Oltre le apparenze Reprise seconda parte

di
genere
dominazione

Appena uscita dal portone, Martina trovò ad attenderla una berlina scura, elegante, dall’aspetto sobrio ma imponente. Le portiere posteriori si aprirono da sole, senza alcun rumore. Nessuno scese. Nessuna voce la invitò a salire. Era come se l’auto la stesse aspettando da sempre, parte di un copione già scritto.

I vetri erano completamente oscurati. Non solo all’esterno: anche dall’interno era impossibile distinguere l’autista. Una barriera nera divideva l’abitacolo dalla cabina di guida. Totale isolamento. Totale controllo.

Martina salì, accompagnata solo dal rumore secco dei suoi tacchi sul marciapiede e poi sul tappeto morbido dell’auto. Si accomodò sul sedile in pelle nera, morbida, vellutata, sorprendentemente tiepida al tatto. Il materiale le accarezzava le natiche nude con una carezza quasi intima, insinuandosi negli spazi lasciati scoperti dal body e dalle autoreggenti.

Si sistemò, cercando una posizione composta, ma fu inutile: la pelle si adattava a ogni suo movimento, le scivolava addosso, seguendo la curva dei fianchi, lo spazio tra le cosce, la lieve pressione del plug che le ricordava costantemente il suo ruolo.

L’auto partì, fluida, silenziosa. Nessuna indicazione. Nessuna voce. Solo la città che scivolava via al di là dei vetri opachi.

Martina guardava dritto davanti a sé, ma la mente era altrove. Avrebbe dovuto essere terrorizzata, o almeno inquieta. E invece no. Un’incredibile, inquietante serenità si era fatta strada dentro di lei. Come se la parte razionale avesse abdicato, lasciando spazio a qualcosa di più profondo, più oscuro. Un’accettazione lucida, quasi sensuale.

Il tocco della pelle sul suo corpo nudo, l’oscillazione dell’auto, il pensiero di occhi sconosciuti che l’aspettavano da qualche parte… tutto questo le faceva sfarfallare lo stomaco, come se fosse al primo appuntamento. Ma non era solo emozione. Era eccitazione. Pura, calda, fluida. Sotto il body, tra le gambe, la sua umidità cresceva, palpitante, viva. E ogni piccolo sobbalzo della strada spingeva il plug più in profondità, facendole trattenere il fiato.

Trenta minuti. Trenta minuti in cui il silenzio diventò complice.

La berlina rallentò in modo fluido e si fermò senza il minimo sussulto. Nessuna voce annunciò l’arrivo. Nessun autista scese. La portiera si aprì da sola, con un sibilo elegante, come se la stesse invitando a scendere.

Martina fece scivolare le gambe fuori dalla vettura, i tacchi che toccarono un vialetto in ghiaia finissima, chiara, che scricchiolò appena sotto il suo passo. Si alzò con grazia, il body che si tendeva sulla pelle, i capezzoli duri sotto il raso, traditi dal lieve vento del mattino. Il plug si muoveva leggermente dentro di lei, ricordandole ogni secondo la propria presenza.

Si trovava in un giardino alberato, curato ma selvaggio quanto basta da sembrare vero. Cipressi, magnolie, alberi antichi che gettavano ombra su un parco che sembrava non avere confini. Nessun rumore cittadino. Nessun segno del mondo esterno. Niente mura visibili. Solo riservatezza assoluta.

Davanti a lei, al termine di un vialetto che si allargava come un tappeto naturale, sorgeva una maestosa villa settecentesca. Le pareti color avorio, ornate da colonne e modanature eleganti, mostravano i segni del tempo solo quanto bastava per raccontare una storia. Ampie finestre chiuse, persiane scure. E al centro, un portone monumentale, già spalancato, le ante in legno massiccio decorate da intarsi geometrici.

L'ingresso sembrava attenderla, come se sapesse esattamente chi stava per varcarlo. Nessuna persona all’esterno. Nessuna accoglienza apparente. Solo la scelta di avanzare.

Martina si fermò un istante. L’aria odorava di terra bagnata, di pietra calda al sole e di qualcosa di più sottile… desiderio, forse. Fece un respiro profondo e iniziò a camminare. Ogni passo sulla ghiaia era un battito, un annuncio.

