La ferita e la febbre

di
genere
etero

Scrivo racconti erotici su commissione. Se interessati/e, scrivetemi al mio indirizzo e-mail: nicola.pavelli@gmail.com o su Instagram: nicola_pavelli

La porta si richiuse dietro Cataldo con il solito tonfo basso, un rumore che la casa di Alice aveva imparato a riconoscere. Non era un suono diverso dagli altri, eppure portava con sé un odore preciso: pelle, tabacco, benzina. Ogni volta che entrava, quel miscuglio occupava l’aria prima ancora di lui, insinuandosi nelle fibre del divano, negli asciugamani ordinati a mano da Alice, tra i bicchieri allineati a distanza esatta. Il profumo di Giorgio, più pulito e sottile, sembrava arretrare di un passo, come se facesse spazio.
Cataldo non chiese permesso. Non lo faceva da settimane. Camminò nel corridoio a passi lenti, misurati, accarezzando i muri con le nocche come si controlla la carrozzeria di un’auto appena riparata. Si fermò all’ingresso del soggiorno, tese la mascella e inspirò.
“«La tua casa parla,” disse, senza guardarla. “Basta ascoltarla.”
Alice non rispose. Aveva le chiavi ancora in mano, fredde contro il palmo. Sentiva in sé il solito scarto: quell’ansia buona e cattiva, che le tingeva lo stomaco di metallo e poco dopo le scendeva tra le gambe come calore. Sarebbe voluta rimanere immobile, trattenere il respiro per ritardare il momento, ma il corpo le andò incontro. Lo faceva sempre, ormai. Cataldo era una corrente, e lei non resisteva all’acqua che la prendeva di taglio.
Lui aggirò il tavolo e si lasciò cadere sulla sedia di Giorgio. Una sedia uguale alle altre, eppure no: quella era modellata dal peso di lui, dall’abitudine delle sue veglie, dalle dita che la sfioravano quando leggeva. Cataldo ci buttò sopra la giacca di pelle con un gesto negligente, marcando territorio. “Dovresti cambiare caffè,” mormorò dopo il primo sguardo in cucina. “Quello che prende il tuo soldatino sa di preghiera. Io te ne porto uno che sa di bestemmia.”
Alice sorrise di taglio, più per difesa che per ironia. Avrebbe voluto dirgli di non chiamarlo così. Soldatino. Ma lasciò correre: quella parola li definiva, tutti e tre. Giorgio come altrove, verticale e devoto. Cataldo come quaggiù, inclinato e sfrontato. Lei come ponte tra i due, estuario e ferita.
Cataldo fece due passi verso il mobile basso, aprì uno sportello senza guardare, lo richiuse, si chinò più in basso. Le dita si fermarono su una piccola scatola color cartone, senza etichette, spigoli un po’ smussati. La tirò fuori con delicatezza inattesa, la depositò sul tavolo e la toccò con un solo dito, come si farebbe con una reliquia o una bomba.
“Questa.” La parola cadde piatta. “Pensavi che non la trovasse nessuno?”
Il sangue di Alice ebbe una ricaduta netta. Quella scatola. Piccola, quasi modesta. Dentro, i resti di una storia troppo breve: un braccialetto di plastica con un nome che non era mai diventato vero, una stampa in bianco e nero con un’ombra ovale che aveva creduto di poter chiamare futuro, due fogli d’ospedale piegati male. Non la apriva da mesi. La teneva nascosta in fondo, dietro alle tovaglie da ospiti, come se potesse confondere la memoria col lino.
“L’hai toccata?” Domandò, e la sua voce le uscì più bassa di quanto volesse.
“L’ho ascoltata,” rispose Cataldo. Si accostò al tavolo, non ancora su di lei. “E parlava forte. Che peccato che tu non l’abbia sentita prima.” Accennò un sorriso, senza allegria. “Ci sono cose che non ti dico perché preferisco scoprirle da solo.”
Il cuore le fece un doppio battito, sordo.
“Cosa credi di aver capito?” La domanda le uscì piano, ma dentro aveva pali e corde tese.
