Viola, Metro e Quies
di
Black Gotik
genere
fantascienza
Viola, Metro e Quies
Scelsero entrambi la Linea B, in quel tratto che scivola sotterraneo tra Piramide e Garbatella, dove il rumore del convoglio ha un tono cavernoso, quasi antico. Lei salì di corsa, con il fiato corto e le cuffie mezze scariche, e si sedette nel primo posto libero, senza fare troppo caso al ragazzo a fianco. Lui era mulatto, occhi profondi come strade bagnate dopo un temporale estivo, spalle larghe incorniciate da una maglietta scura che sembrava assorbire la luce.
Il vagone traballò con la consueta indolenza. Poi, nel momento in cui la metropolitana imboccò la galleria più lunga, avvenne l’imprevisto. Le lampade al neon si spensero di colpo, una dopo l’altra, come se qualcuno avesse tirato giù un sipario invisibile. Il rumore dei binari tacque. Il convoglio si arrestò con un sospiro metallico.
Silenzio.
E nel buio emerse un chiarore viola, tenue all’inizio poi più deciso, avvolgente, irreale. Nessun altro passeggero. Nessun annuncio. Solo loro due, seduti fianco a fianco, sospesi in una quiete che pareva respirare.
Lei si voltò. Anche lui.
Lo sguardo fu un urto lieve, un lampo che attraversò quella luce innaturale come se la piegasse. Non c’era timidezza, né esitazione. Un riconoscersi istintivo, carnale, privo di spiegazioni. Le loro pupille sembravano dilatarsi allo stesso ritmo, come attirate da una corrente sotterranea.
Il ragazzo allungò appena la mano, senza toccarla ancora. Lei fece un respiro sbieco, di quelli che sanno di desiderio trattenuto. La distanza fra loro si accorciò in un istante, una calamita improvvisa che scioglieva ogni resistenza. Le luci viola pulsarono, quasi incoraggiassero quel movimento inevitabile. Le labbra di lei si sfiorarono alle sue, prima in un dubbio quasi impercettibile poi con una fame che il silenzio del vagone non riusciva più a contenere.
Lei era minuta ma non fragile, con una sicurezza calma che traspariva da come muoveva il collo, da come stringeva la borsa tra le ginocchia. Capelli scuri, un taglio irregolare che le disegnava l’ovale. La pelle chiarissima, quasi luminosa nella foschia violacea che avvolgeva il vagone. Aveva occhi che non restavano mai fermi, occhi che scansionavano il mondo come se cercassero sempre una fuga o una possibilità.
Nella penombra ammantata di viola, qualcosa in lei cedette. Non esitazione, piuttosto un impulso riconoscibile, quell’attimo in cui il corpo prende una decisione prima della mente. Si avvicinò a lui con un movimento lento, morbido, come se stesse ascoltando un ritmo che non veniva dai binari. Le mani gli sfiorarono i fianchi e lui si irrigidì appena, non per timore ma per la sorpresa di quella confidenza improvvisa.
Lui era imponente, si intuiva anche seduto: la muscolatura disegnava linee nette sotto la maglietta, e c’era una promessa non detta nel modo in cui i suoi jeans si tendevano, come se qualcosa bussasse contro il tessuto con una pazienza feroce. Lei si chinò, il respiro caldo contro il metallo della fibbia, e la luce viola pulsò una sola volta come un cuore che accelera.
La fibbia tintinnò piano, un suono minuscolo ma nitido nella quiete sospesa del vagone. La sua mano scivolò sul bordo del tessuto ed ebbe un tremito, come se la pelle riconoscesse all’istante ciò che stava per sfiorare. Il ragazzo trattenne il fiato. La luce viola batteva sulle sue clavicole e ne accentuava la solidità, i lineamenti duri, la curva tesa che stava crescendo sotto i jeans. Non era una semplice intuizione. Era presenza, sostanza, un’evidenza che sfidava l’aria stessa del vagone.
