La riva dell'inizio
di
Nicola Pavelli
genere
prime esperienze
Se volete un racconto personalizzato sulla vostra prima volta, scrivetemi a nicola.pavelli@gmail.com
Posso raccontare la vostra esperienza sia con un'accezione romantica che più cruda e spinta, a seconda delle vostre esigenze.
Per questo tipo di servizio, ho una speciale offerta che terminerà Domenica 24 Agosto.
Il vento di fine agosto arrivava in folate dolci, portando odore di alghe secche e di pini resinosi, mescolato alla scia zuccherina del chiosco rimasto aperto solo per i tardivi. La spiaggia, a quell’ora, era un rettangolo scuro di sabbia tiepida che sfumava nel lucore d’argento del mare. Le onde parlavano a bassa voce, come se avessero promesso di non interrompere nessuno.
Elia si tolse le scarpe e le tenne in mano. Aveva ventun anni compiuti da poco, e una timidezza che gli si leggeva sulle spalle, nel modo in cui le contraeva per difendersi perfino dal cielo. Sotto la luna, la sua ombra sembrava un animale fedele che lo seguiva senza domande. Camminava lungo la battigia lasciando impronte irregolari, che l’acqua cancellava come se non avesse mai osato.
Dietro di lui, a una distanza che era insieme rispetto e desiderio, veniva Andrea. Anche lui aveva ventun anni, e la statura dei pensieri che pesano, non per renderlo più grave ma per farlo più vero. Aveva il passo sciolto di chi ha passato estati intere a conoscere quel litorale palmo a palmo: le dune, le trabaccolari arrugginite, i buchi nella rete che portavano ai sentieri dei gigli marini. Quella sera portava una camicia chiara con le maniche arrotolate, e un sorriso che gli stava più negli occhi che sulle labbra.
«Ti va di sederci lì?» Disse infine, indicando un tratto di sabbia dove l’acqua arrivava a lambire e poi si ritirava imbarazzata.
Elia annuì. Si sedettero uno accanto all’altro. Il chiosco, alle loro spalle, lasciava cadere una musica lontana, appena un basso, qualche voce, come un ricordo che si addormenta. In quella mezz’ombra, il mare sembrava respirare insieme a loro.
«Non riesco mai a ricordare se mi piace di più la spiaggia di notte o all’alba,» disse Andrea, spezzando il silenzio come si spezza una nocciola, con cura. «Di notte tutto è possibile. All’alba tutto è già cominciato.»
Elia sorrise al profilo di lui, quasi senza farsi vedere. «Di notte non ci guarda nessuno,» mormorò. «E se ci guardano, non capiscono.»
Andrea si voltò piano. «Non abbiamo niente da nascondere.»
Elia abbassò gli occhi. «Lo so. Ma ci sono cose che si capiscono meglio se si sussurrano.» Fece una piccola risata, tesa come la corda di un violino. «Che frase da… da me.»
«Da te,» ripeté Andrea, intenerito. La parola gli si adagiò in bocca. «A me piacciono le cose da te.»
Rimasero così, con le ginocchia puntate verso l’acqua, a lasciarsi lambire dalle prime parole. Era la terza volta che uscivano da soli. Le prime due erano state cariche di un’intesa che somigliava alla luce che precede un temporale: un chiarore sospeso, magnetico. Avevano parlato di tutto, dei libri rimandati, del professore che li faceva impazzire, delle città dove avrebbero voluto perdersi. Non avevano parlato di quello che entrambi sapevano. O meglio: ne avevano parlato con altre parole, con una delicatezza che era già una promessa.
Andrea allungò una mano verso l’acqua, ne prese un po’ e gliela lasciò scivolare tra le dita. «È tiepida. Vuoi bagnarti i piedi?»
Elia annuì. Si alzarono. Camminarono fino a sentire la sabbia farsi più compatta, granelli che si serravano l’uno all’altro per sostenere il peso. L’onda arrivò e li avvolse alle caviglie. Elia rabbrividì, non per il freddo ma per l’improvvisa prossimità a tutto: alla notte, al mare, a Andrea.
«Sei venuto perché te l’ho chiesto o perché volevi venire?» Domandò Elia, cercando di sorridere. Gli uscì un sorriso vero, ma tremante.
Andrea lo guardò con quella sua pazienza allegra. «Perché volevo venire. E perché me l’hai chiesto. È una combinazione che non capita così spesso.»
Elia inspirò a fondo. Il sale gli pizzicò la gola. «Io…» Si interruppe. Non sapeva da dove cominciare. La frase gli stava dentro come un animale timoroso sull’uscio.
Andrea non lo incalzò. Si limitò a fare mezzo passo più vicino, in modo che le braccia potessero sfiorarsi senza che nessuno dei due dovesse fingere l’errore. «Dimmi quello che vuoi. O non dirmelo. Ma restiamo qui.»
Elia lo guardò, e fu come guardare per la prima volta un luogo dove si è già stati tante volte: tutto gli tornò familiare, ma con una lucidità nuova. Si accorse di voler toccare quel lembo di camicia arrotolato, la pelle all’interno del gomito, il neo appena sopra il polso. Si accorse di voler ricordare quella notte non solo con la memoria ma con i polpastrelli, come si ricordano le superfici.
«Ho paura,» disse piano, quasi scusandosi.
Andrea annuì, senza abbassare lo sguardo. «Anch’io. La paura è il posto dove si entra in due.»
L’onda successiva salì un poco più su; i piedi affondarono nella sabbia, come se la spiaggia volesse tenerli lì. Elia ridacchiò. «Che frase è? L’hai letta da qualche parte?»
«L’ho inventata adesso,» disse Andrea. «Spero regga la marea.»
