Insieme... Cap. 2
di
Tanya Romano
genere
trans
Eri lì davanti a me. Occhi lucidi, ma senza vergogna.
Avevi parlato. E adesso toccava a me.
Rimasi in silenzio qualche secondo.
Poi presi fiato. Non per trovare il coraggio.
Per trovare le parole giuste.
“Non mi aspettavo niente di questo,” dissi piano.
“Non l’avevo mai immaginato. Eppure… ora che lo so, non mi spaventa.
Non mi allontana.
Non cambia quello che provo.”
Mi voltai verso di te.
Le gambe piegate sotto di me, la tua mano nella mia.
“Anzi.
Ti guardo… e sento che finalmente mi stai mostrando una parte vera.
Una parte fragile. Bellissima. E io… voglio esserci.
Non solo come moglie. Come complice.
Come spazio sicuro.”
Abbassai lo sguardo per un istante.
Poi lo rialzai, dritto nei tuoi occhi.
“Voglio che tu sappia che qui… puoi respirare.
Puoi provare. Puoi sbagliare.
Puoi desiderare.”
Sfiorai con due dita il bordo del body, ancora lì, abbandonato sul divano.
“Ma solo se lo vuoi.
Solo se senti che è il momento.
Io non ho bisogno che tu mi mostri tutto adesso.
Mi basta che non mi tenga fuori.”
Il tuo respiro tremò appena. Io lo sentii addosso.
E lo accolsi.
Tutto.
Dopo aver parlato, non ci fu più nulla da aggiungere.
Ti lasciai la mano, lentamente.
Ci alzammo dal divano insieme.
Il body era ancora lì, ma nessuno lo guardava più.
Ti dissi solo:
“Faccio una doccia. Poi metto su qualcosa di comodo.”
Tu annuisti. Ma non ti muovesti.
Quando tornai in camera, trovai la tua camicia ripiegata sul letto.
Il letto rifatto. Lo specchio pulito.
La scatola — quella scatola — era ancora dov’era.
Chiusa. Non avevi nascosto nulla.
E io lo sentii come un gesto.
Un primo passo.
Silenzioso.
Ma pieno di fiducia.
Mi misi una tuta leggera. I capelli ancora umidi.
Tu eri in cucina, con due bicchieri in mano.
Vino bianco. Freddo.
Il tuo sguardo calmo.
Non parlammo più di niente.
Ci sedemmo vicini, come mille altre volte.
Ma questa volta…
c’era qualcosa tra noi.
Non tensione.
Non imbarazzo.
Solo un’attesa.
Io non chiesi.
Tu non spiegasti.
Ma il silenzio non era più una barriera.
Era un ponte.
Costruito a mani nude.
Eravamo seduti al tavolo, uno di fronte all’altra.
I bicchieri freddi tra le dita, il vino bianco che rifletteva la luce calda della cucina.
Tu facevi ruotare piano il bordo del vetro.
Io ti guardavo. A tratti. Senza pressione.
Presi un sorso.
Poi appoggiai il bicchiere.
E dissi piano:
“È una cosa che hai sempre avuto dentro… oppure è venuta fuori negli anni?”
Tu sollevasti lo sguardo.
Era limpido, ma cauto.
“Dentro c’è sempre stata,” dicesti.
“Ma per molto tempo non ho saputo darle un nome.
Non era un pensiero.
Era… una sensazione. Una necessità sottile.”
Annuii, senza distogliere gli occhi.
Non dicevo "continua". Ma lo pensavo forte.
“E quando è cominciato, davvero?”
La mia voce era bassa.
Quasi un sussurro.
“Da ragazzo,” rispondesti.
“Provavo i vestiti di mia madre, poi quelli di qualche fidanzata.
Non era per gioco.
Era un modo per stare bene.
Ma non ho mai avuto il coraggio di dirlo.
A nessuno.
Neanche a me stesso.”
Sentii un piccolo nodo sciogliersi in fondo al petto.
Ti stavo ascoltando davvero.
E tu… finalmente mi stavi lasciando entrare.
“E con me?” chiesi.
“Perché non me ne hai parlato?”
La tua risposta fu un silenzio lungo. Poi:
“Perché ti amo.
E temevo che non avresti capito.
Che avresti visto qualcosa di… lontano da me.
Qualcosa di falso.
Ma non lo è.
È una parte. Una parte vera.
Che ho tenuto nascosta per paura di perderti.”
Mi avvicinai.
Sfiorai la tua mano, senza stringerla.
Poi dissi, piano:
“Non ti sto perdendo.
Sto scoprendo qualcosa in più.
E se sei pronto… possiamo scoprirlo insieme.”
Tu annuisti.
Gli occhi un po’ lucidi.
Ma la voce ferma.
“Sono pronto a non nascondermi più.”
Restavamo lì, seduti al tavolo.
I bicchieri a metà, le mani quasi vicine.
Tu avevi appena detto che eri pronto a non nasconderti più.
Io ti guardavo.
Fiera. Intenerita.