E mentre si avvicinava alla soglia, qualcosa in lei cambiava. La vergogna lasciava spazio a una strana consapevolezza. Era desiderata. Attesa. Messa alla prova.

Appena Martina varcò la soglia della villa, la porta si richiuse alle sue spalle con un sussurro meccanico, preciso. Nessun rumore netto, nessuna serratura scattata a vista. Solo quella sensazione che il vecchio mondo fosse rimasto fuori. E che non sarebbe più tornato.

Davanti a lei si aprì una sala vasta, fredda, ma perfetta nella sua bellezza austera. Il marmo chiaro rifletteva la luce come uno specchio, e due scale semicircolari gemelle salivano al primo piano, unendosi in un ballatoio alto e imponente. Nulla in quella sala accoglieva. Tutto, invece, imponeva. Silenzio, verticalità, dominio.

Alla ringhiera, appoggiato con grazia calcolata, c’era l’uomo.
Minuto, magro, lineamenti delicati, capelli spruzzati d’argento alle tempie, occhi chiari, vivi. Vestito con un completo sartoriale color antracite, camicia chiara sbottonata al collo. La sua postura era rilassata, quasi gentile, ma il modo in cui la osservava… era proprietario.

Poi parlò.

La voce profonda, rotonda, assolutamente dissonante rispetto al suo fisico sottile, si diffuse nella sala come se venisse dalle pareti stesse.

«Benvenuta, Martina.»

Lei si fermò. Il corpo teso. Il cuore rallentato ma denso.

«È la prima volta che ci incontriamo di persona. Ma non è la prima volta che ti vedo.»

Lentamente, l’uomo iniziò a scendere pochi gradini, senza distogliere lo sguardo.

«Era una sera d’autunno. Ristorante “Le Chiuse”. Un tavolo d’angolo, vicino alla vetrata. Tu e tuo marito sedevate uno di fronte all’altra. Io ero dietro di voi. Nessuno poteva vederti... o così pensavi.»

Martina sentì qualcosa sciogliersi nello stomaco. Il sangue le pulsava alle tempie.

«Credevi di essere al sicuro. Di avere quel momento tutto per voi. Hai incrociato le gambe, ti sei allungata leggermente, e da sotto il tavolo… ti sei sfilata le mutandine. Con calma. Senza alcuna fretta. Poi, come se fosse la cosa più naturale del mondo, le hai appallottolate e le hai passate a tuo marito, di nascosto.**

Si fermò, a metà scala. Un sorriso lento gli increspò il viso, come se stesse rivedendo la scena davanti a sé.

«Quel gesto. Quella disinvoltura. Quella complicità silenziosa… mi hanno marcato. Da quel momento, ho deciso che ti volevo.»

Poi la voce cambiò, diventando più ferma, meno narrata:
«Da allora ti ho seguita. Ho fatto il resto da solo. Ti ho fatto pedinare, spiato, filmato. Ho raccolto ogni tuo segreto. Ogni trasgressione. Ogni estasi.»

Si appoggiò alla ringhiera come un direttore al proprio podio.
«Non ho mai avuto bisogno di sedurti, né di parlarti. Ho avuto tempo, denaro, e pazienza. E ora… sei qui.»

Un respiro lento. Poi l’ultima dichiarazione, fatta con una semplicità devastante:
«Ora sei mia.»

Fece un gesto ampio con la mano, indicando la vastità della villa.
«Vieni. Ti mostro la mia casa... mentre tu, amorevole trofeo, mi mostrerai tutto ciò che ti rende indimenticabile.»

L’uomo concluse lentamente la discesa della scalinata, i passi morbidi e misurati. Il suo sguardo non lasciò mai quello di Martina, come se ogni metro percorso servisse solo ad accorciare una distanza che, in realtà, era già stata colmata da tempo.

Quando le fu davanti, le prese le mani con delicatezza sorprendente. Le dita fredde ma ferme si intrecciarono alle sue, come se la stesse accogliendo a un ballo. Ma il suo sguardo era tutt’altro che galante.

La stava spogliando.
Con gli occhi.
Con la mente.
Con il potere di chi l’aveva desiderata a lungo senza mai toccarla.

