va bene. Le mani di Chiara esplorarono il torace, il respiro di Leon si fece profondo, i loro corpi trovarono un’accordatura come strumenti che si cercano da tempo.
Non ci fu impeto cieco, né bisogno di dimostrare. L’intimità arrivò come una marea che non ha bisogno di alzare la voce: lenta, sicura, piena. Quando si fermarono, lo fecero nello stesso istante, come se un direttore invisibile avesse deciso un tempo comune. Restarono immobili, con il suono della pioggia che riprendeva il suo rullante dalla strada.
Leon posò la fronte sulla spalla di Chiara. «Ti devo dire una cosa,» mormorò.
Lei girò il viso verso il soffitto. Le luci le facevano luccicare gli occhi. «Dimmela.»
«A volte, quando dormo, la rivedo. La scena. L’ultimo colpo. Sento l’urlo. Non è vero che non ricordo… È che… è come se ricordassi con il corpo. E il corpo non mi perdona.»
Chiara inspirò piano, come per non romperlo. «Il corpo è testardo,» disse. «Ma non è un giudice. Cerca solo di tenerci vivi.»
Leon tacque. Le infilò una mano tra le dita e gliela strinse. «E tu?»
«Io ho dimenticato come si sta quando si sta bene,» disse, con uno sforzo che le arrossò le guance. «Per questo fotografo. Perché a volte la macchina vede per me. E stasera… stasera ha visto che sono ancora qui.»
Il silenzio che seguì non fu imbarazzo: fu tregua. Si sollevarono piano. Chiara si avvolse nel lenzuolo come in una vestaglia improvvisata, Leon si rimise la maglietta asciutta che lei gli porse. Le lampade facevano riflessi caldi sui bordi delle cose. La stanza pareva più grande, come se avesse espirato.
«Vediamo,» disse Chiara, indicando la Polaroid lasciata sul termosifone. Si avvicinarono insieme. L’immagine stava venendo a galla lentamente, con quella pazienza che la luce insegna. Si distingueva il profilo di due figure vicine, non nitide, appena separate da un bordo di chiaroscuro. Una mano su un petto, un mento appoggiato a una fronte. Non c’era nulla di esibito, eppure era tutto lì.
«Siamo noi?» Chiese Leon, come se potesse esserci un’altra risposta.
«Siamo noi,» disse Chiara. E per la prima volta da due anni, la parola “noi” non le fece paura.
Restarono a guardare la foto finché i contorni non furono abbastanza certi. Chiara la appese con una molletta accanto alla schiena di Leon. Due tasselli della stessa storia: il prima e l’adesso. Forse un dopo.
«Resterà?» Chiese lui. «O domani la tirerai giù?»
Chiara si voltò, rispose con una sincerità che non le riusciva da tempo: «domani la guarderò ancora. E se vorrò tirarla giù, ti scriverò. Ma credo che rimarrà.»
Leon fece per salutare, poi esitò sulla soglia. «Posso tornare domani? Anche solo per il tè.»
«Puoi,» disse lei. «Anche solo per il tè.»
Si scambiarono un bacio breve, come si mette un segno in un libro per non perdere la pagina. Quando la porta si richiuse, la pioggia sembrò meno rumorosa. Chiara rimase in piedi in mezzo allo studio, avvolta nel lenzuolo, le mani ancora calde. Guardò le foto appese. La schiena con il fulmine estinto. Le due figure che si cercavano nella luce.
Spense le lampade una alla volta, lasciando accesa solo quella più piccola, quella che usava quando non voleva che la stanza si sentisse sola. Si sedette sul pavimento, la schiena contro il muro, e respirò. Il dolore era là, come sempre, ma si era tolto le scarpe. Aveva smesso di correre per un po’.
Prima di uscire, prese un pennarello sottile e, sul bordo bianco della Polaroid in cui erano insieme, scrisse una parola minuscola: qui. Poi sorrise della sua goffaggine e aggiunse un punto. Qui.
Chiuse lo studio con un gesto lento, come si chiude una finestra per custodire un odore. Fuori, Torino brillava d’acqua sotto i lampioni. Nel vetro della porta, Chiara vide riflesso il suo viso. Non era più lo stesso di due ore prima. Non era più un prima.
Camminò sotto la pioggia senza aprire l’ombrello. Ogni goccia le sembrava una sillaba sul corpo, una frase che ricominciava. E per la prima volta, non ebbe fretta di arrivare.
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