E profondamente innamorata.
Mi avvicinai di più, appena.
Poi presi la tua mano.
Non stretta.
Solo il palmo contro il mio.
Caldo, vivo.
“Ti voglio dire una cosa chiara,” dissi.
“Senza ambiguità. Senza paura.
Io sono qui.
Con te.
Dentro tutto questo.”
I tuoi occhi si abbassarono per un istante.
Ma io ti richiamai con dolcezza.
“Guarda me.
Non ti sto guardando come se fossi cambiato.
Ti sto guardando come se fossi… più intero.”
Inspirai piano.
Il cuore calmo.
Le parole pronte da tempo.
“Non mi perdi, amore.
Non mi stai perdendo.
Io non me ne vado perché hai qualcosa in più.
Resto.
Perché me lo stai mostrando.
Perché mi fidi qualcosa che hai tenuto dentro per anni.”
Ti accarezzai il dorso della mano con le dita.
“Se vorrai provare, esplorare, capire… io sarò con te.
Anche solo ad ascoltare.
Anche solo a tenerti la mano mentre ti guardi allo specchio.
Ma da sola non lo farai.”
Restasti in silenzio.
Ma il tuo sguardo era pieno.
Lacrime agli angoli, ma ferme.
Come la tua voce, quando sussurrasti:
“Non ho mai pensato che sarebbe potuto succedere.
Così. Con te.
E che mi avresti guardato… così.”
Ti sorrisi.
“Così come?”
“Come se non avessi più bisogno di nascondermi.”
Scivolasti con le dita tra le mie.
E non ci fu più distanza.
Ci alzammo quasi insieme.
Nessuno dei due disse “andiamo in camera”.
Ma i nostri corpi si mossero come se lo avessero deciso da tempo.
Le luci erano basse.
Io ti precedevo di qualche passo, con la testa appena voltata, per controllare se mi seguivi.
E tu lo facevi.
Silenzioso. Presente.
In camera non accesi la luce.
Solo la lampada sul comodino, calda, dorata.
Mi voltai verso di te.
Ti vidi lì, fermo sulla soglia.
Come se non volessi entrare troppo in fretta.
Come se avessi bisogno che fossi io a invitarti.
Mi avvicinai piano.
Misi le mani sulla tua vita.
Non per spogliarti.
Per farti sentire che c’ero.
Che ero lì con te. Non davanti, non sopra. Con.
Sussurrai solo:
“Stenditi. Se vuoi.”
E tu lo facesti.
Sul letto, sopra le lenzuola.
Guardandomi in silenzio.
Io mi sedetti accanto a te.
Non ero più nuda. Avevo indossato una camicia leggera.
Non era tua.
Ma il profumo sì.
Appoggiai una mano sulla tua gamba, sopra i jeans.
Non toccavo per eccitare.
Toccavo per dire: “sei reale. Ti vedo. E non mi sposti.”
Ti accarezzai il petto con l’altra mano.
E ti dissi, con voce calma:
“Non c’è nulla da dimostrare, amore.
Solo da essere.
E se in questa stanza vuoi sentirti libero…
questa stanza sarà per te. Sempre.”
Tu chiudesti gli occhi.
E il respiro si fece più lento.
Più profondo.
E io, accanto a te, mi sentii… intera.
La mattina mi svegliai prima di te.
Mi alzai piano, lasciandoti dormire ancora un po’.
Ti guardai sotto la luce tenue dell’alba, il viso rilassato, il corpo disteso, il respiro calmo.
Sembravi… più leggero.
Feci la doccia, preparai il caffè, mi vestii per l’ufficio.
Quando uscimmo insieme, non parlammo molto.
Ma il silenzio non era sospetto.
Era pieno di qualcosa che ora sapevamo.
In ufficio tornai ai ritmi di sempre.
Riunioni. Email. Telefonate.
Ma ogni tanto la mente andava altrove.
Alla tua voce, alla tua verità.
Alle mie mani sulla tua pelle, la sera prima.
Aprii il browser.
Cercai parole senza sapere esattamente cosa scrivere.
“Marito crossdressing”
“complicità nella coppia”
“supporto… discreto”
Lessi articoli.
Forum.
Storie.
Alcune mi colpirono per quanto erano vicine.
Altre mi fecero paura.
Per il modo in cui venivano giudicati.
Per il modo in cui certe donne parlavano dei loro mariti come se fossero diventati “altro”.
Ma tu non sei altro.
Tu sei tu.
Non parlai con nessuno.
Non volevo consigli.
Non volevo diagnosi.
A pranzo ci incontrammo in quel ristorante tranquillo vicino all’ufficio.
Tu eri già lì.
Seduto.
Sorridente.
Quando mi avvicinai, mi guardasti come sempre.
Ma io lo notai subito: qualcosa in te era cambiato.
Il viso più disteso.
Lo sguardo più aperto.
Una leggerezza nuova, silenziosa, bellissima.
Ci sedemmo.
Ordinammo.
E tra una forchettata e l’altra, ti osservavo parlare.