«Sei più bella di quanto i video potessero raccontare,» mormorò, la voce bassa, quasi ipnotica. «Ma non sei solo bella. Sei… progettata per il peccato.»

Martina non rispose. Sentiva il respiro farsi più profondo, l’aria farsi più calda attorno a loro. Si lasciò guidare, e lui, con gesto fluido, le fece fare una giravolta lenta. La osservò da dietro, da ogni angolazione. La linea delle gambe nelle autoreggenti, la curva netta dei glutei, il rosso vivo del body incorniciato dal pizzo nero, la piega del taglio sull’addome, il riflesso del plug che brillava quando la luce del lampadario lo accarezzava.
Un’opera. Una donna ridotta a icona. E pronta a essere venerata.

«Perfetta,» sussurrò alle sue spalle, più a se stesso che a lei.

Si avvicinò. Con lentezza. E quando le fu di nuovo di fronte, l’abbracciò. Non fu un gesto tenero, ma totale. Una presa che la inglobava. La sua mano sinistra si posò decisa sulla curva del gluteo, stringendolo con fermezza, come se volesse verificarne la consistenza. L’altra la attirò a sé, avvolgendola in una presa sicura, elegante, ma assoluta.

Poi la baciò.

Il bacio la colse di sorpresa. Non tanto per il gesto in sé, quanto per la sicurezza con cui era stato dato, come se quell’uomo sapesse esattamente dove mettere la bocca, come prendere possesso, quanto spingere per non domandare, ma pretendere.

Per un istante, Martina rimase immobile, disorientata.
Poi, qualcosa in lei cedette.

Le sue labbra risposero, si aprirono, cercarono le sue con una fame che non aveva previsto, e che tuttavia sembrava essere rimasta lì, in fondo alla gola, ad aspettare. Ricambiò il bacio, con passione crescente, abbandonandosi alla sensazione umida, calda, invadente… e incredibilmente eccitante.

Le mani dell’uomo si mossero con naturalezza, senza freni. Una rimase ferma a stringerle il gluteo, come se volesse misurarne la resa, l’altra cominciò a esplorarla lungo i fianchi, risalendo appena sotto il seno, sfiorando il raso teso del body, indugiando sull’elastico delle autoreggenti.

E lei… non si ritrasse.
Anzi, si lasciò toccare.

Sentì l’eccitazione salirle rapida, un calore che partiva dallo stomaco e le colava giù tra le cosce, avvolgendo il plug già presente come un innesco. La situazione, assurda solo poche ore prima, si stava trasformando in qualcosa di torbido e magnetico. Non c’era più solo costrizione. C’era qualcosa di più pericoloso: attrazione.

Il suo corpo, traditore, non vedeva più il predatore. Vedeva un maschio. Dominante, elegante, deciso. Uno che la desiderava da tempo, che l’aveva osservata, scelta, aspettata.
E lei… cominciava a voler essere presa.

Con un gemito appena accennato, si strinse a lui, le mani che ora percorrevano la sua schiena, accarezzandolo attraverso la stoffa con lentezza. Non era un abbraccio, era una resa consapevole. Un invito.

Martina non fece domande quando lui si staccò appena dal bacio, le mani ancora posate sul suo corpo, gli occhi che la scrutavano come se stesse leggendo ogni sua reazione. Con un cenno del capo, le indicò la scalinata, senza parlare. Ma l’ordine era chiaro.

Lei si voltò e cominciò a salire.

Il rumore dei tacchi sulle scale in marmo era netto, sensuale, ritmico. Il corpo fasciato dal body si muoveva con naturalezza, ma ogni passo accentuava la curva dei suoi glutei, ben scolpiti, parzialmente scoperti, esaltati dalle autoreggenti e dalla lucentezza del raso. Il plug brillava fugacemente a ogni oscillazione del bacino, come una piccola gemma segreta.

Lui restò indietro.
Volutamente.

Saliva lentamente, due o tre gradini più in basso, lasciandole qualche metro di vantaggio solo per godersi la visione. Gli occhi fissi sulle sue forme che si muovevano morbide ma decise, su quel fondoschiena che sembrava danzare ad ogni passo.
Era ipnotico. Una provocazione senza coscienza… o forse fin troppo consapevole.