Lei si chinò ancora un poco, le labbra sfiorarono senza toccare quello spazio appena liberato, caldo, pulsante. Le dita gli scorrevano attorno come se stessero misurando una forma nuova. Nel gesto non c’era esitazione. C’era desiderio, fame lucida, una decisione presa al buio che però brillava nitida nel suo sguardo. Lui posò una mano sul sedile per non perdere l’equilibrio. L’altra gli scivolò sui capelli, senza forzarla ma lasciando intendere quanto il corpo gli stesse urlando.
Non appena lei iniziò a muoversi, il mondo parve contrarsi. Il vagone respirò insieme a loro, la luce violacea seguì un ritmo lento, quasi rituale. Il ragazzo lasciò andare un gemito strozzato, profondo, un suono che rivelava quanto fosse imponente il desiderio che gli scuoteva la schiena. Lei sembrava quasi nutrirsene. I suoi movimenti erano precisi, decisi, studiati su quella misura generosa che scaldava l’aria intorno.
Il tempo si sfaldò. L’oscurità divenne complice, avvolgente. Ogni suono esterno era sparito da un pezzo. Il convoglio immobile, la città sopra di loro distante come un’altra dimensione. C’era solo quell’intimità che bruciava in silenzio, viva, inevitabile.
Quando il ragazzo si inarcò leggermente sul sedile, la luce cambiò sfumatura. Dal viola passò a un tono più profondo, quasi ametista, come se reagisse al loro piacere. E per un istante, solo un istante, entrambi ebbero la sensazione che quella sospensione non fosse un guasto tecnico ma qualcos’altro. Qualcosa che li stava osservando.
La luce viola tremolò come un lampo trattenuto. Lui si risistemò sul sedile, il respiro ancora franto, e l’erezione gli spingeva contro il tessuto come un’onda troppo forte per essere contenuta. Cercò di ritrovare un minimo di controllo ma era impossibile: il corpo parlava più di lui. La maglietta gli aderiva al torace, sudata sul colletto, e le sue mani tremavano un po’ per l’adrenalina.
Lei lo guardò senza dire nulla. Quel silenzio era più eloquente di qualunque parola.
Si alzò lentamente, come se stesse sentendo qualcosa arrivare dal pavimento, un’eco, un impulso. Poi fece scorrere le dita sul bordo della sua maglia e la sollevò in un gesto netto, sicuro. La pelle nuda catturò la luce viola che sembrò quasi accarezzarle le curve. Le spalle leggere, il seno che si muoveva lievemente nel respiro. Era un disvelamento che non chiedeva permesso.
Lui si morse il labbro. La guardava come si guarda un prodigio notturno.
Lei gli salì sopra con una naturalezza quasi primitiva, come se quel gesto fosse scritto da tempo nei loro corpi. Le cosce lo serrarono ai lati, il bacino gli sfiorò il ventre e quel contatto fece vibrare entrambi. Non c’era ancora l’unione, ma la promessa era tanto forte da far tremare l’aria. Le sue mani gli presero il volto, le unghie gli graffiarono appena la mascella, poi scivolarono giù lungo il petto fino all’inguine teso.
Il ritmo da quel punto lo decise lei.
Un movimento lento, calibrato, quasi un assaggio. Il corpo di lui rispose immediatamente. La pressione aumentò, la vicinanza si fece incandescente, i loro respiri si intrecciarono senza possibilità di fuga. Si percepiva tutto: la forza delle sue gambe, la tensione del suo addome, la misura evidente di lui che cercava lo spazio giusto senza ancora ottenerlo. L’attimo prima della fusione era già un incendio.
La metro rimase immobile. Nessun rumore. Nessun annuncio.
Solo il tremito del loro equilibrio, e quelle luci viola che pulsavano attorno a loro come una camera d’ambra viva, sul punto di ingoiarli.
Il suo corpo iniziò a muoversi con un ritmo che sembrava dialogare con la luce viola. Ogni oscillazione avvicinava qualcosa che ancora non si era compiuto, un punto d’incastro in cui il respiro di entrambi diventava più affilato. Lui la teneva ai fianchi, le dita che affondavano nella pelle come se temesse che sparisse in un baleno.
Poi accadde qualcosa di semplice, inevitabile.