Con la voce morbida.
Con i gesti più lenti.
Come se qualcosa, finalmente, ti avesse lasciato il corpo.
E io, seduta di fronte a te, cominciai a capire che forse…
questa parte di te non avrebbe mai tolto niente.
Anzi.
Avrebbe solo aggiunto.
Eri lì, davanti a me.
La luce del mezzogiorno entrava dalle vetrate del ristorante, e il tuo viso sembrava riposato.
Sano. Vivo.
Le spalle rilassate, le mani che non stringevano più il tovagliolo come un’ancora.
Ti guardai mentre parlavi del lavoro.
Poi sorrisi.
E infilai la mia domanda in mezzo alla normalità.
“E quando ti vesti, quando sei solo…
hai un nome?”
La tua forchetta si fermò a mezz’aria.
Non di scatto.
Solo un attimo.
Poi la poggiasti sul piatto.
Sollevasti gli occhi su di me.
“No,” dicesti piano.
“Mai avuto bisogno di un nome.
Non ho mai pensato a me stesso come… un altro.”
Annuii.
Mi aspettavo qualcosa del genere.
Ma volevo sentirlo da te.
“Allora è solo… un modo per stare bene?”
La mia voce era lieve.
Ma le parole erano precise.
Tu sorridesti appena.
“È più un modo per stare calmo.
Per sentirmi me stesso, in un modo che fuori non ha spazio.”
Bevvi un sorso d’acqua.
Poi ti dissi, fissandoti negli occhi:
“Allora troviamolo, quello spazio.
Anche fuori.
Anche con me.”
Restasti in silenzio un momento.
Poi mi prendesti la mano, sotto il tavolo.
Senza stringere.
Solo per tenermi.
E il tuo sorriso, in quel momento… mi fece capire che avevo appena aperto una porta nuova.
E che tu eri pronto ad attraversarla.
Con me.
La sera tornò come ogni sera.
Uscimmo insieme dall’ufficio, le luci della città nei vetri delle auto.
Parlammo poco. Ma bastava uno sguardo, un tocco leggero sulla spalla.
Era tutto lì.
A casa mangiammo sul tavolo grande, come sempre.
Due bicchieri di vino, piatti semplici, la musica in sottofondo.
Poi ci spostammo sul divano.
La tv accesa su qualcosa che non guardavamo davvero.
Io mi sdraiai contro di te, le gambe raccolte, la testa sulla tua spalla.
Sentivo il tuo respiro regolare.
Ma anche un’energia nuova.
Una tensione che non era chiusura.
Era voglia.
Ti accarezzai piano l’avambraccio.
Non per dirti “parla”.
Solo per farti sentire che c’ero.
E dopo qualche minuto, cominciasti.
Con voce bassa.
Sincera.
“Lo so che mi ami per come sono.
E questa è la cosa più forte che mi sia mai successa.”
Ti voltasti leggermente verso di me.
“E so anche che sei curiosa.
Che hai domande.
Che vuoi sapere di più.”
Feci cenno di sì, col mento.
Ma non parlai.
“Non ho un’immagine chiara di me… non una definizione.
Non mi sento ‘diverso’, non mi sento ‘sbagliato’.
Mi sento completo… solo quando posso lasciare uscire tutto.
Anche ciò che non si vede.”
Rimasi ferma.
Attenta.
“Vestirmi a volte è solo il primo strato.
Quello che viene dopo è più sottile.
È un modo di stare nel corpo. Di sentirmi calmo, leggero.
Più mio.”
Ti voltasti del tutto ora, guardandomi negli occhi.
“Non voglio nasconderti niente, amore.
E se vuoi sapere, se vuoi capire… io sono pronto.
A risponderti.
A mostrarti.
A farlo insieme.”
Ti sorrisi.
E ti presi la mano.
“Va bene,” dissi.
“Quando vuoi. Con i tuoi tempi. Ma io ci sono. Sempre.”
Tu annuisti.
E per la prima volta… ti vidi davvero più libero.
La tv continuava a riempire la stanza di luci e suoni morbidi.
Ma noi non ascoltavamo più nulla.
Solo il nostro respiro.
Il peso del corpo contro il divano.
Le mani che si cercavano senza fretta.
Ti guardai.
Avevo una domanda in gola da giorni.
E ora sentivo che potevo fartela.
“Posso chiederti qualcosa di più… diretto?”
Tu annuisti, senza esitazione.
“Quando sei in quei momenti… quando sei vestito…
ti senti attratto anche dagli uomini?
Hai mai pensato a quel lato?”
Ci fu un secondo di silenzio.
Poi la tua voce, chiara. Sicura.
“No.”
Scuotesti appena la testa.
“Non ho mai sentito quel tipo di attrazione.
Non è una questione sessuale.
Non per me.
È qualcosa che ha a che fare con il modo in cui mi percepisco.
Con il corpo. Con la quiete.
Con il piacere di stare in certe forme, certi gesti.
Ma non cambia chi desidero.”