Cataldo trasse un respiro lungo. Aveva un modo tutto suo di avvicinarsi: mai di colpo, sempre per gradi, come chi fa derapare un’auto su curva e sa esattamente quando raddrizzare. Le passò dietro, le raccolse i capelli con una mano e li lasciò ricadere in avanti, scoprendole la nuca. Le nocche la sfiorarono, ruvide.
“Che in questa casa la promessa e il lutto hanno apparecchiato lo stesso tavolo,” disse al suo orecchio. “Che lui voleva riempirti di futuro e il futuro non ha tenuto. Che a te piace credere che quel vuoto ti faccia migliore, più attenta, più pura.” Le mordicchiò il lobo. “Ma non è così. A te piace essere piena adesso. Qui. Nel modo più semplice e sporco.” La lingua segnò un solco caldo. “E lo sai da quando? Da quando hai sentito che io posso far sparire il dolore con una mano.”
Alice serrò le dita attorno alle chiavi e poi le lasciò cadere. Il tintinnio sembrò minuscolo e insieme enorme. Avrebbe voluto dire no. Avrebbe voluto dire basta. Avrebbe voluto difendere il nome non nato. Invece, ciò che le uscì fu un inspiegabile.
“Non parlare di lui.” E si accorse subito, al pronome, che aveva dato ragione a Cataldo: lo aveva chiamato lui, e non loro.
Cataldo non insistette subito. Non era il suo stile spingere a parole fino a spezzare. Preferiva spingere il corpo e farlo parlare. La girò con le mani, la posò con le anche contro il bordo del tavolo. Il legno, liscio e pulito, le premette nell’osso come un promemoria. “Qui,” disse con una semplicità quasi tenera. “Qui avete parlato di nomi e di colori per la cameretta, vero? Qui avete contato le settimane. Qui ti sei fatta forte.” La guardò negli occhi e le infilò due dita nella cintura, tirando piano. “Ora fai una cosa più semplice: smetti di pensare. Apriti e respira.”
Le dita di lui erano sempre un po’ troppo calde, come se il sangue di Cataldo vi corresse più in fretta che negli altri. Le appoggiò sui fianchi di Alice senza stringerla del tutto, presentandole il peso invece della forza. Lei non si mosse, sentiva il respiro che le si addensava in alto, come prima del pianto e prima dell’orgasmo. Cataldo abbassò lo sguardo, scese a livello del ventre, le sfiorò la linea dell’ombelico con il dorso della mano, un gesto che parve soffiare su una cenere centralissima.
“Non sono venuto a compatirti,” disse. “La pietà puzza.” Poi, più basso: “Sono venuto a prenderti finché piangere e godere ti sembreranno la stessa cosa. Così, quando ti guardi allo specchio, vedrai che non sei una bara di ricordi. Sei carne viva.”
Il primo bacio non fu un bacio ma un’assicurazione di presa: labbra che afferrano, lingua che chiede senza chiedere. Alice lo ricevette inclinando di un soffio la testa, il giusto per fargli capire che sì, ancora. Sentì la brama impastata di fumo e una venatura di birra. Le si accese il petto e subito più in basso, come se il corpo avesse riconosciuto un codice noto. Un lampo di stanza d’ospedale si affacciò. Luce al neon, cotone, le nocche bianche di Giorgio che stringevano le sue. Tutto fu spazzato via dal secondo bacio, più profondo. Cataldo non lasciava margini ai pensieri: li rosicchiava ai bordi come legno.
Le tolse la camicetta in due gesti, uno solo per i bottoni che saltarono via, l’altro per scoprire la pelle. Alice sentì l’aria della casa, tiepida, carezzarla ovunque il tessuto si ritirava. Il capezzolo si indurì all’istante. “Così,” fece lui senza compiacimento, come chi verifica un lavoro ben eseguito. La fece scivolare di schiena sul tavolo, con un’attenzione sbrigativa che pure non era brutalità. “Tienimi lo sguardo.” Lei obbedì, come sempre.
Cataldo si inginocchiò, le baciò la coscia sinistra all’interno, poi la destra, un ritmo tranquillo da cacciatore che ha già la preda. Le sollevò la gonna, le spostò la biancheria appena quel tanto che bastava a lasciarla nuda all’aria. “Hai ancora addosso il profumo da brava ragazza,” disse con un mezzo sorriso. “Fra cinque minuti non saprà più come ti chiami.”
