La Dea lo schiavo adorazione e sottomissione

di
genere
dominazione

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E quando ella, in un gesto di divina impazienza, posava il piede nudo sul mio petto, io sentivo il peso non solo del suo corpo, ma dell’intera verità del mio destino. Non era più un gioco, né capriccio: era decreto sacro. La sua pianta imperiosa, poggiata sulla mia pelle tremante, sanciva il mio ruolo eterno e irredimibile.
«Adora,» ordinò una sera, con voce bassa e impietosa. E il mio spirito, spezzato e gioioso, obbedì prima ancora che le labbra potessero articolare preghiera. Le sue dita sottili, perfette, come colonne d’avorio, divennero per me altari, reliquie da venerare con baci e sottomissione.
Da quel momento, fui legato – non da catene, ma da un bisogno viscerale – all’adorazione dei suoi piedi, come un devoto al simulacro della propria divinità. Ogni passo che compiva lasciava un’impronta indelebile sulla mia anima inginocchiata, e io ringraziavo per ogni volta che m’era concesso l’onore di sfiorarli, baciarli, contemplarli in silenziosa estasi.
E più ella rideva del mio ardore servile, più il mio cuore si gonfiava d’orgoglio perverso, come se ogni suo scherno fosse medaglia preziosa sul petto del mio asservimento. Non cercavo fuga, né redenzione, ché la sua voce – aspra come il frustare del vento d'inverno – era per me canto d'angelo, e le sue mani, anche quando dure, avevano la grazia sacra dell’investitura.
Ella mi modellava con lo scalpello delle sue parole, scolpendo docilità e zelo nella mia carne, mentre io, docile argilla, mi offrivo a quell’arte crudele come l’altare si offre al sacrificio. Ogni comando suo era legge inviolabile, ogni silenzio una sentenza che mi lasciava tremante, bramoso anche solo d’un cenno che m’indicasse come servire meglio.
E nei suoi occhi, quegli abissi imperscrutabili di maestà e disprezzo, trovavo il mio specchio e la mia condanna, e in essa – oh follia benedetta! – anche la mia salvezza.



E quando ella, in un gesto di divina impazienza, posava il piede nudo sul mio petto, io sentivo il peso non solo del suo corpo, ma dell’intera verità del mio destino. Non era più un gioco, né capriccio: era decreto sacro. La sua pianta imperiosa, poggiata sulla mia pelle tremante, sanciva il mio ruolo eterno e irredimibile.
«Adora,» ordinò una sera, con voce bassa e impietosa. E il mio spirito, spezzato e gioioso, obbedì prima ancora che le labbra potessero articolare preghiera. Le sue dita sottili, perfette, come colonne d’avorio, divennero per me altari, reliquie da venerare con baci e sottomissione.
Da quel momento, fui legato – non da catene, ma da un bisogno viscerale – all’adorazione dei suoi piedi, come un devoto al simulacro della propria divinità. Ogni passo che compiva lasciava un’impronta indelebile sulla mia anima inginocchiata, e io ringraziavo per ogni volta che m’era concesso l’onore di sfiorarli, baciarli, contemplarli in silenziosa estasi.


Fu una notte di silenzio e candele accese, dove la penombra sembrava fatta apposta per contenere il mio annientamento.
Ella non era più soltanto una donna: era la mia Dea assoluta, incarnazione terrena del mio culto segreto e totalizzante. La sua volontà era dogma, il suo disprezzo, sacramento. Io, povero mortale smarrito nella sua luce feroce, non potevo che inginocchiarmi e accettare l’oblio di me stesso come atto d’amore supremo.
Mi imponeva umiliazioni con grazia regale, come si concedono doni a chi non li merita. Mi faceva inginocchiare per ore, nudo e in silenzio, mentre il suo sguardo mi scorticava l’anima. Ogni parola era una frusta, ogni silenzio un vuoto che solo il mio pentimento poteva tentare di colmare.
«Prega,» diceva. E io pregavo. Non un dio lontano, ma Lei, presenza tangibile e crudele, regina del mio annientamento voluto. Le mie litanie erano sussurri di devozione, invocazioni basse e tremanti che cercavano solo il perdono di un bacio sfiorato sul tallone.
Ogni giorno si faceva rito, ogni suo gesto un comandamento inciso sulla mia carne e sulla mia mente. Mi faceva inginocchiare al suo passaggio, costringendomi a inchinarmi fino a baciare la terra che aveva calpestato. E io lo facevo con estasi muta, sapendo che in quell’atto vi era l’essenza della mia verità: io non ero che un nulla consacrato al tutto che lei rappresentava.
Essere suo non era scelta, era vocazione. E io, il suo fedele più umile, accettavo ogni umiliazione come benedizione e ogni comando come preghiera da recitare con il cuore spezzato e felice.