Abbassai lo sguardo, poi lo rialzai.
“E chi desideri… sono io?”
Volevo sentirlo. Da te.
“Solo tu,” rispondesti.
Senza esitazioni.
“Con tutto quello che sto scoprendo… voglio scoprirlo con te.”
Il cuore mi batté più forte.
Non per la risposta.
Per il modo in cui l’avevi detta.
Semplice. Pulita. Vera.
Poi facesti una cosa che non mi aspettavo.
Ti alzasti.
Tese la mano verso di me.
“Seguimi,” dicesti.
La voce bassa. Ma chiara.
Ti guardai.
La mano sospesa nell’aria.
E capii che stava per succedere qualcosa.
Non solo tra noi.
Ma dentro di te.
Presi la tua mano.
E mi alzai.
Mi portasti in camera, mano nella mano.
Ma quando varcammo la soglia, la tua presa si fece più lenta.
Non ti fermasti del tutto.
Ma rallentasti.
Come chi attraversa una porta che conosce bene… eppure ogni volta lo fa col fiato sospeso.
Io restai in silenzio.
A pochi passi da te.
Non troppo vicina.
Solo abbastanza da farti sentire che c’ero.
Ti voltasti verso di me.
Avevi gli occhi tesi, lucidi.
Una tensione diversa da ogni altra.
Non era paura del giudizio.
Era timore di mostrarti. Così, per intero.
Cominciasti a muoverti con lentezza.
A prendere qualcosa dall’armadio.
Le mani tremavano appena.
Lo vidi.
E non dissi nulla.
Ti voltasti di nuovo, come se cercassi conferma.
E io annuii.
Sorridendo.
Piano.
“Vai,” dissi solo.
“Con calma.
Io sono qui.
Tutto il tempo che ti serve.”
Fu allora che abbassasti lo sguardo.
Non per vergogna.
Per concentrazione.
Ti sedesti sul letto.
Appoggiasti i vestiti accanto a te.
Poi restasti lì.
Fermo.
Con le mani sulle cosce.
Le spalle leggermente curve.
Mi avvicinai solo di un passo.
Poi mi inginocchiai davanti a te.
Le mani sulle tue ginocchia.
E ti dissi a bassa voce:
“Non devi essere perfetto.
Non devi essere sicuro.
Devi solo essere vero.
E io ti vedrò.”
La tua bocca si mosse appena.
Come per ringraziare, ma senza fiato.
Restai lì.
Ferma.
Presente.
La tua forza.
Il tuo specchio.
La tua casa.
Mi alzai lentamente da terra.
Ti lasciai le mani, ma non lo sguardo.
Poi mi sedetti sul bordo della poltrona, accanto al letto.
Non troppo vicina.
Non troppo lontana.
Incrociai le gambe, le mani in grembo.
E ti guardai.
Tu eri seduto sul bordo del letto.
I vestiti scelti accanto a te: piegati, ordinati.
Li avevi già toccati mille volte, probabilmente.
Ma non così.
Non con me presente.
La stanza era silenziosa.
Solo il ticchettio dell’orologio da parete.
E il nostro respiro.
Ti vidi prendere il primo capo.
Una maglietta a costine sottili, grigio perla.
Lunga, morbida.
Appena femminile, ma solo per chi sa guardare.
La sfilasti piano, come se stessi toccando qualcosa di sacro.
Poi ti alzasti.
Con movimenti lenti, precisi, cominciasti a svestirti.
Togliesti la camicia.
Il corpo nudo sotto la luce bassa della lampada.
Conosciuto, amato…
eppure ora lo vedevo diverso.
Più fragile.
Più tuo.
Quando indossasti la maglia, mi accorsi delle tue mani.
Leggermente tese.
Ma il gesto era dolce.
Come se stessi chiedendo al tessuto di accettarti.
Poi prendesti un paio di collant.
Neri. Velati.
Li apristi con cura.
Le dita attente, rispettose.
Ti sedesti di nuovo.
Cominciasti a infilarli, centimetro dopo centimetro.
I polpacci, le ginocchia, le cosce.
E io…
non riuscivo a distogliere lo sguardo.
Non per eccitazione.
Non per stupore.
Per commozione.
Perché ti stavi spogliando davvero.
Non solo del maschile.
Non solo dei ruoli.
Ma della corazza.
Vidi le tue spalle rilassarsi mentre ti alzavi.
Sistemasti la maglietta.
Ti guardasti allo specchio.
Non troppo a lungo.
Solo un attimo.
Poi ti voltasti verso di me.
E per la prima volta…
non cercavi conferma.
Solo presenza.
Io mi alzai.
Mi avvicinai piano.
Ti sfiorai un fianco, sopra il tessuto liscio.
“Così,” dissi.
“Sembri… te stesso.”
Tu abbassasti gli occhi.
Ma sorridevi.
Ed era uno dei sorrisi più veri che ti avessi mai visto.
Ero ancora accanto a te, le mani lungo i fianchi, le dita appena a contatto col tessuto liscio dei collant.
