Surrealismo Voyeurista vol. 1
di
Jan Zarik
genere
voyeur
[ N. d. A.: Di tutte le cose che possiamo apprezzare in stato di veglia, le manifestazioni dell’inconscio sono le più affascinanti e potenti.
Il surrealismo nasce da questo costrutto, spiccatamente Freudiano: i nostri animi repressi, le fantasie più estreme e le associazioni di idee più strambe raccontano la verità del mondo (interno ed esterno) molto più efficacemente di quanto non faccia una descrizione fedele, realistica e plastica. Pertanto, l’esperienza surrealista e quella voyeurista collimano e colludono: si può dire che una inneschi l’altra e che entrambe si rafforzino a vicenda fino a perdersi nello spazio infinito del desiderio immaginifico. - cigno2017@gmail.com]
Il corridoio della mostra temporanea conduceva a una installazione bizzarra intitolata “camera-semi oscura”.
All’interno della stanza si poteva entrare soltanto una volta, una persona per volta, non si potevano effettuare riprese e l’entrata e l’uscita erano a senso unico: si accedeva da un lato e si usciva dall’altro: non potevi quindi tornare indietro e anticipare a chi entrava dopo di te cosa avrebbero visto.
Dietro di me c’era una ragazza bionda, accento danese, aveva una leggera voglia caffellatte sulla guancia, in corrispondenza dell’angolo mandibolare. Era incuriosita tanto quanto me e mentre eravamo in fila si scherzava sul tema della stanza.
Io sostenevo che sarebbe stata piena di giochi di luce stroboscopici, lei invece pensava ci sarebbe stata una parete su cui scrivere qualcosa.
Le chiesi se volesse andare prima lei, ma rifiutó con gentilezza. Nel frattempo, la signora di 60 anni che stava appena prima di me, non appena mise piede dentro la stanza, esclamò “oh my god! Non-sense”
Non riuscii tuttavia a intravedere nulla.
Attendevo paziente il mio turno, scambiandomi un breve sguardo con la ragazza maculata, chiedendomi se fosse una specie di vitiligine. D’un tratto, mi bloccai con la mente nel tentativo di ricordare un famoso pittore surrealista che quel suo bel viso sembrava ispirare.
Una voce asettica annunciò che la camera era nuovamente libera e quindi mi invitava a entrare. Una volta dentro la sensazione di spaesamento mi travolse.
Era una specie di riproduzione di un quadro di Dalì. Riconoscevo gli orologi sciolti, gli elefanti dalle zampe lunghissime, la sabbia che risaliva su dalle clessidre.
La mia testa girava vorticosa, mi sentivo io stesso parte del sogno.
Alle mie spalle, uno specchio mezzo distorto rimbalzava le immagini della stanza, permettendomi di ammirare il mio corpo come fosse dentro al quadro. Sorrisi.
Puntai lo sguardo verso una statua in stile ellenico di una donna nuda che armeggiava con arco e frecce. Sembrava estremamente realistica e avevo il timore che fosse una persona vera.
Fui preso dall’istinto di toccare uno dei seni e quando mi resi conto che era morbido ritirai la mano super imbarazzato.
Era pelle?
Era reale?
La donna rimase immobile - o meglio la statua! - per cui mi avvicinai di nuovo scrutandola per bene.
Era silicone. Un realistico manufatto che da lontano sembrava bronzeo e invece restituiva una sensazione tattile unica.
Volevo toccarla di nuovo, mi resi conto che era eccitante. Il gesto audace e un po’ spinto aveva azionato il meccanismo a molla che teneva la freccia ancorata al suo arco, facendola scoccare. Quest’ultima colpì la riproduzione di un cuore a mezz’aria.
Dalla ferita inferta inizió a sgorgare un’acqua limpida e fresca. Una scritta sul muro riportava la parola “bevi” a chiare lettere.
Mi avvicinai dunque alla fonte e giunsi le mani a coppa sotto al cuore sgorgante per raccogliere un po’ di quell’acqua.
Era davvero molto buona e fresca e dolce.
Mi abbeverai fino a saziarne, poi con le mani ancora umide mi bagnai un po’ i capelli.
Rivolsi lo sguardo nuovamente allo specchio. Mi sentivo bene con me stesso, ero super confidente con il mio corpo e le mie movenze, fatto raro per la mia persona.
I due minuti erano conclusi. Una porta si aprì e io mi incamminai fuori.
Credevo di trovare l’uscita, credevo di dover ritrovare il corridoio che avevo lasciato poco prima, invece mi ritrovai in una camera completamente al buio, fatta eccezione per una finestra.
Ci vollero pochi istanti per rendermi conto che quella finestra non era una finestra.
Era uno specchio. Lo specchio della stanza da cui ero appena uscito.
Un brivido lungo la schiena mi ripercorse da sotto a sopra: cercavo di capire se percepissi l’inganno come una offesa, come una violazione della mia privacy o chissà cos’ altro. Immediatamente ripercorsi con la mente tutte le azioni che avevo fatto, incluse quelle più peccaminose, se mai ce ne fossero state.