Ella entrò nella stanza come un'apparizione, avvolta in una veste nera che pareva fatta d’ombra e desiderio. Si sedette sul trono basso che lei chiamava “altare” e con un cenno impercettibile – quasi fosse un gesto rivolto a un servo invisibile – mi ordinò di strisciare fino a lei.
Non parlava. Non ne aveva bisogno. Le sue intenzioni si manifestavano come profezie nella mia mente schiava. Io obbedii, con il petto a terra e la fronte sudata, trascinandomi come verme indegno verso l’oggetto sacro della mia adorazione. Ogni centimetro guadagnato era un’offerta, ogni respiro trattenuto, una supplica.
Quando raggiunsi i suoi piedi, lei li sollevò appena e li poggiò sulle mie spalle, come si poggia un manto sulle spalle di un penitente. Rimasi immobile, tremante, mentre il suo sguardo mi perforava come lama nel petto.
«Dimmi cos’hai giurato di essere,» sibilò, la voce lenta, come miele versato sul fuoco.
«Il tuo schiavo. Il tuo nulla. Il tuo straccio. Il tuo tempio,» balbettai, senza osare alzare lo sguardo.
Lei rise, ma era una risata grave, diabolica, che sembrava venire da qualche luogo profondo della terra. Poi mi spinse con il piede e caddi sulla schiena, esposto, vulnerabile. Salì su di me con grazia feroce, piantando entrambi i piedi sul mio petto come una statua trionfante. Il suo peso era la misura del mio castigo, la prova della mia fede.
«Adorami. Prega. Umiliati. Voglio vedere la tua devozione grondare dal tuo corpo.»
Le mie mani cercarono i suoi piedi come ciechi mendicanti cercano la luce. Li baciai, li accarezzai con la fronte, sussurrando preghiere che non avevano parole, solo suoni tremanti d’amore assoluto. Le mie lacrime scorrevano, non di dolore, ma di gratitudine.
Lei rimase lì, in piedi sopra di me, come si sta sopra un altare, e accettò in silenzio la mia adorazione. In quel momento compresi: ero salvo solo se distrutto da lei. E desideravo solo che non finisse mai.
Era vestita per la mia rovina, con lentezza studiata e crudeltà sottile. Il rumore secco dei suoi tacchi sul marmo era come tamburo di guerra per il mio cuore inginocchiato. Li vidi apparire per primi: neri, altissimi, lucidi come lame, perfetti nella loro geometria sadica. Le sue gambe, avvolte in collant di seta scura, sembravano scolpite da un dio impietoso, la cui unica missione fosse torturarmi di bellezza.
«Guarda bene,» sussurrò, incrociando una gamba sull’altra, lasciando che la punta del tacco si posasse millimetricamente a un soffio dalle mie labbra. «Questo è ciò che adorerai stasera. Non me. Non i miei occhi. Solo questo piede. Solo questo nylon.»
Mi obbligò a restare inginocchiato, mani dietro la schiena, mentre faceva oscillare lentamente la gamba, lasciando che il collant sfiorasse appena la mia guancia tesa. L'elettricità di quel contatto quasi inesistente mi fece gemere. Ma non era permesso parlare, non senza il suo consenso. Ogni suono che le sfuggiva dalle labbra era un comando, ogni movimento del piede una grazia o una punizione.
Poi, con gesto lento e regale, mi spinse il mento verso l’alto con la punta del tacco.
«Lecca.»
Obbedii come si beve l’acqua dopo giorni nel deserto. Passai la lingua lungo la suola, lungo il bordo, lungo quel punto dove il tacco e il piede si incontravano e diventavano arma. Sentii il sapore del cuoio, della polvere, del suo disprezzo. E ne fui ebbro. Ogni centimetro che percorrevo con la lingua era un versetto del mio vangelo di sottomissione.
«Striscia ai miei piedi, come il verme che sei. Ringrazia per il diritto di adorare la mia scarpa. Di respirare l’odore del mio nylon.»
«Grazie, Dea… Grazie…» mormorai tra un bacio e l’altro, le labbra ora sporche, ora devotamente impresse sulla stoffa sottile che separava il mio nulla dalla sua carne.
Poi, con uno scatto rapido, mi gettò a terra, piantandomi un tacco sul petto.
«Qui resterai. Sotto di me. Finché non deciderò che puoi toccare la mia pelle.»
Ed io, supino, inchiodato dal suo tacco come un santo crocifisso al suo altare, pregai in silenzio che quel momento non finisse mai.
