La padrona del piano di sopra
di
Nicola Pavelli
genere
etero
Scrivo racconti erotici su commissione. Se interessati/e, contattatemi al mio indirizzo e-mail: nicola.pavelli@gmail.com
La prima volta che Lorenzo l’aveva vista, Clara stava innaffiando dei gerani sul balcone. Erano le otto del mattino, e lui stava scaricando le ultime scatole dal bagagliaio. Non si aspettava che la padrona di casa fosse così… reale. Né così difficile da inquadrare.
«Buongiorno!» Aveva detto lui, sollevando una mano.
Lei si era limitata ad annuire con un mezzo sorriso. Poi aveva spento l’acqua e si era ritirata dentro casa, senza dire una parola.
Strana, aveva pensato. Ma interessante.
Aveva trentanove anni e una relazione finita da poco alle spalle. Aveva scelto quella casa per scappare da Milano, dal rumore e dalla rabbia, convinto che in quella villa sulle colline bolognesi avrebbe trovato un po’ di quiete.
Clara invece sembrava appartenere a un’altra epoca. Sempre elegante, mai una parola fuori posto. Una voce bassa, levigata dal tempo e dal controllo. Nessun segno di un marito, né di figli. Solo lei e la casa.
La casa… e qualcosa che si muoveva sotto la superficie.
Dopo il primo incontro, Lorenzo si impose una regola: non fantasticare.
Ogni volta che saliva le scale comuni e sentiva il lieve rumore dei suoi passi al piano di sopra, ogni volta che trovava la cassetta della posta aperta con le sue iniziali calligrafiche sulle lettere, ogni volta che il suo profumo restava sospeso nell’aria per qualche secondo in più… si diceva: non pensarci.
Ma la regola non durò nemmeno cinque giorni.
Clara era ovunque.
Lo era nel rumore leggero delle sue ciabatte la sera. Lo era nella luce filtrata dalle tende quando si alzava per prima. Lo era nei suoni ovattati che trapelavano dal soffitto. Un disco di jazz, una risata al telefono, un mobile spostato con calma.
Non faceva nulla di apertamente seducente. Ma ogni gesto era carico di una naturale, pericolosa sensualità.
Fu un pomeriggio di vento a cambiare tutto.
Lorenzo era in giardino, stava finendo di sistemare una delle tende da esterno che minacciava di strapparsi. Clara lo osservava dal terrazzo, sorseggiando vino bianco da un calice sottile.
«Verresti a darmi una mano?» Chiese lui, incerto.
«No. Ti guardo soltanto.»
Quella risposta lo colpì in pieno stomaco. Non era una provocazione. Era una constatazione, come se non ci fosse nulla di male nel dichiarare che lo stava osservando.
«Sai…» aggiunse, dopo un lungo sorso, «ci sono uomini che hanno corpi da vedere. E altri da ascoltare.»
«E io?»
Lei sorrise. «Tu sei fastidiosamente nel mezzo.»
Lorenzo rise, ma quella frase gli restò addosso come un graffio.
La sera seguente, suonò alla sua porta.
«Ho finito il vino. Posso rubartene un bicchiere?»
Lui la fece entrare. Era vestita in modo semplice, quasi disadorno: jeans scuri, una maglietta bianca. Eppure, nulla in lei sembrava casuale. Si muoveva come se il suo corpo fosse sempre seguito da una musica che solo lei poteva sentire.
Bevvero in silenzio, seduti al tavolo della cucina.
«Non sembri uno che ha appena lasciato la città» disse Clara, dopo un po’.
«Non sembri una donna sola.»
Lei alzò lo sguardo. Lo fissò.
«Le apparenze sono una buona coperta. Finché non arriva l’inverno.»
Lorenzo si perse in quella frase. Poi vide le sue mani. Mani da pianista, da ex ballerina, da donna abituata a trattenere. Ma sulle dita, nessun anello.
E all’improvviso ebbe voglia di sfiorarla. Non in modo esplicito. Voleva solo capire che consistenza avesse. Se la pelle fosse fredda o calda. Se il suo polso battesse forte sotto il tocco. Ma non osò.
Clara si alzò.
«Grazie per il vino, Lorenzo.»
«Puoi prenderlo anche domani.»
«Domani sarà un giorno lungo.»
«Perché?»
«Perché comincerai a desiderare qualcosa che non puoi avere.»
