Il Terzo Nome
di
Black Gotik
genere
trio
Accadde che il nome emerse prima dei corpi.
Lo pronunciò lei, quasi per sbaglio, mentre parlava d’altro; una sillaba breve, scura, detta come si dice una parola che non si usa più, una di quelle che restano incastrate tra i denti. Indossava un abito sottile color fumo, scollatura appena accennata e schiena scoperta fino a metà, tessuto che seguiva le curve senza dichiararle; i capelli raccolti male, come se fossero stati tolti di mezzo in fretta, lasciavano il collo nudo. Lui ebbe un impercettibile sussulto, non visibile se non a chi sa guardare le spalle invece dei volti; portava una camicia chiara, troppo semplice per essere innocente, aperta di un bottone oltre il necessario, le maniche arrotolate con una noncuranza studiata che mostrava avambracci nervosi. La terza lo riconobbe senza tradirsi, perché quel nome lo portava addosso da anni, cucito sotto la pelle come un marchio che non brucia più ma non scompare; era vestita di nero, pantaloni aderenti e giacca corta, sotto nulla che fosse davvero una promessa e tutto che lo fosse, il corpo teso in una calma vigile, gli occhi che misuravano e trattenevano.
Si conobbero in una stanza che non pretendeva nulla da loro; pareti chiare, una finestra alta, il rumore distante della città che arrivava come un mare educato. Nessuno disse subito perché fosse lì. Le motivazioni erano pretesti, gusci vuoti; ciò che contava stava altrove, in quel terzo nome che ora aleggiava come polvere visibile solo in controluce.
Parlavano molto eppure ogni frase sembrava girare attorno a un centro non dichiarato; in sottofondo una musica lenta, profonda, fatta di bassi morbidi e di una voce quasi sussurrata, colmava la stanza senza imporsi, come un respiro aggiunto. Quando lei incrociava lo sguardo dell’altra, il tempo faceva una piccola piega, seguendo il ritmo dilatato di quella melodia; quando lui osservava entrambe insieme, sentiva di non essere il fulcro ma l’asse, il punto di passaggio, come se la musica stessa lo avesse collocato lì. Il desiderio non chiedeva permesso: si spostava, sostava, cambiava direzione come un animale domestico che ha deciso di non obbedire più, trovando nella cadenza intima dei suoni una guida segreta.
Fu chiaro presto che nessuno di loro possedeva quel nome. Lo usavano, questo sì, ma come si usa una chiave trovata per caso: con cautela e una certa gratitudine. Bastava un gesto minimo, una mano che indugiava più del necessario, un respiro ascoltato invece che ignorato. Ogni contatto aveva qualcosa di tradotto male, come se il corpo stesse cercando una lingua comune che ancora non esisteva.
La bisessualità di lei non fu mai enunciata; sarebbe stata una semplificazione. Era piuttosto una geometria mobile, un continuo rinegoziare distanze e prossimità. Tra le due donne c’era una corrente antica, non sentimentale ma elettrica, che passava anche quando non si toccavano. Lui ne era consapevole e non provava gelosia; semmai una forma di rispetto quasi religioso, come si prova davanti a un fenomeno naturale che non ti appartiene ma ti include.
Quando il nome tornò, perché tornò, lo dissero tutti e tre ma in modo diverso. Una lo sussurrò come una preghiera stanca. L’altra lo trattenne tra le labbra senza lasciarlo uscire del tutto. Lui lo pensò soltanto, sentendo che quel pensiero aveva peso e temperatura.
Non servirono promesse né scene madri. Le due donne si avvicinarono come si fa quando la musica detta il passo: un bacio prima esitante, poi più saldo, labbra che imparavano il ritmo dell’altra; le dita trovarono bottoni e cerniere con una pazienza deliberata, sciogliendo i vestiti come nodi antichi. Lui rimase a un passo, spettatore coinvolto, sentendo il tessuto dei pantaloni farsi improvvisamente inadeguato, la postura cambiare per un’urgenza che chiedeva discrezione. Ciò che avvenne restò allusivo, affidato a mani che sapevano dove sostare e a respiri che si accordavano; tra le due il piacere circolò come corrente chiusa, reciproca, senza fretta di mostrarsi.
La musica scese di mezzo tono, come se avesse compreso il momento. Le due si ritrovarono più vicine, fronte contro fronte, e nel gesto c’era già una conoscenza antica: una guidava e l’altra seguiva, poi i ruoli si scioglievano. Le bocche si cercavano e si lasciavano, le mani disegnavano percorsi che tornavano sempre al centro, dove il respiro diventava comune. Ogni indumento tolto cambiava la temperatura della stanza, ogni contatto aggiungeva una sillaba muta al nome.