Il tuo sguardo era cambiato.
Non esitante.
Concentrato. Presente.
Guardai verso il basso.
La tua nudità si era coperta. Ma qualcosa restava sospeso.
“Allora,” dissi piano.
“E ai piedi?
Cosa scegli?”
Ti fermai un istante.
Guardasti la scarpiera in fondo alla stanza.
Poi tornasti verso il comodino.
Lo apristi con lentezza.
Ne tirasti fuori una scatola bassa.
La conoscevo.
La apristi.
Dentro, le mie décolleté nere.
Tacco 10.
Pelle lucida.
Punta sottile.
Le prendesti con entrambe le mani.
E per un attimo, ti fermasti.
Poi ti sedesti.
E cominciasti a infilarle.
Un piede alla volta.
Come se lo avessi fatto cento volte.
Forse era così.
Quando ti alzasti…
il mio respiro si fermò per un istante.
Le tue gambe si allungarono.
Le spalle si aprirono.
Il corpo sembrava riconoscersi.
Facesti un passo.
Poi un altro.
Camminavi piano.
Sicuro.
Leggero.
Io ti seguii con gli occhi.
Ogni gesto controllato, fluido, spontaneo.
Non c’era goffaggine.
Nessun dubbio.
Solo bellezza.
Una bellezza diversa.
Tua.
Vera.
Rimasi in piedi, ferma.
Poi ti dissi, con voce calda, piena:
“Amore…
cammini meglio di me.”
Ti voltasti.
Ridevi con lo sguardo.
Ma avevi gli occhi lucidi.
E io…
io ti vedevo.
Non travestito.
Non trasformato.
Solo libero.
Restavi in piedi, davanti a me.
Alta sul tacco, la schiena dritta, il volto acceso da qualcosa che non era trucco.
Era libertà.
Era verità.
Ti guardai camminare ancora per un paio di passi.
Poi smisi di restare ferma.
Mi mossi verso di te.
Silenziosa. Lenta.
Con lo sguardo fisso sul tuo viso.
Ti raggiunsi.
Mi fermai a pochi centimetri da te.
Poi alzai le mani.
Le posai sulle tue guance.
I pollici a sfiorare la pelle calda, appena tesa.
Non dissi nulla.
Ti guardai negli occhi.
Volevo che sentissi tutto, anche senza parole.
Poi chinai la fronte sulla tua.
Respirai con te.
A lungo.
Le mie mani scesero sulle spalle.
Poi si fermarono sulla vita.
Il tessuto sottile tra le dita.
I collant che trattenevano la tua pelle come una seconda pelle.
Ti accarezzai piano i fianchi.
E dissi solo una cosa.
Chiara.
Dolce.
“Sei bellissimo.”
Tu chiudesti gli occhi.
Il tuo corpo si mosse appena contro il mio.
Non per cercare qualcosa.
Per ringraziare.
Per lasciarsi toccare.
Ti strinsi a me.
Senza premere.
Solo perché ora… finalmente… potevo farlo.
E tu, amore mio, eri pronto a lasciarti abbracciare.
Restammo abbracciati ancora un momento.
Il tuo respiro sul mio collo, il mio corpo contro il tuo.
Pelle contro stoffa, silenzio contro battiti.
Poi mi scostai piano.
Solo quanto bastava per guardarti ancora negli occhi.
Ti presi una mano.
Non la tirai.
La sfiorai appena.
E dissi, con voce bassa:
“Vieni con me.
Voglio che ti vedi…
come ti vedo io.”
Tu non rispondesti.
Ma mi seguisti.
Due passi.
Tre.
Fino allo specchio a tutta parete, accanto alla finestra.
Ti ci fermai davanti.
Io al tuo fianco.
Un po’ più indietro.
Abbassai lo sguardo solo un istante.
Poi tornai su di te.
Al tuo riflesso.
Ti guardavi.
Ma con cautela.
Come chi ha sempre osservato di sfuggita, mai davvero.
Io non dissi nulla.
Ti lasciai tutto lo spazio.
Ti lasciai il tempo.
Nel riflesso, vedevo la tua figura: slanciata, composta.
La maglia morbida sulle spalle.
I collant che disegnavano le gambe con precisione.
Le scarpe — le mie — che ora sembravano tue da sempre.
Poi vidi qualcosa nei tuoi occhi.
Non esitazione.
Stupore.
Come se, per la prima volta, riconoscessi te stesso…
e ti piacessi.
Mi avvicinai.
Mi posizionai dietro di te.
Appoggiai le mani sui tuoi fianchi.
La guancia sulla tua spalla.
Parlammo nel riflesso.
“Sembri sereno,” dissi.
“Lo sono,” rispondesti.
“E… non pensavo mi sarebbe piaciuto così tanto.”
Sorrisi.
“Nemmeno io.
Ma guarda cosa ho davanti.”
Il tuo sorriso si rifletté, timido.
Poi si allargò.
Vero.
Pulito.