Nel cuore della notte, Lorenzo si svegliò madido di sudore. Aveva sognato Clara. O forse non era un sogno. C’era la sua voce, vicina all’orecchio. Le sue dita sul torace. E una sensazione di morsa, di pressione, come se stesse tentando di trattenere un desiderio troppo grande per il corpo che lo conteneva.
Si toccò.
Lo fece lentamente, quasi con vergogna. Era come se lei fosse lì, a guardarlo, a giudicarlo. Eppure, più si immaginava quella voce, “Ci sono uomini da ascoltare” , più il corpo si tendeva.
Il piacere arrivò come un’onda improvvisa. E appena finì, si sentì ridicolo. Un adolescente, non un uomo.
Ma quella notte capì che la regola era saltata. Clara non era solo un pensiero. Era un’ossessione in costruzione.
Tre giorni dopo, Clara bussò di nuovo. Non alla porta questa volta, ma alla finestra della cucina. Erano quasi le sei del pomeriggio e Lorenzo stava al telefono con un cliente. Alzò lo sguardo, sorpreso. Lei non sorrideva. Indicò qualcosa col dito: un fascio di fili penzolava dalla parete accanto al suo terrazzo. Probabilmente si era staccato con il vento.
Chiuse la chiamata a metà frase. Uscì.
«Serve una scala» disse lui, osservando la parete. «Non arrivo nemmeno all’inizio.»
Clara si fece da parte. «Ho una scala in garage. Ma è pesante. Mi dai una mano?»
Il garage era sul retro, sotto il portico. Un odore di benzina, ruggine e lavanda riempiva l’aria.
La scala era lunga, alluminio spesso. La trascinarono fuori insieme. Quando arrivarono al punto giusto, Lorenzo la appoggiò al muro e si arrampicò. Clara restò sotto.
Il vento sollevava la sua camicia, lasciando intravedere la pelle del fianco. Non poteva fare a meno di guardarla, anche dall’alto. Le gambe leggermente divaricate. Le braccia incrociate sul petto. Una postura fiera. Di chi non supplica mai. Ma desidera tutto.
«Fatto» disse lui, scendendo.
Clara si avvicinò, lentamente. Gli porse un bicchiere d’acqua. Lorenzo lo prese. Le loro dita si sfiorarono. Non fu un tocco erotico. Ma bastò.
«Tu tremi.»
«È il vento.»
«No», disse lei. «Sei nervoso. Con me.»
Silenzio.
«Perché?» Chiese Clara.
Lorenzo abbassò lo sguardo. Ma non rispose.
Lei fece un passo in più. Le loro mani erano a pochi centimetri.
«Vuoi sapere cosa sogno?» Mormorò lei.
Lui la guardò.
«Sogno di avere vent'anni in meno. Ma solo per un’ora. Il tempo giusto per dimenticare chi sono. E cosa ho smesso di essere.»
E poi fece qualcosa che Lorenzo non si aspettava. Prese la sua mano. Con lentezza. Con forza. Se la portò sul fianco.
Non ci fu bisogno di parole.
Il gesto non era una richiesta. Era una dichiarazione. Una lama dolce. Lorenzo le sfiorò la pelle con il pollice. Sentì la stoffa fine della camicia. Ma sotto, c’era la curva viva del corpo. Vera. Presente. Calda.
Poi si staccò.
Clara fece un passo indietro. Non per vergogna. Ma per strategia. Come se avesse voluto fargli assaggiare appena il desiderio. Senza saziarlo.
«Domani» disse, con voce neutra. «Ti porto quel vino.»
E se ne andò.
Anche quella notte, Lorenzo non dormì. Non perché fosse agitato. Ma perché tutto il corpo ricordava.
Il fianco sotto le sue dita. Il calore che si era irradiato dalla pelle al suo palmo. La voce di Clara, bassa, ferma, mentre parlava di sogni e di tempo perduto.
Era entrata dentro di lui in modo lento, raffinato, irreversibile.
Il giorno dopo pioveva. Forte. Le nuvole avevano oscurato il cielo già alle quattro. Lorenzo si era messo a leggere. Aspettava. Non il vino. Ma lei.
Alle sette, bussò.
Questa volta però, non portava il vino.
Portava una candela accesa tra le mani. E nessuna parola.
Lo baciò appena varcata la soglia. Ma non fu come nei film. Non fu morbido. Non fu studiato.
Fu necessario.
Come se ogni centimetro del loro corpo avesse trattenuto la fame troppo a lungo.
I loro vestiti caddero lenti. Nessuna fretta. Ma nessuna esitazione.