Lui non entrò di colpo; fu chiamato senza parole. Avanzò quando il cerchio si aprì, quando la loro intesa, ormai accesa, gli fece spazio come si fa con ciò che è atteso. Si trovò tra loro, accolto da attenzioni parallele, sentendo che il proprio desiderio, ormai dichiarato dal corpo, veniva riconosciuto e guidato. Le due si scambiavano piacere senza interrompersi, e nel farlo lo includevano, come se la corrente che le univa avesse trovato un conduttore.
Il tempo perse i contorni. Le mani si sovrapponevano, i respiri si intrecciavano, e ciò che contava non era la sequenza ma l’accordo. Lui imparò a restare, a farsi passaggio; loro a donare senza sottrarre. La scena si capiva tutta in quell’equilibrio: tre presenze, un solo ritmo, una geometria che finalmente cedeva.
Il desiderio aveva trovato casa per una notte, forse per più tempo; non chiedeva fedeltà, solo presenza.
Quando la geometria cedette del tutto, lui divenne centro mobile e confine insieme. Le loro attenzioni si alternavano senza spezzarsi: una accoglieva mentre l’altra guidava, poi scambiavano il gesto come si scambia un turno nella danza, mantenendo il ritmo comune. In quell’intreccio lui sentì di appartenere e di attraversare, di essere preso e al tempo stesso restituito; il piacere cresceva per addizione silenziosa, fino a traboccare in una pienezza che non aveva bisogno di nomi. Le due lo tennero lì, dentro la corrente, e quando l’onda arrivò fu condivisa, diffusa, come una luce che non sceglie un solo volto ma li tocca entrambi, lasciando addosso un calore persistente.
Al mattino la stanza era la stessa eppure sembrava più grande, come se avesse fatto spazio a qualcosa che non sapeva di dover contenere. Si separarono senza solennità, con una calma che non era distacco ma rispetto del segreto condiviso.
Il nome non li seguì. Rimase lì, sospeso, pronto per altri corpi, altre voci, altre pronunce imperfette. Perché il desiderio, quando ha un nome, non smette di muoversi; semplicemente impara a farsi chiamare.
Lo pronunciò lei, quasi per sbaglio, mentre parlava d’altro; una sillaba breve, scura, detta come si dice una parola che non si usa più, una di quelle che restano incastrate tra i denti. Indossava un abito sottile color fumo, scollatura appena accennata e schiena scoperta fino a metà, tessuto che seguiva le curve senza dichiararle; i capelli raccolti male, come se fossero stati tolti di mezzo in fretta, lasciavano il collo nudo. Lui ebbe un impercettibile sussulto, non visibile se non a chi sa guardare le spalle invece dei volti; portava una camicia chiara, troppo semplice per essere innocente, aperta di un bottone oltre il necessario, le maniche arrotolate con una noncuranza studiata che mostrava avambracci nervosi. La terza lo riconobbe senza tradirsi, perché quel nome lo portava addosso da anni, cucito sotto la pelle come un marchio che non brucia più ma non scompare; era vestita di nero, pantaloni aderenti e giacca corta, sotto nulla che fosse davvero una promessa e tutto che lo fosse, il corpo teso in una calma vigile, gli occhi che misuravano e trattenevano.
Si conobbero in una stanza che non pretendeva nulla da loro; pareti chiare, una finestra alta, il rumore distante della città che arrivava come un mare educato. Nessuno disse subito perché fosse lì. Le motivazioni erano pretesti, gusci vuoti; ciò che contava stava altrove, in quel terzo nome che ora aleggiava come polvere visibile solo in controluce.
Parlavano molto eppure ogni frase sembrava girare attorno a un centro non dichiarato; in sottofondo una musica lenta, profonda, fatta di bassi morbidi e di una voce quasi sussurrata, colmava la stanza senza imporsi, come un respiro aggiunto. Quando lei incrociava lo sguardo dell’altra, il tempo faceva una piccola piega, seguendo il ritmo dilatato di quella melodia; quando lui osservava entrambe insieme, sentiva di non essere il fulcro ma l’asse, il punto di passaggio, come se la musica stessa lo avesse collocato lì. Il desiderio non chiedeva permesso: si spostava, sostava, cambiava direzione come un animale domestico che ha deciso di non obbedire più, trovando nella cadenza intima dei suoni una guida segreta.