Il primo tocco di lingua fu chirurgico, appena dentro, ruvido. Alice ebbe un sussulto senza volerlo. Cataldo non la lasciò ritrarre: le posò un avambraccio sulle anche, senza peso eppure definitivo, e continuò, alternando pressioni ampie e colpi corti e precisi. Sapeva leggerla. Ormai la conosceva: il modo in cui i suoi muscoli si assestavano prima di cedere, il tremito, il respiro che cambiava angolo. “Così,” mormorò, più per sé che per lei, come si parla tra denti a un motore ben carburato. “Così ti si stacca tutto da dosso.”
Alice provò a tenere il pensiero, a richiamarlo, a tenerlo in vita: il braccialetto di plastica, il nome solo pensato, i giorni contati a matita sul calendario della cucina, le mattine in cui il caffè aveva saputo di ferro. Ma la bocca di Cataldo scavava, scavava e riempiva, e il pensiero si sfocava, perdeva la sagoma. La gola si strinse per piangere e si aprì per un gemito. Il suono le uscì spezzato, si trasformò a metà. “Guarda come parli bene senza parole,” sussurrò lui, risalendo a morsi rapidi lungo il ventre, il petto, la clavicola. La mano le riprese la mandibola. “Tienimi gli occhi.”
Quando entrò, lo fece senza fretta e senza preavviso, con quell’esaustiva naturalezza che ormai le era familiare: un affondo deciso, profondo, calibrato come un colpo che sposta un mobile pesante sul pavimento. Il tavolo scricchiolò appena. Alice gemette più forte, stavolta. All’inizio fu dolore: quel dolore che non è ferita ma apertura, un anello troppo teso che si fa passare. Cataldo restò fermo un respiro, come sempre, il tempo di sentire il corpo di lei riorganizzarsi attorno a lui; poi iniziò a muoversi. Lento, e poi più ampio. Ogni spinta apparteneva al presente in un modo che non lasciava posto all’altro tempo.
“Quando ti riempio,” disse, tenendola per i fianchi, “pensi al vuoto, vero?” Un colpo più fondo. “Pensa a me.” Un altro, più basso, spinto verso il pavimento. “Pensa al tuo corpo che non deve chiedere scusa a nessuno.”
Alice si accorse delle lacrime solo quando due righe le salirono alle tempie e le scesero dietro le orecchie, fredde. Non era tristezza pura. Era una pressione che trovava due valvole contemporanee. Cataldo la guardò piangere e sorrise di mezzo centimetro. Nessuna derisione. Solo una soddisfazione concentrata, feroce. “Brava,” le disse. “Adesso sei vera.”
Le mani di lui la tenevano salda, né dolci, né crudeli. Era controllo, non tortura. La spostava di un grado quando voleva cambiare angolo, la riaccostava quando sentiva che stava per perderlo. Le prese un polso e glielo portò sopra la testa, l’altro lo posò sul proprio collo, come a dirle stringimi. Lei strinse. Sentì il tendine sotto le dita, vivo. Sentì i muscoli di Cataldo vibrarle contro il fianco. Sentì sé stessa diventare un unico gesto.
Un flash: la stanza bianca, Giorgio che le bacia la fronte e le sussurra che non è colpa sua, il medico che parla con la voce di cotone e dice parole come “probabilità” e “accade”. Che strani quei giorni, con la luce sempre identica. Poi un altro flash, sovrapposto: la lingua di Cataldo che le dice “adesso” senza dirlo, il suo fiato che le asciuga le lacrime a metà, il ritmo che cambia e la porta da un’altra parte. Il cervello provò a tenere insieme le due immagini e non ci riuscì. Smise di provarci. Quel sopra e quel sotto si staccarono come due carte incollate male.
Cataldo la sollevò dal tavolo e, senza sfilarla, la fece scivolare lungo il piano fino allo spigolo. “Apriti,” disse piano. Alice lo fece, le gambe più larghe, la schiena che cercava un punto di appoggio e lo trovò nel legno. “Guardami,” ripeté. Lei lo guardò. Gli occhi di lui erano neri e lucidi, senza promessa. Dentro non c’era futuro: c’era adesso. “Voglio vedere il momento esatto in cui smetti di pensare a lui.”