Lei si fermò. Lo guardò dall’alto, le pupille dilatate in un nero lucente che sfidava la quiete irreale del vagone. Un mezzo sorriso, carnale, sicuro. Scivolò giù dal suo bacino con un gesto lento, come un sipario che cade, e si voltò dandogli le spalle.
Si appoggiò al sedile davanti, il busto inclinato, i capelli che le ricadevano sul collo come un’ombra viva. La schiena si arcuò in una curva morbida, precisa, offerta. Le sue anche si sollevarono appena, un invito muto che non lasciava spazio all’interpretazione. La luce viola le scolpiva la figura nuda in una vibrazione quasi sacrale, come se il vagone fosse diventato un altare di pulsazioni e respiro.
Lui rimase seduto per un istante, incapace di distogliere lo sguardo da quella postura che gli incendiava il ventre. Le vene sulle sue braccia si tesero mentre si sollevava, e l’erezione gli precedeva ogni movimento, evidente, potente, come una promessa che la stoffa non poteva più nascondere.
Le si avvicinò alle spalle, il petto sfiorò la sua schiena e quel contatto fece vibrare entrambi. Le sue mani tornarono ai fianchi di lei, più salde stavolta, mentre il suo respiro caldo le attraversava la nuca. La tensione che li separava era uno spessore minimo, un confine sul punto di cedere.
Lei spinse appena il bacino all’indietro. Un gesto misurato, preciso, che faceva capire tutto senza mostrare nulla.
Lui rispose allo stesso modo, un avvicinamento lento, controllato, che portò i loro corpi a combaciare quasi del tutto, come due ingranaggi ritrovati dopo anni di deriva. Il resto rimase sospeso in quell’istante, un battito prima dell’impatto, un sussurro di pelle che non aveva bisogno di parole.
La metro era immobile ma sembrava oscillare con loro.
La luce, sempre più scura, vibrava a ogni respiro, come se indovinasse il ritmo prima che prendesse forma.
Il ritmo si fece più teso. Ogni movimento era un’onda che li travolgeva e li riportava allo stesso punto, più vicini, più incandescenti. Il vagone vibrava in modo impercettibile, come se la metropolitana intera trattenesse il fiato insieme a loro.
Lui si piegò sopra la sua schiena, il respiro spezzato contro la sua nuca. Le dita gli
scivolarono sui fianchi con una stretta che sapeva di ressa.
Lei sollevò appena lo sguardo, le labbra socchiuse.
Poi sentì il corpo di lui irrigidirsi, un tremito che percorse la sua muscolatura come una scossa. L’aria cambiò densità.
Il piacere che lo travolse fu rapido, inevitabile, un lampo che gli attraversò la colonna vertebrale. Lei avvertì il calore che le sfiorava la pelle nuda, una traccia effimera, un’impronta carnale lasciata sulla sua schiena. Non servivano dettagli, il gesto parlava da sé, pesante come un sospiro liberato troppo a lungo.
Nel momento esatto in cui il culmine si compì, la luce viola divenne bianco ametista. Accecante.
Un sussurro attraversò il vagone.
“Quies.”
Non era un suono umano. Non usciva da un altoparlante.
Era una parola antica, latina, che vibrò nelle loro ossa più che nelle orecchie.
La pace dei sensi.
La quiete dopo il fremito.
Un concetto che sembrava vivo, un soffio che li attraversò entrambi e li svuotò con dolcezza.
Lei chiuse gli occhi.
Lui fece lo stesso, come se fossero stati tirati in un sonno breve e perfetto.
Quando li riaprirono, il vagone era com’era sempre stato.
Luci al neon regolari.
Il rumore dei binari.
La metropolitana in marcia.
Erano seduti ognuno al proprio posto, vestiti, composti, come se nulla fosse accaduto. Eppure la pelle di entrambi conservava una memoria precisa, indelebile. Il corpo non mente mai.
Si voltarono lentamente verso l’altro.
Lo sguardo fu un colpo improvviso, imbarazzato, lucido. Non era timidezza, era consapevolezza.
Avevano vissuto la stessa cosa.
La ricordavano.Tutta.
Il convoglio rallentò. Una voce metallica annunciò l’arrivo all’ultima fermata.
Un attimo di esitazione. Poi le porte si aprirono.