Fu chiaro presto che nessuno di loro possedeva quel nome. Lo usavano, questo sì, ma come si usa una chiave trovata per caso: con cautela e una certa gratitudine. Bastava un gesto minimo, una mano che indugiava più del necessario, un respiro ascoltato invece che ignorato. Ogni contatto aveva qualcosa di tradotto male, come se il corpo stesse cercando una lingua comune che ancora non esisteva.
La bisessualità di lei non fu mai enunciata; sarebbe stata una semplificazione. Era piuttosto una geometria mobile, un continuo rinegoziare distanze e prossimità. Tra le due donne c’era una corrente antica, non sentimentale ma elettrica, che passava anche quando non si toccavano. Lui ne era consapevole e non provava gelosia; semmai una forma di rispetto quasi religioso, come si prova davanti a un fenomeno naturale che non ti appartiene ma ti include.
Quando il nome tornò, perché tornò, lo dissero tutti e tre ma in modo diverso. Una lo sussurrò come una preghiera stanca. L’altra lo trattenne tra le labbra senza lasciarlo uscire del tutto. Lui lo pensò soltanto, sentendo che quel pensiero aveva peso e temperatura.
Non servirono promesse né scene madri. Le due donne si avvicinarono come si fa quando la musica detta il passo: un bacio prima esitante, poi più saldo, labbra che imparavano il ritmo dell’altra; le dita trovarono bottoni e cerniere con una pazienza deliberata, sciogliendo i vestiti come nodi antichi. Lui rimase a un passo, spettatore coinvolto, sentendo il tessuto dei pantaloni farsi improvvisamente inadeguato, la postura cambiare per un’urgenza che chiedeva discrezione. Ciò che avvenne restò allusivo, affidato a mani che sapevano dove sostare e a respiri che si accordavano; tra le due il piacere circolò come corrente chiusa, reciproca, senza fretta di mostrarsi.
La musica scese di mezzo tono, come se avesse compreso il momento. Le due si ritrovarono più vicine, fronte contro fronte, e nel gesto c’era già una conoscenza antica: una guidava e l’altra seguiva, poi i ruoli si scioglievano. Le bocche si cercavano e si lasciavano, le mani disegnavano percorsi che tornavano sempre al centro, dove il respiro diventava comune. Ogni indumento tolto cambiava la temperatura della stanza, ogni contatto aggiungeva una sillaba muta al nome.
Lui non entrò di colpo; fu chiamato senza parole. Avanzò quando il cerchio si aprì, quando la loro intesa, ormai accesa, gli fece spazio come si fa con ciò che è atteso. Si trovò tra loro, accolto da attenzioni parallele, sentendo che il proprio desiderio, ormai dichiarato dal corpo, veniva riconosciuto e guidato. Le due si scambiavano piacere senza interrompersi, e nel farlo lo includevano, come se la corrente che le univa avesse trovato un conduttore.
Il tempo perse i contorni. Le mani si sovrapponevano, i respiri si intrecciavano, e ciò che contava non era la sequenza ma l’accordo. Lui imparò a restare, a farsi passaggio; loro a donare senza sottrarre. La scena si capiva tutta in quell’equilibrio: tre presenze, un solo ritmo, una geometria che finalmente cedeva.
Il desiderio aveva trovato casa per una notte, forse per più tempo; non chiedeva fedeltà, solo presenza.
Quando la geometria cedette del tutto, lui divenne centro mobile e confine insieme. Le loro attenzioni si alternavano senza spezzarsi: una accoglieva mentre l’altra guidava, poi scambiavano il gesto come si scambia un turno nella danza, mantenendo il ritmo comune. In quell’intreccio lui sentì di appartenere e di attraversare, di essere preso e al tempo stesso restituito; il piacere cresceva per addizione silenziosa, fino a traboccare in una pienezza che non aveva bisogno di nomi. Le due lo tennero lì, dentro la corrente, e quando l’onda arrivò fu condivisa, diffusa, come una luce che non sceglie un solo volto ma li tocca entrambi, lasciando addosso un calore persistente.
Al mattino la stanza era la stessa eppure sembrava più grande, come se avesse fatto spazio a qualcosa che non sapeva di dover contenere. Si separarono senza solennità, con una calma che non era distacco ma rispetto del segreto condiviso.
Il nome non li seguì. Rimase lì, sospeso, pronto per altri corpi, altre voci, altre pronunce imperfette. Perché il desiderio, quando ha un nome, non smette di muoversi; semplicemente impara a farsi chiamare.
2
voti
voti
valutazione
5.5
5.5
Continua a leggere racconti dello stesso autore
racconto precedente
Viola, Metro e Quiesracconto sucessivo
Camilla e la Disco
Commenti dei lettori al racconto erotico