Si misero a ridere entrambi, e la risata sciolse qualcosa. Tornarono a sedersi. Andrea si tolse la camicia e la posò dietro, a far da schienale. Restava una canottiera scura e le spalle illuminate appena dal riflesso del mare. Elia si sentì arrossire a vederlo così vicino, così definito e semplice.
«Sono ventun anni che aspetto di sentirmi a casa in un posto,» disse Elia, quasi parlando tra sé. «A volte penso che quel posto sia una persona. Non so se è un’idea stupida.»
Andrea si spostò di un palmo, sufficiente perché le loro cosce si toccassero. «Non è stupida. È rara.»
Elia si voltò. La bocca gli si aprì da sola, come davanti a una verità che non si può più tacere. «Mi piaci.» La frase cadde dritta, senza scuse.
Andrea chiuse gli occhi per un istante, come a ringraziare. Quando li riaprì, erano chiari come la lucertola della luna sull’acqua. «Anche tu mi piaci.» Lo disse con naturalezza, con la stessa sicurezza con cui si dice “qui c’è il mare”.
Il silenzio successivo fu un silenzio pieno, non più cauto. Elia sentì qualcosa cambiare nel proprio respiro; divenne più ampio, più piano. Si accorse di avere desideri che non erano più fantasmi—erano presenti, nitidi, a portata di mano.
«Posso?» chiese Andrea, alzando appena la mano.
Elia inclinò il viso, l’esitazione si mutò in fiducia. «Sì.»
La mano di Andrea gli sfiorò la guancia. Era calda, un po’ ruvida dalla sabbia, eppure tendeva al gesto con una dolcezza quasi studiata, come se avesse paura di rovinare un oggetto prezioso. Il contatto si fece più fermo. Elia chiuse gli occhi senza accorgersene, lasciando che quel tocco gli disegnasse il profilo del viso, l’osso dell’arcata, la delicatezza dell’orecchio.
Si baciarono.
Non fu un gesto rubato o trafelato, ma qualcosa che aveva aspettato e finalmente trovava il suo tempo. Le labbra si incontrarono con una timidezza che divenne presto curiosità, e poi gratitudine. Elia si accorse che il bacio non era come lo aveva immaginato negli anni passati a desiderarlo: non era una scena, era una lingua che si apprende, fatta di pause, di attenzione, di risate improvvise che entrano tra un tocco e l’altro. Andrea sapeva essere presente senza prevaricare. Ogni volta che Elia arretrava di un millimetro, Andrea gli lasciava quello spazio e lo seguiva solo se glielo concedeva.
Quando si staccarono, avevano la fronte appoggiata l’uno a quella dell’altro, e il respiro accordato.
«Va bene?» chiese Andrea.
Elia rise, e la risata gli tremò nel petto come una vela colpita dal vento. «Sì. Più che bene.»
L’aria si fece più tiepida. Il mondo alle loro spalle, le luci del lungomare, il chiosco, le famiglie rientrate, svanì. Restava il mare e la lingua antica del suo sciabordio. Restava la sabbia che li accoglieva, il cielo messo così vicino che si poteva guardare le stelle senza cercarle. Restava la possibilità.
Andrea lo aiutò a stendersi sulla camicia, come si aiuta qualcuno a trovare una posizione comoda per ascoltare una storia lunga. Si misero di lato, faccia a faccia, le ginocchia che si sfioravano, le mani senza fretta.
«Dimmi se mi fermo, o se cambio,» disse Andrea. «Dimmi tu.»
Elia annuì. «Te lo dirò. E tu dimmi lo stesso.»
Ci fu un tempo fatto solo di carezze, palmi che imparavano curve, sporgenze, ritmi. Il corpo di Andrea raccontava una geografia nuova a Elia: la linea della spalla, la strada delle scapole, il respiro che si dilatava al centro del petto. Elia scoprì la sorpresa di essere guardato con un interesse che non aveva niente di famelico; era un’attenzione generosa, quasi contemplativa. Si accorse che il proprio pudore si trasformava in fiducia, che l’imbarazzo era solo un gradino da scendere per ritrovarsi a piedi nudi su un prato.
Si baciarono ancora, e ancora. A volte la lingua entrava e poi si ritraeva, come un’onda nella grotta; a volte il bacio si accorciava in un leggero premere di labbra che diceva “ci sono”, “ti sento”, “resto qui”. Ogni tanto ridevano per niente, per un granello di sabbia incastrato, per un ciuffo di capelli che si rifiutava di star fermo. In quelle risate, Elia riconobbe una leggerezza che non gli era mai appartenuta e che invece, con Andrea, gli veniva naturale.
Quando il desiderio salì, lo fece come sale la marea nei porti: senza scossoni, con fermezza. Non ci fu un momento preciso in cui passare dalla carezza al gesto più deciso; fu una transizione dolce, quasi ovvia, come se il corpo avesse assemblato da sé la sua grammatica. Andrea chiedeva sempre con lo sguardo, con il respiro, con la pausa. Elia rispondeva con un sì sussurrato, con un cenno, con il modo in cui si muoveva incontro.
Ci furono abbracci che si fecero più stretti, mani che impararono a fidarsi, pelle contro pelle. Il mondo si ridusse a una zona tiepida di sabbia e sale, a due corpi che si cercavano come chi ritrova una lingua madre dimenticata, a una notte che si faceva loro complice.
Più tardi, quando il mare alzò di poco la voce, rimasero distesi, supini, a guardare il buio luminoso del cielo.
«Sembra che qualcuno abbia soffiato zucchero sulle stelle,» disse Elia, con quella sua ironia gentile.
«Sembra che qualcuno abbia tolto il tappo al mio petto,» disse Andrea, e poi si mise a ridere, arrossendo da solo. «Scusa, poetavo male.»
«Poetavi giusto,» rispose Elia. Gli prese la mano e gliela mise sul proprio petto. «Vedi? Anche il mio è senza tappo.»