E io, stretta a te, capii che da quel momento in poi…
guardarti sarebbe stato un privilegio.
Non una concessione.
Restavamo in piedi, il mio corpo dietro il tuo.
Le mani ancora poggiate sui tuoi fianchi.
La guancia contro la tua spalla.
Lo specchio davanti a noi.
Tutto il resto era fuori dal tempo.
Ti osservai a lungo.
Ogni linea del tuo corpo.
Ogni sfumatura nei tuoi occhi.
Poi dissi piano, quasi senza fiato:
“Quando ti guardi così…
chi vedi?”
Tu restasti in silenzio un momento.
Le pupille che correvano avanti e indietro sul tuo riflesso.
Come se stessi cercando una risposta tra le pieghe del tessuto, tra la curva delle tue gambe, nel modo in cui tenevi il collo più eretto del solito.
“Non lo so ancora,” rispondesti.
“Ma sento che è qualcosa che è sempre stato lì.
Solo… chiuso.
Mai lasciato parlare.”
Appoggiai il mento sulla tua spalla.
“E se potesse parlare, adesso?
Cosa direbbe?”
Il tuo respiro rallentò.
“Direbbe che non vuole fingere.
Che non vuole fare scena.
Non vuole apparire…
vuole esistere.
Con dolcezza.
Con grazia.
Con verità.”
Ti accarezzai piano il fianco.
Poi aggiunsi:
“Ha un nome, questa parte di te?”
Tu ci pensasti qualche secondo.
“Non ancora.
Ma forse un giorno sì.
E quando lo troverò…
voglio dirtelo per prima.”
Chiusi gli occhi un istante.
E sussurrai:
“Non serve un nome, per amarti.
Mi basta che tu ci sia.”
Ti voltasti di poco, abbastanza da sfiorarmi le labbra con la tua guancia.
E lì, senza bisogno di altro,
capimmo che stavamo cominciando davvero.
Eravamo ancora davanti allo specchio.
Il tuo corpo alto, elegante.
Le gambe velate.
Il profilo calmo.
I miei occhi dentro i tuoi, riflessi nella luce bassa della stanza.
Non dicevamo nulla.
Non ce n’era bisogno.
Poi mi allontanai piano.
Aprii il mio cassetto.
Ne tirai fuori una cosa piccola.
Una mia collana.
Filo sottile, dorato.
Un ciondolo liscio, semplice. Caldo.
Mi avvicinai di nuovo a te.
Alzai le mani, la catenina tra le dita.
“Posso?” chiesi.
Tu annuisti.
E piegasti leggermente la testa.
Come un sì silenzioso, pieno di fiducia.
Ti misi la collana.
La chiusi con delicatezza dietro la nuca.
Il metallo freddo contro la tua pelle.
Il mio respiro che ti accarezzava il collo.
Poi feci un passo indietro.
Ti guardai ancora una volta.
“Adesso sì,” dissi.
“Ora sei completo.”
Tu abbassasti lo sguardo sul ciondolo.
Lo toccasti piano.
E sorridesti.
Un sorriso che non avevo mai visto.
Il sorriso di chi si riconosce.
Poi alzasti gli occhi.
E mi dicesti solo:
“Grazie per non avermi chiesto di essere altro.”
Mi avvicinai.
Ti baciai piano sulla guancia.
E ti sussurrai:
“Sei già tutto.”
Era tardi.
Lo specchio ormai aveva detto tutto.
Il tuo corpo era calmo, la collana ancora sul petto.
E nei tuoi occhi non c’era più il timore di prima.
Solo quiete.
Solo verità.
Mi avvicinai, ti presi la mano.
Poi dissi piano, con la voce che ti accarezza:
“Stanotte… perché non restiamo così?
Solo intimo. Tu ed io.
Niente più pigiami.
Niente più abiti da nascondere.”
Ti guardai con un sorriso.
“Ogni sera, da oggi… così.
Io con qualcosa di leggero.
Tu… con quello che ti fa stare bene.”
Non aspettavo un sì immediato.
Ma tu non esitai.
“Mi piacerebbe,” rispondesti.
“Mi piacerebbe moltissimo.”
Poi ti guardasti un’ultima volta allo specchio.
Ti toccasti piano l’orlo della maglia.
Controllasti la linea dei collant.
E annuisti.
“Se dormo così… mi sentirò me stesso.
E vicino a te, in un modo nuovo.
Più vero.”
Mi voltai verso il letto.
Sollevai le lenzuola.
Mi infilai tra i cuscini.
Poi ti guardai.
“Dai, amore.
Vieni a casa.”
E tu venisti.
Così.
Come sei.
Ci infilammo sotto le lenzuola.
Tu con i collant ancora addosso, la maglia sottile.
Io in una bralette chiara, le gambe nude contro le tue.
E per la prima volta… ci fu anche una risata.
“Lo sai che da ora in poi dovrò dividere i miei vestiti con te?” dissi, appoggiando la fronte al tuo petto.
“Già fatto,” rispondesti.