Chi avrebbe potuto vederle? Probabilmente la signora prima di me. Ma chi altro?
Che razza di scherzo era questo?
Non feci in tempo a elaborare ulteriori ricordi che dentro la stanza faceva ingresso la giovane danese. Il suo sguardo di stupore mi lasciava senza fiato. Era davvero molto bella , ora che la guardavo addentrarsi nel quadro surrealista. Si guardava intorno con meraviglia, toccava tutti gli oggetti che trovava, la sua risata era magnetica.
D’un tratto si giró verso di me - cioè verso lo specchio- e scoppiò in una risata ancora più fragorosa. Sembrava felice! Io la guardavo attonito, avrei forse dovuto provare pudore e imbarazzo e invece non riuscivo a pensare ad altro se non di godermi la sua vista da una loggia privilegiata. Inizió a fare le facce buffe allo specchio, cercando di imitare i volti dei mezzobusti dietro di lei (che io non avevo minimamente notato).
Faceva le linguacce, gli occhiolini, abbracciava le zampe dell’elefante e ballava con leggiadria sulle scalinate a pianoforte (che per inciso, suonavano davvero).
Poi anche lei si avvicinò alla statua.
Si vedeva che nutriva qualche sospetto.
Anche lei sfiorò i capezzoli della statua e con sua sorpresa realizzò che erano morbidi.
Intrigata dalla scoperta li strizzó con violenza, fino a che la freccia non venne sparata.
Il cuore sgorgava acqua e lei rideva come una fanciulla al luna park. Era immensamente a suo agio. Anche lei inizió a bere, prima con le mani a raccolta e poi a canna. Si inginocchió per assumere una posizione più comoda, lasciando scorrere l’acqua dritta fino alla bocca. Dopodiché si asciugó le labbra col polso. Emise persino un rutto, che io giudicai dolcissimo.
Il pittore di cui non riuscivo a ricordare il nome era Jackson Pollock. L’artista delle macchie e degli spruzzi.
D’un tratto, un segnale mi avvertì che era giunto il momento di uscire.
Sapevo che avrei dovuto sbrigarmi poiché c’era il rischio di incrociare sguardi che non avevo il coraggio di sostenere.
Una volta uscito, c’era così tanta folla nel corridoio che non riuscii a scorgere la donna che era prima di me. Meglio così.
Il resto dei visitatori sembrava a suo modo consapevole e colpevole, rimanemmo Tutti in silenzio. Dopodiché, andai al bar per fare una pausa. Avevo voglia di un caffelatte.
Il surrealismo nasce da questo costrutto, spiccatamente Freudiano: i nostri animi repressi, le fantasie più estreme e le associazioni di idee più strambe raccontano la verità del mondo (interno ed esterno) molto più efficacemente di quanto non faccia una descrizione fedele, realistica e plastica. Pertanto, l’esperienza surrealista e quella voyeurista collimano e colludono: si può dire che una inneschi l’altra e che entrambe si rafforzino a vicenda fino a perdersi nello spazio infinito del desiderio immaginifico. - cigno2017@gmail.com]
Il corridoio della mostra temporanea conduceva a una installazione bizzarra intitolata “camera-semi oscura”.
All’interno della stanza si poteva entrare soltanto una volta, una persona per volta, non si potevano effettuare riprese e l’entrata e l’uscita erano a senso unico: si accedeva da un lato e si usciva dall’altro: non potevi quindi tornare indietro e anticipare a chi entrava dopo di te cosa avrebbero visto.
Dietro di me c’era una ragazza bionda, accento danese, aveva una leggera voglia caffellatte sulla guancia, in corrispondenza dell’angolo mandibolare. Era incuriosita tanto quanto me e mentre eravamo in fila si scherzava sul tema della stanza.
Io sostenevo che sarebbe stata piena di giochi di luce stroboscopici, lei invece pensava ci sarebbe stata una parete su cui scrivere qualcosa.
Le chiesi se volesse andare prima lei, ma rifiutó con gentilezza. Nel frattempo, la signora di 60 anni che stava appena prima di me, non appena mise piede dentro la stanza, esclamò “oh my god! Non-sense”
Non riuscii tuttavia a intravedere nulla.
Attendevo paziente il mio turno, scambiandomi un breve sguardo con la ragazza maculata, chiedendomi se fosse una specie di vitiligine. D’un tratto, mi bloccai con la mente nel tentativo di ricordare un famoso pittore surrealista che quel suo bel viso sembrava ispirare.
Una voce asettica annunciò che la camera era nuovamente libera e quindi mi invitava a entrare. Una volta dentro la sensazione di spaesamento mi travolse.
Era una specie di riproduzione di un quadro di Dalì. Riconoscevo gli orologi sciolti, gli elefanti dalle zampe lunghissime, la sabbia che risaliva su dalle clessidre.
La mia testa girava vorticosa, mi sentivo io stesso parte del sogno.