Rimasero così per un tempo che non potevano misurare. I respiri andarono a tempo con le onde. Una barca lontana lanciò una luce bianca e poi sparì dietro un’ombra. Il chiosco, più indietro, smise di suonare. Nella piega di quella quiete comparvero le parole che di solito non trovano posto.
«Avevo paura di non essere capace,» disse Elia, piano, come se parlasse a se stesso ma lasciando la porta aperta.
Andrea strinse le dita. «Di cosa?»
«Di volerlo e poi… di non sapere. Di essere impacciato. Di rovinare tutto.» Si voltò a guardarlo, cercando il coraggio negli occhi dell’altro. «È la mia prima volta. Non solo qui. Con te. Con un uomo. Non l’avevo mai detto così.»
Andrea lo ascoltò come si ascolta chi regala una verità. «Grazie.» La parola uscì semplice. «Anche per me è la prima volta adesso. Non la prima volta in assoluto, ma… la prima volta che non ho paura di quello che sono. La prima volta che mi sembra che tutto abbia un senso. Che io abbia un senso.»
Elia sorrise. «Allora siamo due principianti con un’anima da veterani.»
«Due principianti con una spiaggia intera dalla nostra parte,» aggiunse Andrea, alzando la mano per indicare il mare. «E una luna che ci fa da lampada da comodino.»
La notte girò ancora un po’ sul proprio asse. L’aria era satura di cose dette e di altre che si stavano preparando a uscire. Elia si alzò sui gomiti. «Vienimi vicino,» disse, e nel dirlo si accorse che per la prima volta non temeva la densità delle frasi. Le parole gli si erano fatte piccole, precise, sue.
Andrea gli andò vicino. Lo baciò sulla tempia, poi sulla guancia, poi all’angolo della bocca, con quella pazienza che ormai Elia gli riconosceva come una forma di tenerezza rara. Le loro gambe si intrecciarono quasi da sole. Ogni nuovo contatto aveva la freschezza delle cose inevitabili.
Era dolce, eppure pieno; era delicato, eppure vasto. Non ci furono atti da raccontare più di altri: ci fu un continuum di vicinanza. Ci fu il modo in cui Elia imparò a lasciare che l’altro entrasse nel suo spazio senza sentirsi invaso. Ci fu il modo in cui Andrea si lasciò guidare da un cenno, indietreggiando quando era troppo, avanzando quando era giusto. Ci fu il modo in cui entrambi capirono che la prima volta non è un punto, ma un tratto: il momento in cui si smette di immaginare e si comincia a vivere, e si scopre che il vivere è composto di microsegnali, di dare e di ricevere, di rispetto che pulsa come un secondo battito.
Quando si fermarono, fu perché il respiro chiedeva quiete e la pelle aveva accumulato abbastanza stelle. Si rannicchiarono l’uno nell’incavo dell’altro, a formare una figura nuova. Elia appoggiò la testa sul petto di Andrea, che odorava di mare e di qualcosa di più suo, una specie di mandorla calda.
«Mi sento… intero,» disse Elia. «Come se tutto quello che avevo sparso in giro, negli anni, fosse tornato a casa.»
Andrea gli accarezzò i capelli. «A me succede questo con te: mi tolgo addosso la paura e resto quello che sono.»
«Sai che c’è?» disse Elia, sollevandosi appena per guardarlo. «Non voglio che resti una notte senza nome. Voglio…» Cercò la parola. «Voglio un dopo. Non so quale, ma lo voglio.»
Andrea lo guardò con serietà, quella buona, da promessa mantenuta. «Anch’io.»
Si sedettero. La marea si era alzata quel tanto che bastava a bagnare il bordo della camicia. Andrea ridacchiò e la tirò più su, come si farebbe con una coperta disobbediente. La sabbia, appena umida, si attaccava alle caviglie in piccoli arabeschi.
«Domani,» disse Elia, così, a bruciapelo, «voglio rivederti. Non tra una settimana, non quando capita. Domani. Anche solo per un caffè.»
«Domani,» ripeté Andrea. «Al bar dei pescatori, quello con le sedie scompagnate.»
«Alle undici?» propose Elia, e il suo sorriso era quello di chi riceve un invito dal futuro.
«Alle undici,» confermò Andrea. «E poi… vediamo il resto.»
Rimasero ancora un po’, a guardare il mare chiamare i primi chiarori lontani, una striscia di grigio quasi impercettibile. Quando decisero di rientrare, lo fecero lentamente, senza fretta, come chi lascia una casa che saprà ritrovare. Si misero le scarpe solo sul cemento della passerella. Il chiosco era finalmente chiuso, il vento aveva spostato l’odore di resina più verso l’interno.
Camminarono affiancati. Ogni tanto si sfioravano con le dita, e ogni volta era come accendere una lampadina; non la tennero accesa, per il gusto di riaccenderla dopo.
«Posso accompagnarti a casa?» chiese Andrea, come se stesse chiedendo “posso restare nella tua vita ancora un tratto?”
«Sì.» Elia se ne stupì: la sua voce non tremava più.
La strada che portava al paese scorreva tra cespugli di oleandro e muri bassi. Le finestre erano tutte buie; i lampioni disegnavano ovali color miele sull’asfalto. Andrea raccontò di quando da piccolo scappava da casa per venire a sentire il mare di notte, come se senza quel suono non potesse dormire. Elia raccontò di una sera in cui, a quindici anni, aveva provato a dire a un amico “io credo di essere così” e l’amico aveva riso, non cattivo, ma ignorando il peso. Si ritrovò a sorridere e a pensare che quel peso, adesso, si era fatto leggero.
Davanti al portoncino di Elia, che dava su una corte interna piena di biciclette, si fermarono.