“Ma adesso almeno ho il permesso.”
Sorrisi, accarezzandoti il fianco.
“Dovrò mettere delle etichette su certe cose.
‘Riservato per lei.’”
“Oppure,” aggiungesti, “scegliamo direttamente un armadio in comune.
Io prendo i tacchi alti. Tu mi lasci i tuoi migliori body.”
Scoppiammo a ridere piano, tra le lenzuola tiepide.
Le mani intrecciate, il corpo rilassato.
Come se quella condivisione fosse da sempre il nostro modo più vero di amarci.
I giorni passarono veloci.
Nessun passo forzato.
Solo gesti naturali.
Tornammo al lavoro, alle abitudini… ma ogni sera ci spogliavamo solo per essere più noi.
E ogni notte, il nostro letto era il luogo dove ci si poteva dire tutto.
Anche ridendo.
Poi arrivò il sabato successivo.
E quella mattina, mentre bevevamo il primo caffè, ti dissi piano:
“Voglio dedicarmi a te, oggi.”
Tu mi guardasti con un sopracciglio sollevato.
“Nel senso buono?”
“Nel senso completo,” risposi.
“Pelle, mani, occhi, tutto.
Se ti va… cominciamo davvero.”
Ti sorrisi.
“Ceretta.
Skincare.
Lezioni di trucco.
E poi… andiamo a scegliere delle parrucche. Insieme.
Non perché ti servano.
Ma perché puoi scegliere chi vuoi essere.”
Tu appoggiasti la tazza.
Poi mi guardasti negli occhi.
E dicesti:
“Sì.
Facciamolo.
Tutto.”
Mi allungai verso di te.
Sfiorai le tue labbra con un bacio lento.
Poi dissi:
“Oggi… cominciamo a scrivere il nostro nuovo corpo.”
Ti feci sedere sul bordo della vasca.
Le luci erano calde, avvolgenti.
Niente fretta, solo il tempo giusto.
Io con addosso la mia vestaglia aperta, tu ancora nella tua maglia lunga.
I collant scivolarono piano lungo le tue gambe mentre te li toglievo, centimetro dopo centimetro.
Non con impazienza, ma come se stessi svelando una verità.
La tua pelle sotto le dita era morbida, ma segnata dal tempo, dai peli leggeri, da anni in cui ti eri lasciato solo a metà.
E ora… ora volevi essere toccato tutto.
Preparai l’occorrente.
Ceretta tiepida, strisce pulite, mani sicure.
Ti guardai negli occhi.
“Vuoi che cominci?”
Tu annuisti.
Respiravi piano.
Cominciai dai polpacci.
Stesi la cera con calma.
Le dita ferme, precise.
Ti accarezzavo prima con la spatola, poi con le mani, e sentivo la tua pelle cambiare già nel tocco.
Quando strappai la prima striscia, il tuo respiro si spezzò appena.
Ti guardai.
“Va tutto bene?”
Tu sorridesti.
“Sì. Sento che sta succedendo qualcosa.
Davvero.”
Continuai.
Dal ginocchio alle cosce.
Ogni striscia era un passaggio.
Non solo estetico.
Era un gesto d’amore.
Ti stavo aiutando a togliere quello che non serviva più.
Per farti emergere.
Più netto. Più pulito. Più tuo.
Poi passai alle braccia.
Alle mani.
Alle dita.
Ti alzai la maglietta piano.
E con la stessa cura, preparai il petto.
Ti accarezzai prima con il palmo, poi con la cera calda.
Ogni volta che ti toccavo, sentivo il tuo corpo rilassarsi.
Fidarsi.
Affidarsi.
Quando finii, ti guardai.
Eri seduto lì, con la pelle lucida, nuova.
Eri ancora tu.
Ma più visibile.
Passai le dita sulle tue gambe nude.
Poi le portai sulle tue spalle, ferme, aperte.
“Così,” dissi piano,
“stai diventando bellissimo.”
Tu non rispondesti.
Mi guardasti soltanto.
E nei tuoi occhi c’era tutto.
Gratitudine.
Emozione.
Appartenenza.
Ti feci sedere davanti allo specchio piccolo, quello tondo, col bordo dorato.
La luce calda cadeva morbida sul tuo viso.
Le braccia nude. Le gambe distese.
E quello sguardo… che ancora faticava a stare fermo.
Non per paura.
Per emozione.
Io presi il primo pennello.
Lo passai sulla mia mano, poi sul tuo viso, senza colore.
Solo per farti sentire la setola.
Il tocco.
La promessa.
“Chiudi gli occhi,” dissi.
Tu obbedisti.
Cominciai con una base leggera.
Un fondotinta appena più caldo del tuo tono naturale.
Lo stesi con le dita, piano.
Partii dal centro della fronte.
Scivolai lungo il naso, le guance, il mento.
Il tuo respiro si fece lento.
Ti lasciavi fare.
Ma non eri passivo.
Eri aperto.
Poi presi la spugnetta e iniziai a sfumare.