Clara lo toccò come si tocca un ricordo. Come se sapesse già che non sarebbe durato. Ma proprio per questo, meritava ogni sussurro.
Quando si trovarono nudi, in piedi, sotto il chiarore tremolante della candela, non c’era più timidezza. Solo fame.
Fu il silenzio a guidarli. Non c’erano parole. Non c’erano promesse. Solo il suono della pioggia battente contro i vetri, e il battito sordo del desiderio che finalmente prendeva forma.
La candela tremolava sul mobile basso del soggiorno. I corpi nudi riflettevano la sua luce ambrata come due statue respiranti. Clara gli si fece vicina, lentamente, posando il palmo aperto sul petto di lui. Sentiva il cuore martellare, irregolare. Una musica imperfetta, ma viva.
«Non dire nulla» mormorò. «Non serve.»
Lorenzo le prese il viso tra le mani. Era caldo, più caldo della stanza, più caldo della sua stessa pelle. Lento, le sfiorò le labbra con le dita, come se volesse scolpirle prima ancora di baciarle. Lei chiuse gli occhi. Poi lo baciò. Questa volta piano. Profondamente. Come si beve da una fonte dopo una lunga attesa.
Le sue mani scesero lungo la schiena di lui, fino ai fianchi, lo attirò verso di sé. I due corpi si adattarono l’uno all’altro come chi si riconosce dopo molto tempo. Nessuna esitazione, solo un respiro unico che cresceva, diventando fame.
Lorenzo la condusse verso il divano, ma Clara si fermò.
«No. Qui.»
Si sdraiò lentamente sul tappeto, con la schiena nuda sulla trama orientale, la candela a un metro da lei. La luce danzava sui suoi seni, sul ventre, sulle cosce appena divaricate. Era il corpo di una donna vera. Matura. Reale. Nulla di costruito, nulla di patinato. Carne viva e desiderio autentico.
Lui si inginocchiò tra le sue gambe. Le mani tremavano appena. La osservò.
Clara non si coprì. Non arrossì. Lo guardava con calma, con dominio. Ma nei suoi occhi ardeva qualcosa di più profondo: una richiesta muta.
Lorenzo si chinò e cominciò a baciarla. Prima le clavicole, poi il collo, poi la curva sotto l’orecchio. Clara inspirò lentamente. Le sue dita si chiusero nei capelli di lui, lo guidarono, lo strinsero. Il corpo di lei reagiva ad ogni tocco. Era come suonare uno strumento che conosceva già la melodia.
I seni di Clara si sollevavano a ogni respiro. Lorenzo li accarezzò con la lingua, cercando il ritmo del suo piacere. La sentì tremare leggermente. Ma non era freddo. Era controllo che cominciava a cedere.
Scese lentamente con le labbra, fino a trovarsi tra le sue cosce. Clara aprì di più le gambe, offrendo senza pudore ciò che fino a poco prima era solo sogno. Non disse nulla. Ma il suo corpo parlava.
Lui la esplorò con la bocca. Lenta, attenta, affamata. Clara gemette piano, trattenendosi. Ma quando lui trovò il punto giusto, la testa le si abbandonò all’indietro e il gemito si fece pieno, liquido, irrinunciabile.
«Continua…» sussurrò, quasi implorando.
Lorenzo lo fece. Fino a sentire che lei si irrigidiva, che le gambe lo stringevano, che il respiro diventava spezzato. Clara venne senza rumore, con un sussulto trattenuto, la bocca socchiusa, gli occhi persi nel soffitto.
Poi si sollevò. Lo prese per il viso. Lo baciò.
E lo spinse a terra.
Salì sopra di lui, con lentezza, senza fretta. Il suo corpo, bagnato dal piacere appena raggiunto, era caldo, liscio, pesante. Si abbassò e lo prese dentro di sé con un movimento preciso, senza esitazioni.
La penetrazione fu lenta, profonda. Lui gemette. Lei chiuse gli occhi, trattenendo il respiro.
Cominciò a muoversi. Lenta, ipnotica. Ogni spinta era una frase non detta. Ogni sguardo, una confessione. Clara lo cavalcava come se volesse domarlo. Ma anche offrirsi.
Lorenzo le strinse i fianchi, poi la prese per i polsi. Ma lei si divincolò. «No. Lascia fare a me.»