I loro occhi, ancora intrecciati, non decisero subito se scappare o restare.
Scelsero entrambi la Linea B, in quel tratto che scivola sotterraneo tra Piramide e Garbatella, dove il rumore del convoglio ha un tono cavernoso, quasi antico. Lei salì di corsa, con il fiato corto e le cuffie mezze scariche, e si sedette nel primo posto libero, senza fare troppo caso al ragazzo a fianco. Lui era mulatto, occhi profondi come strade bagnate dopo un temporale estivo, spalle larghe incorniciate da una maglietta scura che sembrava assorbire la luce.
Il vagone traballò con la consueta indolenza. Poi, nel momento in cui la metropolitana imboccò la galleria più lunga, avvenne l’imprevisto. Le lampade al neon si spensero di colpo, una dopo l’altra, come se qualcuno avesse tirato giù un sipario invisibile. Il rumore dei binari tacque. Il convoglio si arrestò con un sospiro metallico.
Silenzio.
E nel buio emerse un chiarore viola, tenue all’inizio poi più deciso, avvolgente, irreale. Nessun altro passeggero. Nessun annuncio. Solo loro due, seduti fianco a fianco, sospesi in una quiete che pareva respirare.
Lei si voltò. Anche lui.
Lo sguardo fu un urto lieve, un lampo che attraversò quella luce innaturale come se la piegasse. Non c’era timidezza, né esitazione. Un riconoscersi istintivo, carnale, privo di spiegazioni. Le loro pupille sembravano dilatarsi allo stesso ritmo, come attirate da una corrente sotterranea.
Il ragazzo allungò appena la mano, senza toccarla ancora. Lei fece un respiro sbieco, di quelli che sanno di desiderio trattenuto. La distanza fra loro si accorciò in un istante, una calamita improvvisa che scioglieva ogni resistenza. Le luci viola pulsarono, quasi incoraggiassero quel movimento inevitabile. Le labbra di lei si sfiorarono alle sue, prima in un dubbio quasi impercettibile poi con una fame che il silenzio del vagone non riusciva più a contenere.
Lei era minuta ma non fragile, con una sicurezza calma che traspariva da come muoveva il collo, da come stringeva la borsa tra le ginocchia. Capelli scuri, un taglio irregolare che le disegnava l’ovale. La pelle chiarissima, quasi luminosa nella foschia violacea che avvolgeva il vagone. Aveva occhi che non restavano mai fermi, occhi che scansionavano il mondo come se cercassero sempre una fuga o una possibilità.
Nella penombra ammantata di viola, qualcosa in lei cedette. Non esitazione, piuttosto un impulso riconoscibile, quell’attimo in cui il corpo prende una decisione prima della mente. Si avvicinò a lui con un movimento lento, morbido, come se stesse ascoltando un ritmo che non veniva dai binari. Le mani gli sfiorarono i fianchi e lui si irrigidì appena, non per timore ma per la sorpresa di quella confidenza improvvisa.
Lui era imponente, si intuiva anche seduto: la muscolatura disegnava linee nette sotto la maglietta, e c’era una promessa non detta nel modo in cui i suoi jeans si tendevano, come se qualcosa bussasse contro il tessuto con una pazienza feroce. Lei si chinò, il respiro caldo contro il metallo della fibbia, e la luce viola pulsò una sola volta come un cuore che accelera.
La fibbia tintinnò piano, un suono minuscolo ma nitido nella quiete sospesa del vagone. La sua mano scivolò sul bordo del tessuto ed ebbe un tremito, come se la pelle riconoscesse all’istante ciò che stava per sfiorare. Il ragazzo trattenne il fiato. La luce viola batteva sulle sue clavicole e ne accentuava la solidità, i lineamenti duri, la curva tesa che stava crescendo sotto i jeans. Non era una semplice intuizione. Era presenza, sostanza, un’evidenza che sfidava l’aria stessa del vagone.
Lei si chinò ancora un poco, le labbra sfiorarono senza toccare quello spazio appena liberato, caldo, pulsante. Le dita gli scorrevano attorno come se stessero misurando una forma nuova. Nel gesto non c’era esitazione. C’era desiderio, fame lucida, una decisione presa al buio che però brillava nitida nel suo sguardo. Lui posò una mano sul sedile per non perdere l’equilibrio. L’altra gli scivolò sui capelli, senza forzarla ma lasciando intendere quanto il corpo gli stesse urlando.