«Allora…» disse Elia, cercando con la mano la tasca dei jeans, più per imbarazzo che per bisogno.
Andrea lo fissò con dolcezza. «Allora domani alle undici.»
Elia annuì. «Posso darti un bacio da portare a casa?»
«Due,» rispose Andrea.
Il primo fu breve, quasi un sigillo. Il secondo si prolungò quel tanto che basta a lasciare un calore dentro, qualcosa che ti accompagna su per le scale e ti resta addosso quando spegni la luce. Quando si separarono, Andrea gli sfiorò la fronte con le labbra, poi fece un passo indietro.
«Buonanotte, Elia.»
«Buonanotte, Andrea.»
Elia salì le scale come chi ha imparato un ritmo nuovo. Si fermò sul pianerottolo a guardare il cielo tagliato in rettangoli dalla grata; una stella si spostò lentamente: un aereo, o un desiderio che fingeva di essere aereo. Nell’appartamento tutto odorava di quiete. Si sdraiò sul letto senza accendere la luce. La sabbia gli cadeva dalle caviglie in briciole minute, come residui di una festa segreta. Ressentì le labbra di Andrea, il vento, il mare. Si sentì per la prima volta da quando ricordava al proprio posto.
Andrea, nel frattempo, camminava verso casa con la camicia in mano. Aveva la sensazione che il mondo fosse stato lucidato. Ogni cosa era ancora sé stessa. I cespugli, i muretti, il frinire lontano, ma brillava di una qualità nuova. Si fermò a metà strada, guardò il telefono, scrisse “Arrivato?” e poi cancellò, decidendo di aspettare. Era bello anche aspettare, adesso. Era come allungare la notte senza strapparla.
Il mattino dopo, il bar dei pescatori aveva le sedie scompagnate disposte a caso, come sempre. Il mare, un po’ più increspato, spingeva l’odore del sale fin dentro la strada. Elia arrivò in anticipo. Si sedette al tavolo vicino all’angolo e guardò la porta. Aveva addosso la stessa calma incredula della notte prima.
Andrea arrivò qualche minuto dopo, con un casco da motorino sottobraccio. Si sorrisero prima ancora di salutarsi. Non ci fu bisogno di chiedere “caffè o cappuccino.” Si erano già capiti senza saperlo: due caffè, uno zucchero ciascuno, grazie.
Parlarono di cose leggere e, sotto, di cose profonde. Elia raccontò un sogno di quando era bambino, in cui costruiva castelli di sabbia così grandi da potercisi nascondere dentro. Andrea raccontò del nonno che aggiustava reti e diceva che i nodi più riusciti sono quelli che tieni d’occhio ma non stringi troppo.
A un certo punto, la conversazione scivolò da sola dove doveva andare. «Ti va di rivederci stasera?» chiese Andrea, sperando che la domanda non suonasse ansiosa.
Elia posò la tazzina. «Mi va di rivederti tutte le sere per un po’. Finché non ci stanchiamo. E poi ricominciare.» Si fermò, arrossì appena. «Se ti va.»
Andrea lo guardò serio e felice insieme. «Mi va.»
Uscirono dal bar. Il sole faceva i riflessi sulle portiere delle auto. Decisero di camminare. Non c’era una destinazione. La destinazione era la stessa della notte: stare lì, scoprire, dire. Camminando, ogni tanto si toccavano il gomito, il polso, polpastrello contro polpastrello, i piccoli contatti che, nella luce del giorno, raccontano più dei grandi.
Quella sera, quando tornarono in spiaggia, portarono un telo e una bottiglia d’acqua. Il mare era un po’ più scuro, le stelle a grappoli. Si sedettero nello stesso punto, come se quel tratto di sabbia li avesse aspettati.
Non c’era nulla da dimostrare. C’era solo da continuare: ascoltare, chiedere, toccarsi con la stessa cura attenta della prima notte. Ogni gesto aveva un seguito; ogni sì conteneva la memoria dei sì di prima. Ogni risata scioglieva un residuo di timore.
Più avanti, quando le stagioni sarebbero cambiate e la spiaggia avrebbe preso quel colore di conchiglia fredda, sarebbero tornati, magari con giacche pesanti e mani in tasca nel punto dove la riva fa un piccolo gomito. Avrebbero guardato il mare e si sarebbero detti “ti ricordi?”. E il mare avrebbe risposto con la stessa voce bassa: sì, la notte in cui due ragazzi di ventun anni, con il cuore che batteva come un tamburo imbarazzato, hanno scelto di diventare sé stessi l’uno con l’altro. La notte in cui la paura ha aperto una porta e loro ci sono entrati in due.
Quella prima notte, però, apparteneva ancora tutta al presente. E nel presente, sulla sabbia tiepida, con la luna che reggeva un’intimità morbida e senza fretta, Elia e Andrea si cercarono e si trovarono. Non avevano bisogno di definire. Avevano bisogno di essere. E furono: con la tenerezza di chi sa dosare, con il rispetto di chi chiede e ascolta, con la gioia limpida di due corpi giovani che imparano la grammatica dell’amore.
Quando la marea si ritirò, lasciando una scia di conchiglie pallide, rimasero stretti ancora un po’. Le parole non servivano. Bastava la pelle, che aveva imparato a dire.
«Grazie,» disse Elia, ad un certo punto, senza un motivo preciso e per tutti i motivi.
«Grazie a te,» rispose Andrea. «Per come mi guardi. Per come mi fai spazio.»
E la notte, complice, scese di un altro gradino, per farli riposare dentro la felicità nuova. Sulla riva degli inizi. Dove ogni onda che arriva somiglia a un “continua”. Dove il buio sgrana stelle come sillabe. Dove due ragazzi di ventun anni scoprono che la prima volta è soprattutto questo: scegliere la gentilezza. Con sé stessi, con l’altro, con il mondo che li ascolta dal margine, commosso e paziente come il mare.