Martina sentiva il suo sguardo addosso. Lo percepiva come una carezza calda, insistente, senza contatto ma profondamente presente. E la consapevolezza di essere osservata in quel modo non la faceva sentire nuda: la faceva sentire desiderata.

Quando raggiunse l’ultimo gradino, proprio sul ballatoio, si voltò lentamente, le labbra leggermente socchiuse.
Fu allora che lui la raggiunse.

La bloccò con un braccio, con naturalezza, senza violenza. Si avvicinò al suo orecchio.
Non disse nulla.

La sua mano scese alla cintura dei pantaloni, e li slacciò con calma, senza fretta. Il gesto era semplice, elegante, ma profondamente carico di autorità. Con un movimento fluido, estrasse il suo membro, già duro, teso, eretto, affamato.

Lo fece senza teatralità, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Come se le appartenesse già.

Lo sguardo fisso su di lei, mentre il suo sesso pulsava nell’aria, orgoglioso di mostrarsi.

Martina, girata verso di lui in cima alla scala, si trovò improvvisamente di fronte alla rivelazione più intima di quell’uomo che l’aveva osservata, studiata e condotta fino lì.

Il suo membro era già eretto, rigido, pulsante di desiderio trattenuto.

La vista la colpì con forza.

Non era lungo, almeno non più della media… ma la larghezza era sconvolgente. Un grosso cilindro di carne tesa, più spesso del pugno di una donna, con il glande parzialmente scoperto, lucido, dalle sfumature violacee. La mano dell’uomo lo sosteneva con naturalezza, quasi con fierezza silenziosa, mentre i suoi occhi restavano inchiodati ai suoi, studiandola ancora una volta, stavolta nella sua reazione più profonda.

Il contrasto con la sua corporatura minuta era surreale, quasi impossibile.
Eppure… era lì. Reale. Vivo.

«Adesso capisci…» mormorò, con quella voce profonda che sembrava uscire dal petto di un uomo due volte più grande.
«Perché il plug era così grosso.»

Martina rimase immobile per un istante. Lo guardò. Lo riguardò. E annuì. Non servivano parole. Solo un gesto.

La sua mano si alzò, lenta, decisa, e lo afferrò. Le dita non riuscivano a chiudersi completamente attorno al fusto, tanto era spesso. La carne era calda, dura, viva. La sentì pulsare tra le sue dita, come se avesse appena messo le mani sul cuore stesso del dominio che quell’uomo esercitava su di lei.

Martina abbassò lo sguardo sulla carne che stringeva tra le dita, ancora sorpresa dal peso e dal calore che emanava. La sua lingua si passò lentamente sulle labbra rosse, istintivamente, come per prepararsi. Poi si abbassò, con grazia e decisione, le ginocchia che toccarono il velluto del ballatoio, i tacchi ancora perfettamente allineati, la schiena dritta, fiera nella sua sottomissione consapevole.

Portò il viso vicino al glande, ne inspirò l’odore maschio, intenso, già carico di quel desiderio denso e trattenuto troppo a lungo. Fece scivolare la lingua sul bordo del cappuccio, poi osò di più, cercando di farlo entrare.

Ma non fu facile.

Il suo corpo si adattava al gioco, ma la sua bocca faticava ad accoglierlo. Era troppo spesso, pieno, massiccio. Le labbra si aprivano al massimo, le guance si tendevano. Ma lei non si arrese. Anzi, si adoperò con tutta se stessa, accompagnando ogni movimento con la mano libera, mentre la saliva cominciava a colare lenta lungo il fusto.

L’uomo gemette piano, un suono profondo, soddisfatto, appena trattenuto. Poi, come premiandola, prese il controllo, afferrandole la nuca con eleganza ma con decisione, e spinse a fondo.

Martina trattenne il respiro e si lasciò guidare, sentendolo scivolare più dentro, sentendo le labbra aprirsi al limite, sentendolo invaderla. Il suo corpo si tese per un istante, poi si adattò. Era già calda, già bagnata, già completamente coinvolta.