Alle mie spalle, uno specchio mezzo distorto rimbalzava le immagini della stanza, permettendomi di ammirare il mio corpo come fosse dentro al quadro. Sorrisi.
Puntai lo sguardo verso una statua in stile ellenico di una donna nuda che armeggiava con arco e frecce. Sembrava estremamente realistica e avevo il timore che fosse una persona vera.
Fui preso dall’istinto di toccare uno dei seni e quando mi resi conto che era morbido ritirai la mano super imbarazzato.
Era pelle?
Era reale?
La donna rimase immobile - o meglio la statua! - per cui mi avvicinai di nuovo scrutandola per bene.
Era silicone. Un realistico manufatto che da lontano sembrava bronzeo e invece restituiva una sensazione tattile unica.
Volevo toccarla di nuovo, mi resi conto che era eccitante. Il gesto audace e un po’ spinto aveva azionato il meccanismo a molla che teneva la freccia ancorata al suo arco, facendola scoccare. Quest’ultima colpì la riproduzione di un cuore a mezz’aria.
Dalla ferita inferta inizió a sgorgare un’acqua limpida e fresca. Una scritta sul muro riportava la parola “bevi” a chiare lettere.
Mi avvicinai dunque alla fonte e giunsi le mani a coppa sotto al cuore sgorgante per raccogliere un po’ di quell’acqua.
Era davvero molto buona e fresca e dolce.
Mi abbeverai fino a saziarne, poi con le mani ancora umide mi bagnai un po’ i capelli.
Rivolsi lo sguardo nuovamente allo specchio. Mi sentivo bene con me stesso, ero super confidente con il mio corpo e le mie movenze, fatto raro per la mia persona.
I due minuti erano conclusi. Una porta si aprì e io mi incamminai fuori.
Credevo di trovare l’uscita, credevo di dover ritrovare il corridoio che avevo lasciato poco prima, invece mi ritrovai in una camera completamente al buio, fatta eccezione per una finestra.
Ci vollero pochi istanti per rendermi conto che quella finestra non era una finestra.
Era uno specchio. Lo specchio della stanza da cui ero appena uscito.
Un brivido lungo la schiena mi ripercorse da sotto a sopra: cercavo di capire se percepissi l’inganno come una offesa, come una violazione della mia privacy o chissà cos’ altro. Immediatamente ripercorsi con la mente tutte le azioni che avevo fatto, incluse quelle più peccaminose, se mai ce ne fossero state.
Chi avrebbe potuto vederle? Probabilmente la signora prima di me. Ma chi altro?
Che razza di scherzo era questo?
Non feci in tempo a elaborare ulteriori ricordi che dentro la stanza faceva ingresso la giovane danese. Il suo sguardo di stupore mi lasciava senza fiato. Era davvero molto bella , ora che la guardavo addentrarsi nel quadro surrealista. Si guardava intorno con meraviglia, toccava tutti gli oggetti che trovava, la sua risata era magnetica.
D’un tratto si giró verso di me - cioè verso lo specchio- e scoppiò in una risata ancora più fragorosa. Sembrava felice! Io la guardavo attonito, avrei forse dovuto provare pudore e imbarazzo e invece non riuscivo a pensare ad altro se non di godermi la sua vista da una loggia privilegiata. Inizió a fare le facce buffe allo specchio, cercando di imitare i volti dei mezzobusti dietro di lei (che io non avevo minimamente notato).
Faceva le linguacce, gli occhiolini, abbracciava le zampe dell’elefante e ballava con leggiadria sulle scalinate a pianoforte (che per inciso, suonavano davvero).
Poi anche lei si avvicinò alla statua.
Si vedeva che nutriva qualche sospetto.
Anche lei sfiorò i capezzoli della statua e con sua sorpresa realizzò che erano morbidi.
Intrigata dalla scoperta li strizzó con violenza, fino a che la freccia non venne sparata.
Il cuore sgorgava acqua e lei rideva come una fanciulla al luna park. Era immensamente a suo agio. Anche lei inizió a bere, prima con le mani a raccolta e poi a canna. Si inginocchió per assumere una posizione più comoda, lasciando scorrere l’acqua dritta fino alla bocca. Dopodiché si asciugó le labbra col polso. Emise persino un rutto, che io giudicai dolcissimo.
Il pittore di cui non riuscivo a ricordare il nome era Jackson Pollock. L’artista delle macchie e degli spruzzi.
D’un tratto, un segnale mi avvertì che era giunto il momento di uscire.
Sapevo che avrei dovuto sbrigarmi poiché c’era il rischio di incrociare sguardi che non avevo il coraggio di sostenere.
Una volta uscito, c’era così tanta folla nel corridoio che non riuscii a scorgere la donna che era prima di me. Meglio così.
Il resto dei visitatori sembrava a suo modo consapevole e colpevole, rimanemmo Tutti in silenzio. Dopodiché, andai al bar per fare una pausa. Avevo voglia di un caffelatte.
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