Posso raccontare la vostra esperienza sia con un'accezione romantica che più cruda e spinta, a seconda delle vostre esigenze.
Per questo tipo di servizio, ho una speciale offerta che terminerà Domenica 24 Agosto.
Il vento di fine agosto arrivava in folate dolci, portando odore di alghe secche e di pini resinosi, mescolato alla scia zuccherina del chiosco rimasto aperto solo per i tardivi. La spiaggia, a quell’ora, era un rettangolo scuro di sabbia tiepida che sfumava nel lucore d’argento del mare. Le onde parlavano a bassa voce, come se avessero promesso di non interrompere nessuno.
Elia si tolse le scarpe e le tenne in mano. Aveva ventun anni compiuti da poco, e una timidezza che gli si leggeva sulle spalle, nel modo in cui le contraeva per difendersi perfino dal cielo. Sotto la luna, la sua ombra sembrava un animale fedele che lo seguiva senza domande. Camminava lungo la battigia lasciando impronte irregolari, che l’acqua cancellava come se non avesse mai osato.
Dietro di lui, a una distanza che era insieme rispetto e desiderio, veniva Andrea. Anche lui aveva ventun anni, e la statura dei pensieri che pesano, non per renderlo più grave ma per farlo più vero. Aveva il passo sciolto di chi ha passato estati intere a conoscere quel litorale palmo a palmo: le dune, le trabaccolari arrugginite, i buchi nella rete che portavano ai sentieri dei gigli marini. Quella sera portava una camicia chiara con le maniche arrotolate, e un sorriso che gli stava più negli occhi che sulle labbra.
«Ti va di sederci lì?» Disse infine, indicando un tratto di sabbia dove l’acqua arrivava a lambire e poi si ritirava imbarazzata.
Elia annuì. Si sedettero uno accanto all’altro. Il chiosco, alle loro spalle, lasciava cadere una musica lontana, appena un basso, qualche voce, come un ricordo che si addormenta. In quella mezz’ombra, il mare sembrava respirare insieme a loro.
«Non riesco mai a ricordare se mi piace di più la spiaggia di notte o all’alba,» disse Andrea, spezzando il silenzio come si spezza una nocciola, con cura. «Di notte tutto è possibile. All’alba tutto è già cominciato.»
Elia sorrise al profilo di lui, quasi senza farsi vedere. «Di notte non ci guarda nessuno,» mormorò. «E se ci guardano, non capiscono.»
Andrea si voltò piano. «Non abbiamo niente da nascondere.»
Elia abbassò gli occhi. «Lo so. Ma ci sono cose che si capiscono meglio se si sussurrano.» Fece una piccola risata, tesa come la corda di un violino. «Che frase da… da me.»
«Da te,» ripeté Andrea, intenerito. La parola gli si adagiò in bocca. «A me piacciono le cose da te.»
Rimasero così, con le ginocchia puntate verso l’acqua, a lasciarsi lambire dalle prime parole. Era la terza volta che uscivano da soli. Le prime due erano state cariche di un’intesa che somigliava alla luce che precede un temporale: un chiarore sospeso, magnetico. Avevano parlato di tutto, dei libri rimandati, del professore che li faceva impazzire, delle città dove avrebbero voluto perdersi. Non avevano parlato di quello che entrambi sapevano. O meglio: ne avevano parlato con altre parole, con una delicatezza che era già una promessa.
Andrea allungò una mano verso l’acqua, ne prese un po’ e gliela lasciò scivolare tra le dita. «È tiepida. Vuoi bagnarti i piedi?»
Elia annuì. Si alzarono. Camminarono fino a sentire la sabbia farsi più compatta, granelli che si serravano l’uno all’altro per sostenere il peso. L’onda arrivò e li avvolse alle caviglie. Elia rabbrividì, non per il freddo ma per l’improvvisa prossimità a tutto: alla notte, al mare, a Andrea.
«Sei venuto perché te l’ho chiesto o perché volevi venire?» Domandò Elia, cercando di sorridere. Gli uscì un sorriso vero, ma tremante.
Andrea lo guardò con quella sua pazienza allegra. «Perché volevo venire. E perché me l’hai chiesto. È una combinazione che non capita così spesso.»
Elia inspirò a fondo. Il sale gli pizzicò la gola. «Io…» Si interruppe. Non sapeva da dove cominciare. La frase gli stava dentro come un animale timoroso sull’uscio.
Andrea non lo incalzò. Si limitò a fare mezzo passo più vicino, in modo che le braccia potessero sfiorarsi senza che nessuno dei due dovesse fingere l’errore. «Dimmi quello che vuoi. O non dirmelo. Ma restiamo qui.»
Elia lo guardò, e fu come guardare per la prima volta un luogo dove si è già stati tante volte: tutto gli tornò familiare, ma con una lucidità nuova. Si accorse di voler toccare quel lembo di camicia arrotolato, la pelle all’interno del gomito, il neo appena sopra il polso. Si accorse di voler ricordare quella notte non solo con la memoria ma con i polpastrelli, come si ricordano le superfici.
«Ho paura,» disse piano, quasi scusandosi.
Andrea annuì, senza abbassare lo sguardo. «Anch’io. La paura è il posto dove si entra in due.»
L’onda successiva salì un poco più su; i piedi affondarono nella sabbia, come se la spiaggia volesse tenerli lì. Elia ridacchiò. «Che frase è? L’hai letta da qualche parte?»
«L’ho inventata adesso,» disse Andrea. «Spero regga la marea.»
Si misero a ridere entrambi, e la risata sciolse qualcosa. Tornarono a sedersi. Andrea si tolse la camicia e la posò dietro, a far da schienale. Restava una canottiera scura e le spalle illuminate appena dal riflesso del mare. Elia si sentì arrossire a vederlo così vicino, così definito e semplice.