Lei lo vide accadere. Non fu un taglio netto, più una dissolvenza. Il volto di Giorgio si fece lontano, prima come se fosse in un’altra stanza, poi come se fosse dietro un vetro bagnato. Non sparì. Rimise a fuoco più in là, come un santo appeso giù in corridoio, che non guarda la scena ma la benedice senza parole. E mentre il suo fantasma si sistemava, la carne di Alice premeva verso l’orgasmo con una intenzione animalesca, precisa. Il corpo sapeva, e voleva arrivare.
Cataldo se ne accorse perfino prima di lei. Cambiò ritmo ancora una volta, proprio quel tanto che bastava per spingerla in salita: tre colpi corti e uno più lungo, un breve ritiro e una spinta piena, un’accelerazione tenuta a freno. “Così,” disse, e sembrò quasi dolce nella ferocia. “Così cancelli, così riscrivi.” Le prese il viso con il palmo. “Dimmi dov’è il dolore adesso.”
“Non… non c’è,” riuscì a dire lei, e la voce le uscì rotta e arsa.
“Brava.” Un colpo profondo, preciso. “Dov’è?”
“Qui.” Le dita di lei sul suo collo, sul suo petto, sulla sua bocca. “Qui.”
Il piacere le montò come febbre che trova vena. Non fu elegante. Non fu composto. Le salì caldo dietro al pube, le dilatò i polmoni, le piegò i piedi. La gola le si aprì per un suono che all’inizio voleva essere pianto e poi divenne grido. Cataldo le prese la bocca e il grido gli si sciolse dentro, condiviso e masticato. Le mani di lui le tennero la schiena e la nuca mentre veniva, le dita la segnarono con righe di calore che sarebbero rimaste per ore. Non contò il tempo. Non c’era più calendario.
Quando l’onda si ritirò, lasciando in giro piccoli laghi di tremito, Cataldo restò dentro ancora un istante, fermo. Le annusò la guancia come un animale che memorizza. Poi si mosse due volte, tre, e venne con un ringhio basso, addentandole la spalla senza farle male. Il peso di lui le rimase addosso abbastanza a lungo da farle sentire la propria leggerezza, come se i contorni del suo corpo si fossero riposizionati.
Restarono così, legati e immobili, un po’ sudati, un po’ col fiato corto, mentre la luce in cucina passava da gialla a un quasi arancio. Fu allora che Alice si accorse che non aveva più la gola nel nodo. Il dolore antico si era messo seduto da qualche parte, più lontano. Non zittito: sporco. Come se qualcuno gli avesse gettato sopra del vino rosso, e adesso fosse difficile riconoscerlo. Non sapeva se quella sporcizia fosse sacrilega o salvifica. Sapeva soltanto che respirava meglio.
Cataldo si scostò appena, senza sfilarsi del tutto. Le baciò la tempia, un bacio distratto, quasi assente, e le carezzò la coscia con due dita. “Vedi?” Disse in un soffio. “Io aggiusto. Lui perde.”
Alice non rispose. Il primo impulso fu di odiarlo per quella frase. Non per difendere Giorgio, ma per difendere la parte di sé che ancora credeva che il dolore dovesse essere intatto per essere vero. Eppure, sotto, un’altra parte di lei, più bassa, più onesta, dovette ammetterlo: la ferita si era spostata. Non pulsava più allo stesso posto. Aveva cambiato colore, confini, temperatura. E, Dio santo, mentre cercava il giudizio, sentì anche l’eco tiepida del piacere ancora accesa nelle ossa, come una brace che non vuole spegnersi.
Cataldo si sfilò con un gesto lento, le sistemò la gonna senza pudore né delicatezza, la tirò perché stesse a posto e la lasciò così, disordinata ma composta. “Stasera ho tempo,” disse, come chi parla del meteo. “Se vuoi che torni.”