E lo fece. Lo portò sull’orlo più volte. Rallentando, accelerando. Lo teneva in sospeso come solo una donna che conosce sé stessa e il desiderio sa fare. Poi si abbassò su di lui, baciandolo, stringendosi, tremando. E nel momento in cui anche lui venne, si sentì vivo come mai prima.
Si sdraiarono sul tappeto. Nudi. La pioggia era cessata. La candela si stava spegnendo.
Clara si alzò per prima. Raccolse la vestaglia. Non disse nulla. Si rivestì piano, come se fosse una cerimonia.
«Non aspettarti niente da me» disse, mentre varcava la porta. «Ma questa notte me la porterò addosso per molto tempo.»
E se ne andò.
Clara non tornò la notte successiva. Né quella dopo. Né quella dopo ancora.
Lorenzo passava i giorni in una sorta di torpore lucido. Lavorava male, distratto. Guardava le scale ogni volta che sentiva un rumore. E ogni notte dormiva con la porta chiusa solo a metà, come se aspettasse.
Lei non dava segni. Nessun messaggio. Nessun biglietto. Nessun rumore dalla sua cucina.
Era scomparsa senza andarsene.
Poi, una sera, mentre stava rientrando dal supermercato, la vide nel giardino sul retro. Aveva i capelli raccolti, gli stivali da pioggia, e stava potando una delle sue rose rampicanti con calma chirurgica. Come se nulla fosse successo. Come se non si fossero mai toccati.
«Clara» disse lui, avvicinandosi. Lei non si voltò subito.
«Ti avevo detto di non aspettarti nulla.»
«E tu mi avevi detto che quella notte te la saresti portata addosso per molto tempo.»
«E così è stato» rispose lei. «Ma ora basta.»
Lorenzo non sapeva cosa dire. Ma non voleva cedere.
«È stato vero. Per entrambi. Lo so.»
Lei abbassò le cesoie. Respirò forte. Finalmente lo guardò.
«Non è questo il punto.»
«Allora qual è?»
Un silenzio lunghissimo. Poi Clara lasciò cadere gli attrezzi e si sedette sul piccolo muretto di pietra.
«Tu sei libero» disse. «Io no.»
«Non ti ho chiesto nulla.»
«Lo so. Ed è proprio questo il problema.»
Lorenzo si avvicinò. Si sedette accanto a lei. Sentiva il profumo del suo collo, la pelle tiepida sotto la camicia leggera.
«Clara…»
Lei lo fermò con un gesto.
«C’è stato un uomo. Molti anni fa. Vivevamo qui insieme. In questa casa. Era tutto. E poi… è morto. All’improvviso. Un incidente stupido. Una caduta. Una notte come quella.»
Silenzio. Solo il rumore lontano di un cane, e un ramo che cigolava al vento.
«Io non ho mai tolto il suo nome dalla cassetta della posta. È ancora lì, accanto al mio.»
Lorenzo non disse nulla. Non serviva.
«Quando ho affittato l’appartamento a te, non pensavo succedesse niente. Pensavo che avresti portato movimento. Rumore. Qualcosa da osservare. Non pensavo…»
La voce le si spezzò. Poi si ricompose.
«Non pensavo di voler sentirmi viva ancora. Nemmeno per un’ora.»
Lorenzo si alzò. Le porse la mano. Clara esitò. Poi la prese.
La guidò in casa. Una volta ancora. Solo una.
Quella notte non ci fu alcuna fretta. Nessuna fame. Nessuna prova da superare.
Si spogliarono lentamente, con attenzione. Si toccarono con tenerezza. Si baciarono con dolcezza nuova. Clara tremava leggermente. Non per il desiderio. Ma per la paura di cedere di nuovo.
Eppure, si lasciò andare.
Fecero l’amore come chi sa di non potersi avere mai davvero. Ogni movimento era un addio. Ogni bacio, un ricordo. Quando vennero insieme, stretti l’uno all’altra, non fu piacere. Fu un modo per trattenere qualcosa che stava già svanendo.
Al mattino, Lorenzo si svegliò solo. Sul cuscino accanto, un biglietto scritto a mano:
«Non ti dimentico. Ma non posso essere quella che vuoi salvare.
Non restare qui per me.
C. »
Lorenzo rimase a fissare il soffitto per un tempo indefinito.
Poi si alzò. Uscì di casa. Si fermò davanti alla cassetta della posta. Guardò il secondo nome. Lo lesse. Lo rispettò. Lo lasciò lì.
Senza toccarlo.
Fece un passo indietro. Inspirò. E poi, lentamente, salì in macchina.
Non si voltò mai più.