«Sono ventun anni che aspetto di sentirmi a casa in un posto,» disse Elia, quasi parlando tra sé. «A volte penso che quel posto sia una persona. Non so se è un’idea stupida.»
Andrea si spostò di un palmo, sufficiente perché le loro cosce si toccassero. «Non è stupida. È rara.»
Elia si voltò. La bocca gli si aprì da sola, come davanti a una verità che non si può più tacere. «Mi piaci.» La frase cadde dritta, senza scuse.
Andrea chiuse gli occhi per un istante, come a ringraziare. Quando li riaprì, erano chiari come la lucertola della luna sull’acqua. «Anche tu mi piaci.» Lo disse con naturalezza, con la stessa sicurezza con cui si dice “qui c’è il mare”.
Il silenzio successivo fu un silenzio pieno, non più cauto. Elia sentì qualcosa cambiare nel proprio respiro; divenne più ampio, più piano. Si accorse di avere desideri che non erano più fantasmi—erano presenti, nitidi, a portata di mano.
«Posso?» chiese Andrea, alzando appena la mano.
Elia inclinò il viso, l’esitazione si mutò in fiducia. «Sì.»
La mano di Andrea gli sfiorò la guancia. Era calda, un po’ ruvida dalla sabbia, eppure tendeva al gesto con una dolcezza quasi studiata, come se avesse paura di rovinare un oggetto prezioso. Il contatto si fece più fermo. Elia chiuse gli occhi senza accorgersene, lasciando che quel tocco gli disegnasse il profilo del viso, l’osso dell’arcata, la delicatezza dell’orecchio.
Si baciarono.
Non fu un gesto rubato o trafelato, ma qualcosa che aveva aspettato e finalmente trovava il suo tempo. Le labbra si incontrarono con una timidezza che divenne presto curiosità, e poi gratitudine. Elia si accorse che il bacio non era come lo aveva immaginato negli anni passati a desiderarlo: non era una scena, era una lingua che si apprende, fatta di pause, di attenzione, di risate improvvise che entrano tra un tocco e l’altro. Andrea sapeva essere presente senza prevaricare. Ogni volta che Elia arretrava di un millimetro, Andrea gli lasciava quello spazio e lo seguiva solo se glielo concedeva.
Quando si staccarono, avevano la fronte appoggiata l’uno a quella dell’altro, e il respiro accordato.
«Va bene?» chiese Andrea.
Elia rise, e la risata gli tremò nel petto come una vela colpita dal vento. «Sì. Più che bene.»
L’aria si fece più tiepida. Il mondo alle loro spalle, le luci del lungomare, il chiosco, le famiglie rientrate, svanì. Restava il mare e la lingua antica del suo sciabordio. Restava la sabbia che li accoglieva, il cielo messo così vicino che si poteva guardare le stelle senza cercarle. Restava la possibilità.
Andrea lo aiutò a stendersi sulla camicia, come si aiuta qualcuno a trovare una posizione comoda per ascoltare una storia lunga. Si misero di lato, faccia a faccia, le ginocchia che si sfioravano, le mani senza fretta.
«Dimmi se mi fermo, o se cambio,» disse Andrea. «Dimmi tu.»
Elia annuì. «Te lo dirò. E tu dimmi lo stesso.»
Ci fu un tempo fatto solo di carezze, palmi che imparavano curve, sporgenze, ritmi. Il corpo di Andrea raccontava una geografia nuova a Elia: la linea della spalla, la strada delle scapole, il respiro che si dilatava al centro del petto. Elia scoprì la sorpresa di essere guardato con un interesse che non aveva niente di famelico; era un’attenzione generosa, quasi contemplativa. Si accorse che il proprio pudore si trasformava in fiducia, che l’imbarazzo era solo un gradino da scendere per ritrovarsi a piedi nudi su un prato.
Si baciarono ancora, e ancora. A volte la lingua entrava e poi si ritraeva, come un’onda nella grotta; a volte il bacio si accorciava in un leggero premere di labbra che diceva “ci sono”, “ti sento”, “resto qui”. Ogni tanto ridevano per niente, per un granello di sabbia incastrato, per un ciuffo di capelli che si rifiutava di star fermo. In quelle risate, Elia riconobbe una leggerezza che non gli era mai appartenuta e che invece, con Andrea, gli veniva naturale.
Quando il desiderio salì, lo fece come sale la marea nei porti: senza scossoni, con fermezza. Non ci fu un momento preciso in cui passare dalla carezza al gesto più deciso; fu una transizione dolce, quasi ovvia, come se il corpo avesse assemblato da sé la sua grammatica. Andrea chiedeva sempre con lo sguardo, con il respiro, con la pausa. Elia rispondeva con un sì sussurrato, con un cenno, con il modo in cui si muoveva incontro.
Ci furono abbracci che si fecero più stretti, mani che impararono a fidarsi, pelle contro pelle. Il mondo si ridusse a una zona tiepida di sabbia e sale, a due corpi che si cercavano come chi ritrova una lingua madre dimenticata, a una notte che si faceva loro complice.
Più tardi, quando il mare alzò di poco la voce, rimasero distesi, supini, a guardare il buio luminoso del cielo.
«Sembra che qualcuno abbia soffiato zucchero sulle stelle,» disse Elia, con quella sua ironia gentile.
«Sembra che qualcuno abbia tolto il tappo al mio petto,» disse Andrea, e poi si mise a ridere, arrossendo da solo. «Scusa, poetavo male.»
«Poetavi giusto,» rispose Elia. Gli prese la mano e gliela mise sul proprio petto. «Vedi? Anche il mio è senza tappo.»