E fu tutto molto veloce.
L’eccitazione dell’uomo era troppa. La vista di quella donna, inginocchiata, vestita solo di raso e pizzo, che si offriva senza proteste, senza esitazioni, aveva acceso una miccia che bruciava già da settimane.

Con un ultimo gemito roco, si liberò nella sua bocca.

Martina non si ritrasse. Lo accolse. Tutto. Sentì il calore invaderle la lingua, scorrere sulla gola. E non ne sprecò una sola goccia. Deglutì con lentezza, con consapevolezza. Poi sollevò lo sguardo verso di lui, soddisfatta, gli occhi lucidi e brillanti, senza una parola.

L’uomo si ricompose con naturalezza, lasciando che il respiro tornasse lento e regolare. Osservò Martina inginocchiata davanti a lui, lo sguardo alto e docile, le labbra ancora umide. La raggiunse con una mano, le accarezzò il mento con delicatezza, come si fa con qualcosa di prezioso e ormai di proprietà.

Poi parlò.

«Molto brava. Complimenti.»

Il tono era basso, caldo, quasi amichevole, ma carico di una superiorità disarmante.

«Si vede che ti piace… farlo. E a me piace vederlo. Non tutte riescono ad accogliermi nelle loro bocche… tu l’hai fatto con passione. Con fame. Mi hai dato molto piacere… e siamo ancora sulle scale.»

La guardava con occhi vivi, colmi di desiderio, ma anche di ammirazione.
«Credo che io e te ci divertiremo molto.»

Le porse la mano e la aiutò a rialzarsi con un gesto quasi cavalleresco. Poi si chinò appena, vicino al suo orecchio.

«Nulla ti sarà precluso.
Io userò – e abuserò – del tuo corpo a mio insindacabile giudizio.
E tu… ne godrai. Perché io voglio vedere le donne godere.
È questo che mi eccita davvero.»

Le parole si insinuavano nella mente di Martina come dita invisibili.
Erano promesse e condanne allo stesso tempo.

Fece qualche passo indietro, senza staccare gli occhi da lei.
«E quando ci saremo stancati l’uno dell’altra… quando i giochi saranno terminati, le fantasie esaurite, i desideri consumati... ti lascerò andare.»

Un sorriso, stavolta più tagliente.
«E cancellerò ogni singola prova. Tu e tuo marito tornerete liberi. Puliti. Inaccessibili. Come prima. Come se tutto questo… non fosse mai accaduto.»

Poi si fermò. Il tono cambiò, diventando quasi confidenziale, come se stesse per farle un regalo.

«Ma ora una domanda fondamentale, Martina…»

Fece una pausa. La guardava dritta negli occhi, scavando dentro.

«Sei sicura di volerlo far partecipare a tutto questo?»

Un gesto della mano. Un'immagine ipotetica.
«Potrei fare in modo che, dalla comodità della vostra casa, lui possa vedere tutto. Ogni tuo gemito, ogni sguardo, ogni goccia.
Senza che tu sia condizionata dalla sua presenza.**

Un compromesso, non credi? Tu vivi libera, senza freni. E lui… assiste.
Vede. Gode. Soffre. Ama.»

Fece un passo verso di lei, lo sguardo calmo ma tagliente.
«Dimmi, ti sembra un buon compromesso?»

Martina restò in silenzio per qualche istante, lo sguardo ancora rivolto verso di lui, mentre il corpo cominciava a percepire il peso reale di quelle parole.

Poi, con un filo di voce, ma senza tremore, chiese:
«Quindi… mi stai dicendo che, fino a che non avremo finito, io vivrò in questa casa con te?»

Fece un passo indietro, lo sguardo serio, lo sterno che si sollevava appena per il respiro più profondo.
«Ma quanti uomini dovranno godere del mio corpo?
E per quanto tempo mi terrai prigioniera in questa gabbia dorata?»

Lui sorrise. Lentamente. Un sorriso che non aveva niente di paterno, né di cinico.
Era sereno. Sicuro.

«Martina…» mormorò, la voce più morbida ma ancora profonda.
«Non sei prigioniera. Sei qui perché lo hai scelto.»
Si avvicinò di un passo, la guardò negli occhi.
«E se vuoi andare… puoi farlo. Anche adesso. La porta è lì.»