La prima volta che Lorenzo l’aveva vista, Clara stava innaffiando dei gerani sul balcone. Erano le otto del mattino, e lui stava scaricando le ultime scatole dal bagagliaio. Non si aspettava che la padrona di casa fosse così… reale. Né così difficile da inquadrare.
«Buongiorno!» Aveva detto lui, sollevando una mano.
Lei si era limitata ad annuire con un mezzo sorriso. Poi aveva spento l’acqua e si era ritirata dentro casa, senza dire una parola.
Strana, aveva pensato. Ma interessante.
Aveva trentanove anni e una relazione finita da poco alle spalle. Aveva scelto quella casa per scappare da Milano, dal rumore e dalla rabbia, convinto che in quella villa sulle colline bolognesi avrebbe trovato un po’ di quiete.
Clara invece sembrava appartenere a un’altra epoca. Sempre elegante, mai una parola fuori posto. Una voce bassa, levigata dal tempo e dal controllo. Nessun segno di un marito, né di figli. Solo lei e la casa.
La casa… e qualcosa che si muoveva sotto la superficie.
Dopo il primo incontro, Lorenzo si impose una regola: non fantasticare.
Ogni volta che saliva le scale comuni e sentiva il lieve rumore dei suoi passi al piano di sopra, ogni volta che trovava la cassetta della posta aperta con le sue iniziali calligrafiche sulle lettere, ogni volta che il suo profumo restava sospeso nell’aria per qualche secondo in più… si diceva: non pensarci.
Ma la regola non durò nemmeno cinque giorni.
Clara era ovunque.
Lo era nel rumore leggero delle sue ciabatte la sera. Lo era nella luce filtrata dalle tende quando si alzava per prima. Lo era nei suoni ovattati che trapelavano dal soffitto. Un disco di jazz, una risata al telefono, un mobile spostato con calma.
Non faceva nulla di apertamente seducente. Ma ogni gesto era carico di una naturale, pericolosa sensualità.
Fu un pomeriggio di vento a cambiare tutto.
Lorenzo era in giardino, stava finendo di sistemare una delle tende da esterno che minacciava di strapparsi. Clara lo osservava dal terrazzo, sorseggiando vino bianco da un calice sottile.
«Verresti a darmi una mano?» Chiese lui, incerto.
«No. Ti guardo soltanto.»
Quella risposta lo colpì in pieno stomaco. Non era una provocazione. Era una constatazione, come se non ci fosse nulla di male nel dichiarare che lo stava osservando.
«Sai…» aggiunse, dopo un lungo sorso, «ci sono uomini che hanno corpi da vedere. E altri da ascoltare.»
«E io?»
Lei sorrise. «Tu sei fastidiosamente nel mezzo.»
Lorenzo rise, ma quella frase gli restò addosso come un graffio.
La sera seguente, suonò alla sua porta.
«Ho finito il vino. Posso rubartene un bicchiere?»
Lui la fece entrare. Era vestita in modo semplice, quasi disadorno: jeans scuri, una maglietta bianca. Eppure, nulla in lei sembrava casuale. Si muoveva come se il suo corpo fosse sempre seguito da una musica che solo lei poteva sentire.
Bevvero in silenzio, seduti al tavolo della cucina.
«Non sembri uno che ha appena lasciato la città» disse Clara, dopo un po’.
«Non sembri una donna sola.»
Lei alzò lo sguardo. Lo fissò.
«Le apparenze sono una buona coperta. Finché non arriva l’inverno.»
Lorenzo si perse in quella frase. Poi vide le sue mani. Mani da pianista, da ex ballerina, da donna abituata a trattenere. Ma sulle dita, nessun anello.
E all’improvviso ebbe voglia di sfiorarla. Non in modo esplicito. Voleva solo capire che consistenza avesse. Se la pelle fosse fredda o calda. Se il suo polso battesse forte sotto il tocco. Ma non osò.
Clara si alzò.
«Grazie per il vino, Lorenzo.»
«Puoi prenderlo anche domani.»
«Domani sarà un giorno lungo.»
«Perché?»
«Perché comincerai a desiderare qualcosa che non puoi avere.»
Nel cuore della notte, Lorenzo si svegliò madido di sudore. Aveva sognato Clara. O forse non era un sogno. C’era la sua voce, vicina all’orecchio. Le sue dita sul torace. E una sensazione di morsa, di pressione, come se stesse tentando di trattenere un desiderio troppo grande per il corpo che lo conteneva.