Rimasero così per un tempo che non potevano misurare. I respiri andarono a tempo con le onde. Una barca lontana lanciò una luce bianca e poi sparì dietro un’ombra. Il chiosco, più indietro, smise di suonare. Nella piega di quella quiete comparvero le parole che di solito non trovano posto.
«Avevo paura di non essere capace,» disse Elia, piano, come se parlasse a se stesso ma lasciando la porta aperta.
Andrea strinse le dita. «Di cosa?»
«Di volerlo e poi… di non sapere. Di essere impacciato. Di rovinare tutto.» Si voltò a guardarlo, cercando il coraggio negli occhi dell’altro. «È la mia prima volta. Non solo qui. Con te. Con un uomo. Non l’avevo mai detto così.»
Andrea lo ascoltò come si ascolta chi regala una verità. «Grazie.» La parola uscì semplice. «Anche per me è la prima volta adesso. Non la prima volta in assoluto, ma… la prima volta che non ho paura di quello che sono. La prima volta che mi sembra che tutto abbia un senso. Che io abbia un senso.»
Elia sorrise. «Allora siamo due principianti con un’anima da veterani.»
«Due principianti con una spiaggia intera dalla nostra parte,» aggiunse Andrea, alzando la mano per indicare il mare. «E una luna che ci fa da lampada da comodino.»
La notte girò ancora un po’ sul proprio asse. L’aria era satura di cose dette e di altre che si stavano preparando a uscire. Elia si alzò sui gomiti. «Vienimi vicino,» disse, e nel dirlo si accorse che per la prima volta non temeva la densità delle frasi. Le parole gli si erano fatte piccole, precise, sue.
Andrea gli andò vicino. Lo baciò sulla tempia, poi sulla guancia, poi all’angolo della bocca, con quella pazienza che ormai Elia gli riconosceva come una forma di tenerezza rara. Le loro gambe si intrecciarono quasi da sole. Ogni nuovo contatto aveva la freschezza delle cose inevitabili.
Era dolce, eppure pieno; era delicato, eppure vasto. Non ci furono atti da raccontare più di altri: ci fu un continuum di vicinanza. Ci fu il modo in cui Elia imparò a lasciare che l’altro entrasse nel suo spazio senza sentirsi invaso. Ci fu il modo in cui Andrea si lasciò guidare da un cenno, indietreggiando quando era troppo, avanzando quando era giusto. Ci fu il modo in cui entrambi capirono che la prima volta non è un punto, ma un tratto: il momento in cui si smette di immaginare e si comincia a vivere, e si scopre che il vivere è composto di microsegnali, di dare e di ricevere, di rispetto che pulsa come un secondo battito.
Quando si fermarono, fu perché il respiro chiedeva quiete e la pelle aveva accumulato abbastanza stelle. Si rannicchiarono l’uno nell’incavo dell’altro, a formare una figura nuova. Elia appoggiò la testa sul petto di Andrea, che odorava di mare e di qualcosa di più suo, una specie di mandorla calda.
«Mi sento… intero,» disse Elia. «Come se tutto quello che avevo sparso in giro, negli anni, fosse tornato a casa.»
Andrea gli accarezzò i capelli. «A me succede questo con te: mi tolgo addosso la paura e resto quello che sono.»
«Sai che c’è?» disse Elia, sollevandosi appena per guardarlo. «Non voglio che resti una notte senza nome. Voglio…» Cercò la parola. «Voglio un dopo. Non so quale, ma lo voglio.»
Andrea lo guardò con serietà, quella buona, da promessa mantenuta. «Anch’io.»
Si sedettero. La marea si era alzata quel tanto che bastava a bagnare il bordo della camicia. Andrea ridacchiò e la tirò più su, come si farebbe con una coperta disobbediente. La sabbia, appena umida, si attaccava alle caviglie in piccoli arabeschi.
«Domani,» disse Elia, così, a bruciapelo, «voglio rivederti. Non tra una settimana, non quando capita. Domani. Anche solo per un caffè.»
«Domani,» ripeté Andrea. «Al bar dei pescatori, quello con le sedie scompagnate.»
«Alle undici?» propose Elia, e il suo sorriso era quello di chi riceve un invito dal futuro.
«Alle undici,» confermò Andrea. «E poi… vediamo il resto.»
Rimasero ancora un po’, a guardare il mare chiamare i primi chiarori lontani, una striscia di grigio quasi impercettibile. Quando decisero di rientrare, lo fecero lentamente, senza fretta, come chi lascia una casa che saprà ritrovare. Si misero le scarpe solo sul cemento della passerella. Il chiosco era finalmente chiuso, il vento aveva spostato l’odore di resina più verso l’interno.
Camminarono affiancati. Ogni tanto si sfioravano con le dita, e ogni volta era come accendere una lampadina; non la tennero accesa, per il gusto di riaccenderla dopo.
«Posso accompagnarti a casa?» chiese Andrea, come se stesse chiedendo “posso restare nella tua vita ancora un tratto?”
«Sì.» Elia se ne stupì: la sua voce non tremava più.
La strada che portava al paese scorreva tra cespugli di oleandro e muri bassi. Le finestre erano tutte buie; i lampioni disegnavano ovali color miele sull’asfalto. Andrea raccontò di quando da piccolo scappava da casa per venire a sentire il mare di notte, come se senza quel suono non potesse dormire. Elia raccontò di una sera in cui, a quindici anni, aveva provato a dire a un amico “io credo di essere così” e l’amico aveva riso, non cattivo, ma ignorando il peso. Si ritrovò a sorridere e a pensare che quel peso, adesso, si era fatto leggero.
Davanti al portoncino di Elia, che dava su una corte interna piena di biciclette, si fermarono.
«Allora…» disse Elia, cercando con la mano la tasca dei jeans, più per imbarazzo che per bisogno.