Alice si staccò dal tavolo, si sedette di taglio, una mano che cercava in automatico un tovagliolo, un bicchiere, qualunque cosa la riportasse a un gesto normale. “Non lo so,” disse. E quel non lo so era vero: il corpo avrebbe detto sì all’istante, la mente avrebbe voluto fuggire per ventiquattr’ore e rinominare ogni oggetto di casa perché smettesse di parlare. Restò in quella sospensione. Cataldo non insistette, il che, paradossalmente, fu la forma di pressione più efficace.
Si rimise la camicia rotta, abbottonandola dove poteva. Cataldo la guardò fare, divertito, come sempre accadeva quando lei cercava di rimettere in piedi una dignità di tessuto dopo che lui l’aveva sgualcita. “Non ti sta male così,” disse. “Ti ricorda che non sei di carta.”
Lei si alzò, andò verso il lavandino e aprì l’acqua per sentire un suono altro. Si sciacquò il volto, le dita quasi tremanti. Nello specchio sopra il piano, vide riflesso non soltanto sé stessa ma il corridoio alle sue spalle, lo spiraglio della camera, la sedia di Giorgio con la giacca di pelle gettata sopra. Quel contrasto le prese lo stomaco. Guardò sé stessa negli occhi, e gli occhi le parvero diversi: non più lucidi di pianto, non più opachi di vergogna, ma lucidi di qualcosa.
Potere?
Forse era questa la parola che da giorni non aveva osato dire: potere. Il potere di lasciare che il dolore si trasformasse in qualcos’altro senza sentirsi traditrice.
Si passò un asciugamano sulle guance e tornò al tavolo. Cataldo aveva ripreso la scatola di cartone e la stava spingendo indietro verso lo sportello da cui l’aveva presa.
“Non buttarla,” disse, come se fosse lui a dettare liturgie. “Non mi piacciono le case che fingono.” La rimise dentro, con lo stesso gesto lento con cui si rinfila un coltello nel fodero. “Ma non lasciarla anche in cucina. Sposta la memoria dove ti serve. Non dove ti punisce.”
La frase la colpì nel punto sbagliato, ed ebbe voglia di gridargli che non aveva diritto. Non aveva diritto su quel prima. Ma la voglia si spense a metà, e ciò che rimase fu un accordo strano: Cataldo non aveva diritto, no, eppure stava lavorando con materiale vero. La religione del dolore che lei aveva costruito aveva fatto il suo tempo; oggi era stato un altro rito. Impuro, ma efficace.
Cataldo si rimise la giacca dalla sedia di Giorgio, facendola scivolare sulle spalle con gusto. Passò il pollice sul bordo del tavolo, là dove il legno aveva scricchiolato, come se volesse segnare la tacca. “Hai qualcosa di mio addosso,” disse, guardandola alto. “Tieni quella sensazione. Ti sta bene.”
Si avviò verso la porta. Si fermò a metà corridoio, fissando un punto che solo lui vedeva.
“Ah,” fece, come se si fosse appena ricordato di un dettaglio. “Se domani lui ti chiede perché sei più leggera, digli che hai cambiato caffè.” Le lanciò uno sguardo laterale. “È quasi vero.”
Quando la porta si richiuse di nuovo con il tonfo basso, la casa parve aspirare e poi espirare, come dopo uno sforzo. Alice restò in piedi un minuto intero, in ascolto dei rumori minimi: il tic della cucina, l’acqua che si assestava nei tubi, un’auto giù in strada. Si sedette infine sulla sedia libera, non quella di Giorgio, non quella dove si era appoggiato Cataldo, e guardò il tavolo. Ci vide entrambe le cose: la cartina dei colori appoggiata lì mesi prima, accanto alla stampa in bianco e nero, e il suo corpo di poche decine di minuti fa spalancato, bagnato, occupato.
Si portò le dita al collo, dove le era rimasto il segno caldo della mano di lui. Le rimase addosso a lungo, come a voler capire che temperatura avesse. Poi chiuse gli occhi, e nell’oscurità venne a trovarla il volto di Giorgio, nitido. Non era in collera. Non era a pezzi. Stava in piedi, leggermente di lato, quasi come se avesse veduto. Non guardava lei e Cataldo, non in quella stanza; guardava lei, soltanto lei, con quella pazienza che sapeva essere amore e abisso. Le labbra di Giorgio non si mossero, ma nella sua mente Alice sentì la frase di sempre: non è colpa tua. Solo che adesso, per la prima volta, la frase non suonò come un assolvere. Suonò come un lasciare andare.