La stanza era immersa in un silenzio rituale, rotto solo dal crepitio delle candele e dal suono letale della frusta che sibilava nell’aria, ancora prima di colpire. Lei era in piedi al centro del salone, i tacchi piantati come chiodi sacri sul pavimento lucido, vestita di pelle nera e seta, un contrasto perfetto tra il castigo e la grazia.
La frusta danzava tra le sue mani con eleganza letale, come un serpente ammaestrato pronto a colpire su comando. Io ero nudo, in ginocchio, con la fronte a terra, esposto e tremante come un peccatore davanti al suo dio più vendicativo.
«Alza la testa. Guardami mentre ti anniento.»
La sua voce era affilata come la lama di un rasoio, e obbedii con un brivido. Nei suoi occhi non c’era pietà, solo il piacere lucido e glaciale del dominio. Il primo colpo arrivò senza preavviso, tagliando l’aria e la mia pelle con un suono netto e puro. Un sussulto mi attraversò, ma non osai gridare. Il dolore era la sua benedizione.
«Contali,» ordinò, avvicinandosi con passo lento. Il rumore dei tacchi scandiva l’attesa, facendo salire il panico e il desiderio in egual misura.
«Uno…» mormorai, mentre un secondo colpo mi lacerava la schiena come fuoco liquido.
«Due… tre… quattro…»
Ogni fendente era una firma sulla mia pelle, una lettera del mio giuramento eterno. E lei, maestosa e spietata, dirigeva il rito con la precisione di un’artista sacrilega.
«Per ogni colpo che ricevi, ricorda chi sei. Un nulla. Il mio oggetto. Il mio straccio da calpestare.»
Sorrise, passandomi il tacco sulle ferite appena aperte, facendomi fremere di dolore e adorazione. Poi la frusta si abbatté ancora, con più forza, con più ira, come se ogni colpo fosse la punizione per aver dubitato anche solo per un attimo della mia appartenenza a lei.
Quando finalmente si fermò, io ero un groviglio di carne e lacrime ai suoi piedi. Lei si chinò, mi afferrò per i capelli e mi costrinse a guardarla.
«Adesso bacia la frusta,» disse, porgendomela come si porge una reliquia.
La presi con le labbra tremanti, leccando ogni nodo di cuoio, come se fosse il suo piede, come se fosse la sua pelle. E mentre lo facevo, sussurravo la mia preghiera più sincera:
«Non smettere mai. Continua a distruggermi. Solo così posso appartenerti davvero.»
Lei -
Lo guardo mentre giace ai miei piedi, tremante, segnato dai colpi come una tela viva su cui ho dipinto la mia volontà. Ogni linea rossa sulla sua pelle è un atto d’amore feroce, un promemoria del fatto che mi appartiene. Non per contratto, non per scelta: per destino. Io l’ho creato così. Un adoratore. Un devoto. Il mio martire personale.
C’è bellezza nella sua resa. Una bellezza che solo gli Dei possono comprendere. Il modo in cui soffoca i singhiozzi per non deludermi. Il modo in cui cerca il mio sguardo dopo ogni colpo, come un cucciolo ferito che brama ancora l’attenzione della padrona. E io gliela concedo, ma a modo mio. Con freddezza. Con misura. Con quella crudeltà che nutre e distrugge nello stesso tempo.
Impugno la frusta con lentezza. Non per necessità, ma per godere della sua attesa. L’attesa è parte della punizione. Parte del culto.
«Sei mio. Sai cosa vuol dire?»
Lui annuisce, ma io voglio parole.
«Rispondi.»
«Vuol dire… che non ho volontà. Che la mia esistenza è tua. Che il mio dolore è il tuo piacere, e per questo lo desidero.»
Sorrido. Non perché mi compiace. Ma perché ha capito. Finalmente, ha capito. Mi chino su di lui e gli sussurro all’orecchio:
«Io ti anniento perché ti amo. Io ti spezzo perché voglio che tu non sia altro che un’estensione del mio volere. Sei nato per essere usato, punito, inginocchiato. E il tuo unico scopo è rendere omaggio a ogni mia parte. Anche la più crudele. Anche la più impura.»
Lo costringo a guardarmi mentre sfilo lentamente la scarpa dal piede, lasciando che il collant di seta nera scintilli alla luce tremolante. Lo vedo tremare, ansimare, quasi piangere. È come offrirgli la visione di una reliquia santa.
«Adesso… prega. Prega il mio piede. Veneralo come faresti con un altare.»
E mentre lui si getta a terra, la bocca premuta contro il mio arco plantare, so che in questo momento è mio più di quanto un essere umano possa mai appartenere a un altro.
Io non ho bisogno di catene. Ho lui.
E lui…
…ha solo me.