Si toccò.
Lo fece lentamente, quasi con vergogna. Era come se lei fosse lì, a guardarlo, a giudicarlo. Eppure, più si immaginava quella voce, “Ci sono uomini da ascoltare” , più il corpo si tendeva.
Il piacere arrivò come un’onda improvvisa. E appena finì, si sentì ridicolo. Un adolescente, non un uomo.
Ma quella notte capì che la regola era saltata. Clara non era solo un pensiero. Era un’ossessione in costruzione.
Tre giorni dopo, Clara bussò di nuovo. Non alla porta questa volta, ma alla finestra della cucina. Erano quasi le sei del pomeriggio e Lorenzo stava al telefono con un cliente. Alzò lo sguardo, sorpreso. Lei non sorrideva. Indicò qualcosa col dito: un fascio di fili penzolava dalla parete accanto al suo terrazzo. Probabilmente si era staccato con il vento.
Chiuse la chiamata a metà frase. Uscì.
«Serve una scala» disse lui, osservando la parete. «Non arrivo nemmeno all’inizio.»
Clara si fece da parte. «Ho una scala in garage. Ma è pesante. Mi dai una mano?»
Il garage era sul retro, sotto il portico. Un odore di benzina, ruggine e lavanda riempiva l’aria.
La scala era lunga, alluminio spesso. La trascinarono fuori insieme. Quando arrivarono al punto giusto, Lorenzo la appoggiò al muro e si arrampicò. Clara restò sotto.
Il vento sollevava la sua camicia, lasciando intravedere la pelle del fianco. Non poteva fare a meno di guardarla, anche dall’alto. Le gambe leggermente divaricate. Le braccia incrociate sul petto. Una postura fiera. Di chi non supplica mai. Ma desidera tutto.
«Fatto» disse lui, scendendo.
Clara si avvicinò, lentamente. Gli porse un bicchiere d’acqua. Lorenzo lo prese. Le loro dita si sfiorarono. Non fu un tocco erotico. Ma bastò.
«Tu tremi.»
«È il vento.»
«No», disse lei. «Sei nervoso. Con me.»
Silenzio.
«Perché?» Chiese Clara.
Lorenzo abbassò lo sguardo. Ma non rispose.
Lei fece un passo in più. Le loro mani erano a pochi centimetri.
«Vuoi sapere cosa sogno?» Mormorò lei.
Lui la guardò.
«Sogno di avere vent'anni in meno. Ma solo per un’ora. Il tempo giusto per dimenticare chi sono. E cosa ho smesso di essere.»
E poi fece qualcosa che Lorenzo non si aspettava. Prese la sua mano. Con lentezza. Con forza. Se la portò sul fianco.
Non ci fu bisogno di parole.
Il gesto non era una richiesta. Era una dichiarazione. Una lama dolce. Lorenzo le sfiorò la pelle con il pollice. Sentì la stoffa fine della camicia. Ma sotto, c’era la curva viva del corpo. Vera. Presente. Calda.
Poi si staccò.
Clara fece un passo indietro. Non per vergogna. Ma per strategia. Come se avesse voluto fargli assaggiare appena il desiderio. Senza saziarlo.
«Domani» disse, con voce neutra. «Ti porto quel vino.»
E se ne andò.
Anche quella notte, Lorenzo non dormì. Non perché fosse agitato. Ma perché tutto il corpo ricordava.
Il fianco sotto le sue dita. Il calore che si era irradiato dalla pelle al suo palmo. La voce di Clara, bassa, ferma, mentre parlava di sogni e di tempo perduto.
Era entrata dentro di lui in modo lento, raffinato, irreversibile.
Il giorno dopo pioveva. Forte. Le nuvole avevano oscurato il cielo già alle quattro. Lorenzo si era messo a leggere. Aspettava. Non il vino. Ma lei.
Alle sette, bussò.
Questa volta però, non portava il vino.
Portava una candela accesa tra le mani. E nessuna parola.
Lo baciò appena varcata la soglia. Ma non fu come nei film. Non fu morbido. Non fu studiato.
Fu necessario.
Come se ogni centimetro del loro corpo avesse trattenuto la fame troppo a lungo.
I loro vestiti caddero lenti. Nessuna fretta. Ma nessuna esitazione.
Clara lo toccò come si tocca un ricordo. Come se sapesse già che non sarebbe durato. Ma proprio per questo, meritava ogni sussurro.
Quando si trovarono nudi, in piedi, sotto il chiarore tremolante della candela, non c’era più timidezza. Solo fame.