Aprì gli occhi. Si rialzò. Andò verso lo sportello, tirò fuori la scatola, la tenne in braccio un momento, come si tiene una cosa che pesa poco ma pesa molto. Non la aprì. La portò in camera. Non la mise in alto né in basso: la infilò nel cassetto del comodino, al livello delle mani, non di ginocchia né di aria. Quando richiuse, le sembrò di aver spostato non la scatola, ma una stanza intera.
Tornò in cucina, spostò la sedia di Giorgio di due centimetri, giusto per raddrizzarla. Guardò il piano, lisciò con il palmo il punto dove il legno aveva fatto voce. Poi prese un bicchiere, lo riempì di acqua, bevve piano. L’acqua era fredda e pulita, ma sotto restava una lingua di fuoco, residuo buono, un promemoria. Si toccò la bocca con il dorso della mano e sentì che stava sorridendo, senza volerlo. Non un sorriso felice. Un sorriso vivo.
La sera arrivò più lenta del solito. Alice si fece una doccia rapida, senza insistere. Non voleva lavare via tutto. Indossò una maglietta ampia e mutandine asciutte, raccolse i capelli. Si sdraiò sul letto per un minuto e ne rimbalzò via: il corpo non voleva fermarsi. Camminò per casa, toccando gli oggetti come per prendere misure nuove. Ogni cosa era leggermente spostata nella percezione, come quando si cambia di poco la posizione di un quadro e tutta la parete sembra diversa.
Quando, molto più tardi, immaginò il rientro di Giorgio, si accorse che la fantasia non la pungeva. Non la umiliava. Le metteva addosso un calore che non sapeva nominare: qualcosa di vicino alla complicità, anche se quella parola qui non esisteva. Vedeva lui entrare, appoggiare le chiavi, guardarla negli occhi e non chiedere. Vedeva sé stessa avvicinarsi, posargli la fronte sul petto, respirare. Vedeva, in un angolo della mente in cui non osava spesso, la possibilità che il dolore e il piacere, una volta tanto, non fossero nemici giurati. Che potessero sedere allo stesso tavolo senza rovesciarlo.
Sul comodino, dietro il vetro, l’ombra ovale della vecchia stampa non c’era più: non perché fosse svanita, ma perché non stava in quel riquadro. Stava in lei, altrove. Più distante, più abitabile.
La casa smise di parlare per qualche minuto. Poi ricominciò, ma con voce diversa: non più piena di lamenti, né piena di vanto. Una voce di cose che, per oggi, stanno dove devono stare.
Alice spense la luce della cucina e restò un momento nell’oscurità azzurrina del frigorifero. Si sfiorò la spalla dove il morso di Cataldo aveva lasciato un’ombra. Rimase lì, con un pensiero che non era una preghiera né una bestemmia. Era un fatto: il dolore si era spostato. La febbre rimaneva. E in mezzo, il suo corpo che respirava, vero.
Fu allora che le venne da ridere, piano, quasi senza suono. Non per felicità. Per incredulità grata. “Non lo so,” disse a voce bassa, senza sapere a chi. “Non lo so, ma ci sono.”
La risata si spense. Il silenzio prese posto. E per la prima volta dopo mesi, quel silenzio non le parve una stanza vuota. Le parve una pausa buona, una tra due battiti. Una tra due ondate.
Si sedette sul bordo del letto, inclinò la testa e chiuse gli occhi. Nel buio vide ancora una volta i due volti. Quello di Cataldo vicino come un fiato, quello di Giorgio distante come una stella. E per un istante le parvero non nemici, né rivali. Le parvero coordinate. Una nord, l’altro sud. Lei in mezzo, bussola impazzita e però funzionante, con l’ago che non si ferma ma indica comunque.
“Domani,” pensò, senza formulare il resto. E fu abbastanza.
La notte venne, e venne meno cattiva. La ferita e la febbre, per una volta, si sdraiarono nello stesso letto. E non si scontrarono. Si toccarono. E tacquero.


scritto il
2025-08-13
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