Si voltò appena, indicando con un cenno elegante la direzione.
Poi si voltò di nuovo verso di lei. Il sorriso si era fatto più sottile.
«Ma conosci le conseguenze. E sai che una volta varcata quella soglia, il mondo che troveresti non sarebbe più quello di prima.
Non per colpa mia. Ma per tutto ciò che abbiamo costruito insieme.»

Fece una pausa. La sua voce, calda come velluto, si fece ancora più intima.
«Certo che vivrai qui, se deciderai di restare.
Ti voglio sempre a mia disposizione. Nuda, vestita, pronta. Per me. Per chi deciderò che merita di averti.»

Si avvicinò ancora.
«Quanti uomini ti avranno? Tutti quelli che riterrò necessari.
Ma non per usarla, la tua carne.
Per farla vibrare.
Per farla scoprire.
Per spingerti dove neppure tu pensavi di voler andare.»

Martina sentì la pelle incresparsi. Un brivido che saliva dalle cosce fino al collo. E non era solo paura.

«Quanto durerà?» proseguì lui. «Il tempo necessario.
Alcuni mesi. Forse più. Non posso abbreviare qualcosa che deve essere perfetto.
Ma credimi…»

Le si avvicinò fino a sfiorarle il viso con il fiato.
«Alla fine, sarai tu a venire a cercarmi.

Martina non distolse lo sguardo. Lì, in cima alla scalinata, ancora con le gambe appena aperte, le labbra ancora umide e il corpo che tremava di eccitazione trattenuta, fece la sua scelta.

Gli offrì il braccio con un gesto ironicamente elegante, quasi aristocratico, e disse con voce ferma, senza esitazioni:

«Allora… fammi vedere questa casa dove dovrò vivere per i prossimi mesi.»
Un mezzo sorriso le affiorò sulle labbra.
«E già che ci sei… informa tu Luca delle decisioni che abbiamo preso. Sono sicura che saprà apprezzare… da lontano.»

Lui annuì, senza sorpresa. Come se avesse sempre saputo che sarebbe andata così.

Le offrì il braccio con naturalezza, e iniziarono a camminare lungo i lunghi corridoi della villa.

«La servitù c’è,» spiegò mentre passavano davanti a porte chiuse e specchi antichi, «ma non la vedrai mai. Si muovono in corridoi paralleli, interni. Entrano nelle stanze solo quando sono vuote. La casa è completamente nostra… per ogni gesto, ogni parola, ogni… perversione.»

Martina ascoltava in silenzio, registrando ogni dettaglio con crescente curiosità. L’idea di muoversi liberamente, nuda, eccitata, dominata, senza occhi esterni, ma con la costante possibilità che Luca potesse vedere ogni cosa da lontano, la accendeva ancora di più.

Dopo aver attraversato due ampi saloni e una biblioteca, giunsero a una stanza più raccolta, quasi nascosta. Le pareti erano rivestite di boiserie scura, il soffitto basso, e al centro un grande tappeto spesso e folto, così fitto da sembrare erba lussuosa. Nessun mobile. Solo lo spazio. E il silenzio.

Martina si fermò.
Poi, lentamente, si abbassò sulle ginocchia, e si mise a quattro zampe sul tappeto, con grazia e lentezza calcolata, il corpo che scivolava fluido, perfetto. Poi sollevò il bacino, inarcando la schiena al massimo, fino a mostrare tutto: il body teso sul ventre, le autoreggenti che disegnavano le cosce, e il plug…
lucido, incastonato tra i glutei alti, ora ben in vista.

Si voltò a guardarlo da sotto in su, gli occhi verdi attraversati da una scintilla oscena e ironica.
La voce era quasi un sospiro, ma tagliente come una lama affilata.

«Il plug… comincia a darmi fastidio.»
Un sorriso appena accennato.
«Perché non provi a sostituirlo… con quello per cui è dedicato il mio antro segreto?»

Martina era lì, a quattro zampe sul tappeto spesso, il sedere sollevato con grazia provocatoria, le gambe leggermente aperte, il plug che scintillava tra i glutei. Lo guardava da sotto in su, il volto rilassato ma carico di una malizia colma di attesa.