Fu il silenzio a guidarli. Non c’erano parole. Non c’erano promesse. Solo il suono della pioggia battente contro i vetri, e il battito sordo del desiderio che finalmente prendeva forma.
La candela tremolava sul mobile basso del soggiorno. I corpi nudi riflettevano la sua luce ambrata come due statue respiranti. Clara gli si fece vicina, lentamente, posando il palmo aperto sul petto di lui. Sentiva il cuore martellare, irregolare. Una musica imperfetta, ma viva.
«Non dire nulla» mormorò. «Non serve.»
Lorenzo le prese il viso tra le mani. Era caldo, più caldo della stanza, più caldo della sua stessa pelle. Lento, le sfiorò le labbra con le dita, come se volesse scolpirle prima ancora di baciarle. Lei chiuse gli occhi. Poi lo baciò. Questa volta piano. Profondamente. Come si beve da una fonte dopo una lunga attesa.
Le sue mani scesero lungo la schiena di lui, fino ai fianchi, lo attirò verso di sé. I due corpi si adattarono l’uno all’altro come chi si riconosce dopo molto tempo. Nessuna esitazione, solo un respiro unico che cresceva, diventando fame.
Lorenzo la condusse verso il divano, ma Clara si fermò.
«No. Qui.»
Si sdraiò lentamente sul tappeto, con la schiena nuda sulla trama orientale, la candela a un metro da lei. La luce danzava sui suoi seni, sul ventre, sulle cosce appena divaricate. Era il corpo di una donna vera. Matura. Reale. Nulla di costruito, nulla di patinato. Carne viva e desiderio autentico.
Lui si inginocchiò tra le sue gambe. Le mani tremavano appena. La osservò.
Clara non si coprì. Non arrossì. Lo guardava con calma, con dominio. Ma nei suoi occhi ardeva qualcosa di più profondo: una richiesta muta.
Lorenzo si chinò e cominciò a baciarla. Prima le clavicole, poi il collo, poi la curva sotto l’orecchio. Clara inspirò lentamente. Le sue dita si chiusero nei capelli di lui, lo guidarono, lo strinsero. Il corpo di lei reagiva ad ogni tocco. Era come suonare uno strumento che conosceva già la melodia.
I seni di Clara si sollevavano a ogni respiro. Lorenzo li accarezzò con la lingua, cercando il ritmo del suo piacere. La sentì tremare leggermente. Ma non era freddo. Era controllo che cominciava a cedere.
Scese lentamente con le labbra, fino a trovarsi tra le sue cosce. Clara aprì di più le gambe, offrendo senza pudore ciò che fino a poco prima era solo sogno. Non disse nulla. Ma il suo corpo parlava.
Lui la esplorò con la bocca. Lenta, attenta, affamata. Clara gemette piano, trattenendosi. Ma quando lui trovò il punto giusto, la testa le si abbandonò all’indietro e il gemito si fece pieno, liquido, irrinunciabile.
«Continua…» sussurrò, quasi implorando.
Lorenzo lo fece. Fino a sentire che lei si irrigidiva, che le gambe lo stringevano, che il respiro diventava spezzato. Clara venne senza rumore, con un sussulto trattenuto, la bocca socchiusa, gli occhi persi nel soffitto.
Poi si sollevò. Lo prese per il viso. Lo baciò.
E lo spinse a terra.
Salì sopra di lui, con lentezza, senza fretta. Il suo corpo, bagnato dal piacere appena raggiunto, era caldo, liscio, pesante. Si abbassò e lo prese dentro di sé con un movimento preciso, senza esitazioni.
La penetrazione fu lenta, profonda. Lui gemette. Lei chiuse gli occhi, trattenendo il respiro.
Cominciò a muoversi. Lenta, ipnotica. Ogni spinta era una frase non detta. Ogni sguardo, una confessione. Clara lo cavalcava come se volesse domarlo. Ma anche offrirsi.
Lorenzo le strinse i fianchi, poi la prese per i polsi. Ma lei si divincolò. «No. Lascia fare a me.»
E lo fece. Lo portò sull’orlo più volte. Rallentando, accelerando. Lo teneva in sospeso come solo una donna che conosce sé stessa e il desiderio sa fare. Poi si abbassò su di lui, baciandolo, stringendosi, tremando. E nel momento in cui anche lui venne, si sentì vivo come mai prima.
Si sdraiarono sul tappeto. Nudi. La pioggia era cessata. La candela si stava spegnendo.