Andrea lo fissò con dolcezza. «Allora domani alle undici.»
Elia annuì. «Posso darti un bacio da portare a casa?»
«Due,» rispose Andrea.
Il primo fu breve, quasi un sigillo. Il secondo si prolungò quel tanto che basta a lasciare un calore dentro, qualcosa che ti accompagna su per le scale e ti resta addosso quando spegni la luce. Quando si separarono, Andrea gli sfiorò la fronte con le labbra, poi fece un passo indietro.
«Buonanotte, Elia.»
«Buonanotte, Andrea.»
Elia salì le scale come chi ha imparato un ritmo nuovo. Si fermò sul pianerottolo a guardare il cielo tagliato in rettangoli dalla grata; una stella si spostò lentamente: un aereo, o un desiderio che fingeva di essere aereo. Nell’appartamento tutto odorava di quiete. Si sdraiò sul letto senza accendere la luce. La sabbia gli cadeva dalle caviglie in briciole minute, come residui di una festa segreta. Ressentì le labbra di Andrea, il vento, il mare. Si sentì per la prima volta da quando ricordava al proprio posto.
Andrea, nel frattempo, camminava verso casa con la camicia in mano. Aveva la sensazione che il mondo fosse stato lucidato. Ogni cosa era ancora sé stessa. I cespugli, i muretti, il frinire lontano, ma brillava di una qualità nuova. Si fermò a metà strada, guardò il telefono, scrisse “Arrivato?” e poi cancellò, decidendo di aspettare. Era bello anche aspettare, adesso. Era come allungare la notte senza strapparla.
Il mattino dopo, il bar dei pescatori aveva le sedie scompagnate disposte a caso, come sempre. Il mare, un po’ più increspato, spingeva l’odore del sale fin dentro la strada. Elia arrivò in anticipo. Si sedette al tavolo vicino all’angolo e guardò la porta. Aveva addosso la stessa calma incredula della notte prima.
Andrea arrivò qualche minuto dopo, con un casco da motorino sottobraccio. Si sorrisero prima ancora di salutarsi. Non ci fu bisogno di chiedere “caffè o cappuccino.” Si erano già capiti senza saperlo: due caffè, uno zucchero ciascuno, grazie.
Parlarono di cose leggere e, sotto, di cose profonde. Elia raccontò un sogno di quando era bambino, in cui costruiva castelli di sabbia così grandi da potercisi nascondere dentro. Andrea raccontò del nonno che aggiustava reti e diceva che i nodi più riusciti sono quelli che tieni d’occhio ma non stringi troppo.
A un certo punto, la conversazione scivolò da sola dove doveva andare. «Ti va di rivederci stasera?» chiese Andrea, sperando che la domanda non suonasse ansiosa.
Elia posò la tazzina. «Mi va di rivederti tutte le sere per un po’. Finché non ci stanchiamo. E poi ricominciare.» Si fermò, arrossì appena. «Se ti va.»
Andrea lo guardò serio e felice insieme. «Mi va.»
Uscirono dal bar. Il sole faceva i riflessi sulle portiere delle auto. Decisero di camminare. Non c’era una destinazione. La destinazione era la stessa della notte: stare lì, scoprire, dire. Camminando, ogni tanto si toccavano il gomito, il polso, polpastrello contro polpastrello, i piccoli contatti che, nella luce del giorno, raccontano più dei grandi.
Quella sera, quando tornarono in spiaggia, portarono un telo e una bottiglia d’acqua. Il mare era un po’ più scuro, le stelle a grappoli. Si sedettero nello stesso punto, come se quel tratto di sabbia li avesse aspettati.
Non c’era nulla da dimostrare. C’era solo da continuare: ascoltare, chiedere, toccarsi con la stessa cura attenta della prima notte. Ogni gesto aveva un seguito; ogni sì conteneva la memoria dei sì di prima. Ogni risata scioglieva un residuo di timore.
Più avanti, quando le stagioni sarebbero cambiate e la spiaggia avrebbe preso quel colore di conchiglia fredda, sarebbero tornati, magari con giacche pesanti e mani in tasca nel punto dove la riva fa un piccolo gomito. Avrebbero guardato il mare e si sarebbero detti “ti ricordi?”. E il mare avrebbe risposto con la stessa voce bassa: sì, la notte in cui due ragazzi di ventun anni, con il cuore che batteva come un tamburo imbarazzato, hanno scelto di diventare sé stessi l’uno con l’altro. La notte in cui la paura ha aperto una porta e loro ci sono entrati in due.
Quella prima notte, però, apparteneva ancora tutta al presente. E nel presente, sulla sabbia tiepida, con la luna che reggeva un’intimità morbida e senza fretta, Elia e Andrea si cercarono e si trovarono. Non avevano bisogno di definire. Avevano bisogno di essere. E furono: con la tenerezza di chi sa dosare, con il rispetto di chi chiede e ascolta, con la gioia limpida di due corpi giovani che imparano la grammatica dell’amore.
Quando la marea si ritirò, lasciando una scia di conchiglie pallide, rimasero stretti ancora un po’. Le parole non servivano. Bastava la pelle, che aveva imparato a dire.
«Grazie,» disse Elia, ad un certo punto, senza un motivo preciso e per tutti i motivi.
«Grazie a te,» rispose Andrea. «Per come mi guardi. Per come mi fai spazio.»
E la notte, complice, scese di un altro gradino, per farli riposare dentro la felicità nuova. Sulla riva degli inizi. Dove ogni onda che arriva somiglia a un “continua”. Dove il buio sgrana stelle come sillabe. Dove due ragazzi di ventun anni scoprono che la prima volta è soprattutto questo: scegliere la gentilezza. Con sé stessi, con l’altro, con il mondo che li ascolta dal margine, commosso e paziente come il mare.
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