Vittorio la osservò in silenzio per qualche istante. Poi, con lentezza, fece un passo avanti.
Si abbassò sulle ginocchia dietro di lei, si chinò leggermente e, con il tono profondo e rotondo che sembrava fatto apposta per incidersi nella pelle, le sussurrò:

«Martina… io mi chiamo Vittorio.»

Un nome semplice. Reale. Definitivo.

«E prima di sodomizzarti come mai ti è stato fatto, è giusto che tu sappia a chi dovrai urlare il tuo piacere.»

Il tono era privo di fretta. Di chi conosce il proprio potere. Di chi sa che nulla gli sfuggirà.

Con gesti misurati prese da una credenza bassa un piccolo flacone satinato, lubrificante trasparente, e si inginocchiò alle sue spalle.

Le mani sfiorarono i fianchi, poi aprì il body sul retro con cura, senza strappi, come se stesse scartando un’opera d’arte. Il tessuto scivolò sui glutei tesi, mettendo completamente in vista il plug.

Con dita esperte, lo afferrò alla base, e con un movimento lento e rispettoso, lo sfilò, lasciando uscire un gemito sordo da Martina, un misto di sollievo e anticipazione.

Il plug uscì lucido e caldo, seguito da un respiro profondo della donna.

Poi Vittorio aprì il flacone e versò una generosa quantità di lubrificante, prima sull’ingresso caldo e pulsante dell’antro segreto, poi all’interno, con due dita esperte e pazienti. Le sue mani erano ferme, ma affettuose. Non stava preparando solo il corpo. Stava accendendo il cuore.

Quando tutto fu pronto, si fermò un istante.
Poi, con voce calma, posata, le chiese:

«Martina… sei sicura?»

Lei si voltò leggermente, il volto arrossato dal calore, gli occhi lucidi, ma il sorriso perfetto. Nessuna esitazione, solo brama.

«Non temere…» sussurrò.
«Non mi farai male.
E se me ne farai…
sarà solo per accrescere ancora il mio piacere.»

Le parole di Martina furono come benzina su una brace già viva. Quel sorriso, quella sicurezza nel dolore, quel modo di offrirsi come se fosse lei a possederlo… fecero scattare qualcosa in Vittorio.

Capì all’istante.

Quella donna non era una delle tante.
Era un pericolo.
Un vortice. Una creatura nata per sedurre fino al punto di farti dimenticare chi sei.
E se non l’avesse dominata subito, con forza, lo avrebbe succhiato via.
Anima, lucidità, potere.

«No,» pensò. «Questa va domata. Adesso.»

Il sorriso svanì dal suo volto. Al suo posto, la fame.

Con un gesto rapido e preciso, prese il proprio membro ancora lubrificato e teso, lo posizionò all’ingresso di lei, già aperto e pronto. E senza attendere oltre, spinse dentro.

Con rabbia.
Con fame.
Con necessità.

Un solo affondo, profondo, pieno, senza pietà.

Martina gemette con forza, la testa che si abbassava di scatto, le mani che affondavano nel tappeto folto per cercare ancoraggio. Il corpo le tremò, ma non indietreggiò.
Lo prese. Tutto.

Vittorio si fermò solo un attimo, il fiato spezzato dalla stretta violenta e calda che lo avvolgeva. Mai, mai aveva sentito nulla del genere.
La consistenza, la risposta, il modo in cui il corpo di lei lo tratteneva…
Era perfetta.

E dentro di sé, mentre iniziava a muoversi, capì una verità assoluta:
Questa donna lo avrebbe reso schiavo del proprio stesso dominio.

Martina non cercava tregua. Non la voleva.

Appena sentì Vittorio affondare dentro di lei, con tutta la furia che gli saliva dal ventre e dal controllo appena perduto, cominciò a parlargli, a incitarlo, a provocarlo.

«Più forte.»
Il suo tono non era supplica, era comando.
«Ancora… di più. Così… non mi basta.»

Vittorio strinse i denti. Le sue mani la afferrarono per i fianchi, le dita che affondavano nella pelle nuda, e cominciò a spingere con forza, con ritmo crescente, senza filtri.

Ma non bastava mai.