Non appena lei iniziò a muoversi, il mondo parve contrarsi. Il vagone respirò insieme a loro, la luce violacea seguì un ritmo lento, quasi rituale. Il ragazzo lasciò andare un gemito strozzato, profondo, un suono che rivelava quanto fosse imponente il desiderio che gli scuoteva la schiena. Lei sembrava quasi nutrirsene. I suoi movimenti erano precisi, decisi, studiati su quella misura generosa che scaldava l’aria intorno.
Il tempo si sfaldò. L’oscurità divenne complice, avvolgente. Ogni suono esterno era sparito da un pezzo. Il convoglio immobile, la città sopra di loro distante come un’altra dimensione. C’era solo quell’intimità che bruciava in silenzio, viva, inevitabile.
Quando il ragazzo si inarcò leggermente sul sedile, la luce cambiò sfumatura. Dal viola passò a un tono più profondo, quasi ametista, come se reagisse al loro piacere. E per un istante, solo un istante, entrambi ebbero la sensazione che quella sospensione non fosse un guasto tecnico ma qualcos’altro. Qualcosa che li stava osservando.
La luce viola tremolò come un lampo trattenuto. Lui si risistemò sul sedile, il respiro ancora franto, e l’erezione gli spingeva contro il tessuto come un’onda troppo forte per essere contenuta. Cercò di ritrovare un minimo di controllo ma era impossibile: il corpo parlava più di lui. La maglietta gli aderiva al torace, sudata sul colletto, e le sue mani tremavano un po’ per l’adrenalina.
Lei lo guardò senza dire nulla. Quel silenzio era più eloquente di qualunque parola.
Si alzò lentamente, come se stesse sentendo qualcosa arrivare dal pavimento, un’eco, un impulso. Poi fece scorrere le dita sul bordo della sua maglia e la sollevò in un gesto netto, sicuro. La pelle nuda catturò la luce viola che sembrò quasi accarezzarle le curve. Le spalle leggere, il seno che si muoveva lievemente nel respiro. Era un disvelamento che non chiedeva permesso.
Lui si morse il labbro. La guardava come si guarda un prodigio notturno.
Lei gli salì sopra con una naturalezza quasi primitiva, come se quel gesto fosse scritto da tempo nei loro corpi. Le cosce lo serrarono ai lati, il bacino gli sfiorò il ventre e quel contatto fece vibrare entrambi. Non c’era ancora l’unione, ma la promessa era tanto forte da far tremare l’aria. Le sue mani gli presero il volto, le unghie gli graffiarono appena la mascella, poi scivolarono giù lungo il petto fino all’inguine teso.
Il ritmo da quel punto lo decise lei.
Un movimento lento, calibrato, quasi un assaggio. Il corpo di lui rispose immediatamente. La pressione aumentò, la vicinanza si fece incandescente, i loro respiri si intrecciarono senza possibilità di fuga. Si percepiva tutto: la forza delle sue gambe, la tensione del suo addome, la misura evidente di lui che cercava lo spazio giusto senza ancora ottenerlo. L’attimo prima della fusione era già un incendio.
La metro rimase immobile. Nessun rumore. Nessun annuncio.
Solo il tremito del loro equilibrio, e quelle luci viola che pulsavano attorno a loro come una camera d’ambra viva, sul punto di ingoiarli.
Il suo corpo iniziò a muoversi con un ritmo che sembrava dialogare con la luce viola. Ogni oscillazione avvicinava qualcosa che ancora non si era compiuto, un punto d’incastro in cui il respiro di entrambi diventava più affilato. Lui la teneva ai fianchi, le dita che affondavano nella pelle come se temesse che sparisse in un baleno.
Poi accadde qualcosa di semplice, inevitabile.
Lei si fermò. Lo guardò dall’alto, le pupille dilatate in un nero lucente che sfidava la quiete irreale del vagone. Un mezzo sorriso, carnale, sicuro. Scivolò giù dal suo bacino con un gesto lento, come un sipario che cade, e si voltò dandogli le spalle.