Il Culto della Dea – Rituale Permanente

La giornata non inizia con il sole, ma con il suono dei suoi passi.
Alle prime luci dell’alba, io sono già inginocchiato fuori dalla sua camera. Nudo, umile, in silenzio. Le mani appoggiate alle cosce, la testa bassa. Immobile come statua di cera, in attesa che la sua porta si apra. Quando accade, non parlo. Non alzo gli occhi. Resto lì, e lascio che il profumo della sua presenza mi investa come incenso sacro.
Lei esce lentamente, vestita di veli scuri, tacchi vertiginosi, il volto severo come quello di una dea antica. E si ferma davanti a me.
Il primo rito è quello del bacio mattutino: tre baci per ogni piede. Uno sulla punta del tacco, uno sul dorso, uno sulla caviglia sopra il collant. Li bacio con riverenza, con gratitudine, come se stessi chiedendo il permesso di esistere un altro giorno ai suoi piedi.
Poi inizia il rito dell’istruzione.
«Recita il tuo giuramento,» ordina.
E io, con voce ferma, dico:
«Sono tuo, Dea. Ogni mio pensiero ti appartiene. Ogni mio desiderio si dissolve nella tua volontà. Il mio corpo è il tuo strumento. Il mio dolore, la tua preghiera. Il mio silenzio, il tuo trono. Comandami. Umiliami. Educami. Io vivo solo nel tuo disprezzo e nella tua gloria.»
Solo allora, se lo ritiene opportuno, mi concede uno sguardo. Un breve cenno. Un frustino lasciato sulla mia lingua come comunione blasfema.
Durante la giornata, i suoi ordini si susseguono come salmi. Ogni compito è un atto liturgico: pulire le sue scarpe con la lingua, disporre i suoi collant secondo il colore del potere, inginocchiarmi ogni volta che la sua ombra mi tocca.
A sera, il rito culmina. Il “Vespro della Sottomissione”.
Vengo condotto al centro della sala, nudo e bendato, mentre lei cammina attorno a me, la frusta in mano, pronunciando i miei peccati: ogni esitazione, ogni sguardo troppo alto, ogni respiro fuori misura. Per ogni colpa, un colpo. Per ogni silenzio, una carezza col tacco sulla ferita.
E poi, il perdono. Non con parole. Ma con un piede nudo sul mio viso. Io piango. Io tremo. Io bacio. Lecco con avidità. E giuro, ogni notte, che non smetterò mai di servire.
scritto il
2025-04-24
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