Lei lo sentiva, eccome se lo sentiva. Il membro massiccio la riempiva, la lacerava con dolcezza feroce, ma invece di ritirarsi, lo cercava.
Lo voleva più profondo.
Più crudo.
Più violento.

Il suo viso era rigato da lacrime – di dolore, sì, ma soprattutto di qualcosa di più potente: la resa totale al piacere, quell’estasi brutale e bellissima che solo chi si lascia attraversare può davvero conoscere.

«Così, sì… così!»
La voce le tremava, tra i singhiozzi e i gemiti, ma era sempre chiara.
«Più uomo, Vittorio… fai di me una tua cosa. Più forte, ti prego… più a fondo!»

Vittorio non si era mai sentito così trascinato.
Nessuna donna lo aveva mai preso così dentro.
Nessuna lo aveva risucchiato nell’intestino con quella forza quasi impensabile, come se volesse trattenerlo per sempre, come se il suo corpo non volesse più lasciarlo andare.

Il suono dei loro corpi che si univano riempiva la stanza. Il tappeto, spesso e folto, smorzava ogni impatto, ma la carnalità esplodeva lo stesso, ovunque.

E in quegli affondi ciechi, nel dolore che si mescolava al piacere, Vittorio capì:
non la stava domando. Lei lo stava conquistando.

Questo accrebbe la sua virilità, la prese forte per i fianchi e la tirò a se, pemettendo una maggiore profondità, una maggiore intensità, poi lo sentì. Le contrazioni ritmiche del muscolo, il tremore del corpo, l'abbondante fuoriuscita di succhi dalla sua porta del tesoro testimoniarono l'orgasmo della donna, "si Vittorio, non smettere".

L'orgasmo fu lungo e intenso, lui non diede tregua alla femmina, ma il suo orgasmo lo aveva portato al limite. Si sfilò velocemente da lei, lasciando una caverna spalancata dove pochi istanti prima aveva posteggiato il suo membro e lo presentò alla faccia di Martina, che avvolse le labbra intorno al glande e per la seconda volta in pochissimo tempo assaporò il piacere dello sconosciuto aguzzino.

Vittorio era ancora inginocchiato, il respiro pesante, le mani appoggiate sulle cosce. Ancora vestito, solo la camicia leggermente stropicciata e la cintura slacciata tradivano l’intensità dell’atto appena consumato.

Martina si rialzò con eleganza. Ogni movimento, anche dopo lo sfinimento, sembrava studiato, naturalmente seducente. Il corpo le brillava appena, tra sudore e piacere, e mentre si stirava con un piccolo sospiro, afferrò il body aperto e lo fece scivolare via del tutto, lasciandolo cadere ai piedi come un trofeo.

Rimase soltanto con le autoreggenti e le Louboutin nere, lucide, altissime.
Nuda. Fiera. Bellissima.

Il trucco sfatto, le tracce delle lacrime sulle guance, i capelli spettinati… tutto di lei urlava trasgressione e resa, ma lo sguardo era di nuovo lucido, vivo, consapevole.

Si voltò verso di lui con un sorriso malizioso, la voce leggermente roca ma controllata.

«Sei stato bravo.
Mi è piaciuto molto.»

Fece qualche passo verso di lui, con l’andatura lenta e provocatoria di una donna che non ha più niente da dimostrare. Solo da ottenere.

Si fermò a pochi centimetri, il corpo caldo e nudo davanti al suo completo ancora intatto. Gli porse il braccio, come una dama che invita il suo cavaliere.

«Visto che siamo soli…» disse con un mezzo sorriso, accennando un giro su sé stessa, le calze e le scarpe credo che possano bastare, non trovi?

Lui, ancora leggermente trafelato ma sorridente, la guardò senza rispondere.
Il silenzio era un applauso.

Martina inclinò la testa, le labbra ancora leggermente lucide.
«Allora, Vittorio…» sussurrò.
«Dove eravamo rimasti nel nostro giro della casa?»

Spero che vi stia piacendo, come per la scorsa serie prediligo l'approccio mentale e non quello fisico per la descrizione dei miei racconti. Se avete commenti li leggerò volentieri qui o via mail a mogliemonella2024@gmail.com
scritto il
2025-05-19
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