Si appoggiò al sedile davanti, il busto inclinato, i capelli che le ricadevano sul collo come un’ombra viva. La schiena si arcuò in una curva morbida, precisa, offerta. Le sue anche si sollevarono appena, un invito muto che non lasciava spazio all’interpretazione. La luce viola le scolpiva la figura nuda in una vibrazione quasi sacrale, come se il vagone fosse diventato un altare di pulsazioni e respiro.
Lui rimase seduto per un istante, incapace di distogliere lo sguardo da quella postura che gli incendiava il ventre. Le vene sulle sue braccia si tesero mentre si sollevava, e l’erezione gli precedeva ogni movimento, evidente, potente, come una promessa che la stoffa non poteva più nascondere.
Le si avvicinò alle spalle, il petto sfiorò la sua schiena e quel contatto fece vibrare entrambi. Le sue mani tornarono ai fianchi di lei, più salde stavolta, mentre il suo respiro caldo le attraversava la nuca. La tensione che li separava era uno spessore minimo, un confine sul punto di cedere.
Lei spinse appena il bacino all’indietro. Un gesto misurato, preciso, che faceva capire tutto senza mostrare nulla.
Lui rispose allo stesso modo, un avvicinamento lento, controllato, che portò i loro corpi a combaciare quasi del tutto, come due ingranaggi ritrovati dopo anni di deriva. Il resto rimase sospeso in quell’istante, un battito prima dell’impatto, un sussurro di pelle che non aveva bisogno di parole.
La metro era immobile ma sembrava oscillare con loro.
La luce, sempre più scura, vibrava a ogni respiro, come se indovinasse il ritmo prima che prendesse forma.
Il ritmo si fece più teso. Ogni movimento era un’onda che li travolgeva e li riportava allo stesso punto, più vicini, più incandescenti. Il vagone vibrava in modo impercettibile, come se la metropolitana intera trattenesse il fiato insieme a loro.
Lui si piegò sopra la sua schiena, il respiro spezzato contro la sua nuca. Le dita gli
scivolarono sui fianchi con una stretta che sapeva di ressa.
Lei sollevò appena lo sguardo, le labbra socchiuse.
Poi sentì il corpo di lui irrigidirsi, un tremito che percorse la sua muscolatura come una scossa. L’aria cambiò densità.
Il piacere che lo travolse fu rapido, inevitabile, un lampo che gli attraversò la colonna vertebrale. Lei avvertì il calore che le sfiorava la pelle nuda, una traccia effimera, un’impronta carnale lasciata sulla sua schiena. Non servivano dettagli, il gesto parlava da sé, pesante come un sospiro liberato troppo a lungo.
Nel momento esatto in cui il culmine si compì, la luce viola divenne bianco ametista. Accecante.
Un sussurro attraversò il vagone.
“Quies.”
Non era un suono umano. Non usciva da un altoparlante.
Era una parola antica, latina, che vibrò nelle loro ossa più che nelle orecchie.
La pace dei sensi.
La quiete dopo il fremito.
Un concetto che sembrava vivo, un soffio che li attraversò entrambi e li svuotò con dolcezza.
Lei chiuse gli occhi.
Lui fece lo stesso, come se fossero stati tirati in un sonno breve e perfetto.
Quando li riaprirono, il vagone era com’era sempre stato.
Luci al neon regolari.
Il rumore dei binari.
La metropolitana in marcia.
Erano seduti ognuno al proprio posto, vestiti, composti, come se nulla fosse accaduto. Eppure la pelle di entrambi conservava una memoria precisa, indelebile. Il corpo non mente mai.
Si voltarono lentamente verso l’altro.
Lo sguardo fu un colpo improvviso, imbarazzato, lucido. Non era timidezza, era consapevolezza.
Avevano vissuto la stessa cosa.
La ricordavano.Tutta.
Il convoglio rallentò. Una voce metallica annunciò l’arrivo all’ultima fermata.
Un attimo di esitazione. Poi le porte si aprirono.
I loro occhi, ancora intrecciati, non decisero subito se scappare o restare.
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