Clara si alzò per prima. Raccolse la vestaglia. Non disse nulla. Si rivestì piano, come se fosse una cerimonia.
«Non aspettarti niente da me» disse, mentre varcava la porta. «Ma questa notte me la porterò addosso per molto tempo.»
E se ne andò.
Clara non tornò la notte successiva. Né quella dopo. Né quella dopo ancora.
Lorenzo passava i giorni in una sorta di torpore lucido. Lavorava male, distratto. Guardava le scale ogni volta che sentiva un rumore. E ogni notte dormiva con la porta chiusa solo a metà, come se aspettasse.
Lei non dava segni. Nessun messaggio. Nessun biglietto. Nessun rumore dalla sua cucina.
Era scomparsa senza andarsene.
Poi, una sera, mentre stava rientrando dal supermercato, la vide nel giardino sul retro. Aveva i capelli raccolti, gli stivali da pioggia, e stava potando una delle sue rose rampicanti con calma chirurgica. Come se nulla fosse successo. Come se non si fossero mai toccati.
«Clara» disse lui, avvicinandosi. Lei non si voltò subito.
«Ti avevo detto di non aspettarti nulla.»
«E tu mi avevi detto che quella notte te la saresti portata addosso per molto tempo.»
«E così è stato» rispose lei. «Ma ora basta.»
Lorenzo non sapeva cosa dire. Ma non voleva cedere.
«È stato vero. Per entrambi. Lo so.»
Lei abbassò le cesoie. Respirò forte. Finalmente lo guardò.
«Non è questo il punto.»
«Allora qual è?»
Un silenzio lunghissimo. Poi Clara lasciò cadere gli attrezzi e si sedette sul piccolo muretto di pietra.
«Tu sei libero» disse. «Io no.»
«Non ti ho chiesto nulla.»
«Lo so. Ed è proprio questo il problema.»
Lorenzo si avvicinò. Si sedette accanto a lei. Sentiva il profumo del suo collo, la pelle tiepida sotto la camicia leggera.
«Clara…»
Lei lo fermò con un gesto.
«C’è stato un uomo. Molti anni fa. Vivevamo qui insieme. In questa casa. Era tutto. E poi… è morto. All’improvviso. Un incidente stupido. Una caduta. Una notte come quella.»
Silenzio. Solo il rumore lontano di un cane, e un ramo che cigolava al vento.
«Io non ho mai tolto il suo nome dalla cassetta della posta. È ancora lì, accanto al mio.»
Lorenzo non disse nulla. Non serviva.
«Quando ho affittato l’appartamento a te, non pensavo succedesse niente. Pensavo che avresti portato movimento. Rumore. Qualcosa da osservare. Non pensavo…»
La voce le si spezzò. Poi si ricompose.
«Non pensavo di voler sentirmi viva ancora. Nemmeno per un’ora.»
Lorenzo si alzò. Le porse la mano. Clara esitò. Poi la prese.
La guidò in casa. Una volta ancora. Solo una.
Quella notte non ci fu alcuna fretta. Nessuna fame. Nessuna prova da superare.
Si spogliarono lentamente, con attenzione. Si toccarono con tenerezza. Si baciarono con dolcezza nuova. Clara tremava leggermente. Non per il desiderio. Ma per la paura di cedere di nuovo.
Eppure, si lasciò andare.
Fecero l’amore come chi sa di non potersi avere mai davvero. Ogni movimento era un addio. Ogni bacio, un ricordo. Quando vennero insieme, stretti l’uno all’altra, non fu piacere. Fu un modo per trattenere qualcosa che stava già svanendo.
Al mattino, Lorenzo si svegliò solo. Sul cuscino accanto, un biglietto scritto a mano:
«Non ti dimentico. Ma non posso essere quella che vuoi salvare.
Non restare qui per me.
C. »
Lorenzo rimase a fissare il soffitto per un tempo indefinito.
Poi si alzò. Uscì di casa. Si fermò davanti alla cassetta della posta. Guardò il secondo nome. Lo lesse. Lo rispettò. Lo lasciò lì.
Senza toccarlo.
Fece un passo indietro. Inspirò. E poi, lentamente, salì in macchina.
Non si voltò mai più.
1
6
voti
voti
valutazione
6.8
6.8
Continua a leggere racconti dello stesso autore
racconto precedente
Redenzione di Nataleracconto sucessivo
Carne e motori
Commenti dei lettori al racconto erotico