Ogni movimento era un massaggio.
Ogni passaggio un gesto che diceva: sei bello così, e io voglio che tu lo veda.
Ti accarezzai gli zigomi con un tocco di cipria.
Poi un filo di blush, quasi invisibile.
Il pennello girava in piccoli cerchi, mentre io ti dicevo sottovoce:
“È come disegnare chi sei, senza cancellare nulla.
Solo illuminare quello che già c’è.”
Passai a un ombretto neutro.
Un tocco d’oro chiaro all’angolo interno.
Un marrone caldo sulla piega dell’occhio.
Pennello dopo pennello, ti modellavo con rispetto.
Non stavo truccando un uomo.
Stavo carezzando il tuo vero volto.
Poi presi il mascara.
“Guarda in basso.”
Le tue ciglia si curvarono piano.
Senza sbavature.
Perfette.
Infine, il rossetto.
Non uno acceso.
Uno rosa tenue, che sembrava il tuo colore naturale amplificato.
Te lo passai sulle labbra con calma.
Poi con il dito lo sfumai leggermente.
Mi fermai.
Ti guardai.
“Adesso puoi aprire gli occhi.”
Lo facesti.
E ti vedesti.
Io ti stavo dietro, silenziosa.
Ma nel tuo riflesso c’ero anch’io.
Ero la tua compagna.
La tua alleata.
La tua prima spettatrice.
Tu non parlavi.
Solo respiravi.
Lento.
Fondo.
Poi sussurrasti:
“Mi piace.
E non so se è il trucco… o il fatto che tu sia qui.”
Ti misi le mani sulle spalle.
Mi chinai piano.
E dissi:
“È entrambi.
È che ora non ti nascondi più.
E questo… ti fa splendere.”
Avevi parlato. E adesso toccava a me.
Rimasi in silenzio qualche secondo.
Poi presi fiato. Non per trovare il coraggio.
Per trovare le parole giuste.
“Non mi aspettavo niente di questo,” dissi piano.
“Non l’avevo mai immaginato. Eppure… ora che lo so, non mi spaventa.
Non mi allontana.
Non cambia quello che provo.”
Mi voltai verso di te.
Le gambe piegate sotto di me, la tua mano nella mia.
“Anzi.
Ti guardo… e sento che finalmente mi stai mostrando una parte vera.
Una parte fragile. Bellissima. E io… voglio esserci.
Non solo come moglie. Come complice.
Come spazio sicuro.”
Abbassai lo sguardo per un istante.
Poi lo rialzai, dritto nei tuoi occhi.
“Voglio che tu sappia che qui… puoi respirare.
Puoi provare. Puoi sbagliare.
Puoi desiderare.”
Sfiorai con due dita il bordo del body, ancora lì, abbandonato sul divano.
“Ma solo se lo vuoi.
Solo se senti che è il momento.
Io non ho bisogno che tu mi mostri tutto adesso.
Mi basta che non mi tenga fuori.”
Il tuo respiro tremò appena. Io lo sentii addosso.
E lo accolsi.
Tutto.
Dopo aver parlato, non ci fu più nulla da aggiungere.
Ti lasciai la mano, lentamente.
Ci alzammo dal divano insieme.
Il body era ancora lì, ma nessuno lo guardava più.
Ti dissi solo:
“Faccio una doccia. Poi metto su qualcosa di comodo.”
Tu annuisti. Ma non ti muovesti.
Quando tornai in camera, trovai la tua camicia ripiegata sul letto.
Il letto rifatto. Lo specchio pulito.
La scatola — quella scatola — era ancora dov’era.
Chiusa. Non avevi nascosto nulla.
E io lo sentii come un gesto.
Un primo passo.
Silenzioso.
Ma pieno di fiducia.
Mi misi una tuta leggera. I capelli ancora umidi.
Tu eri in cucina, con due bicchieri in mano.
Vino bianco. Freddo.
Il tuo sguardo calmo.
Non parlammo più di niente.
Ci sedemmo vicini, come mille altre volte.
Ma questa volta…
c’era qualcosa tra noi.
Non tensione.
Non imbarazzo.
Solo un’attesa.
Io non chiesi.
Tu non spiegasti.
Ma il silenzio non era più una barriera.
Era un ponte.
Costruito a mani nude.
Eravamo seduti al tavolo, uno di fronte all’altra.
I bicchieri freddi tra le dita, il vino bianco che rifletteva la luce calda della cucina.
Tu facevi ruotare piano il bordo del vetro.
Io ti guardavo. A tratti. Senza pressione.
Presi un sorso.
Poi appoggiai il bicchiere.
E dissi piano:
“È una cosa che hai sempre avuto dentro… oppure è venuta fuori negli anni?”
Tu sollevasti lo sguardo.
Era limpido, ma cauto.
“Dentro c’è sempre stata,” dicesti.
“Ma per molto tempo non ho saputo darle un nome.
Non era un pensiero.
Era… una sensazione. Una necessità sottile.”
Annuii, senza distogliere gli occhi.
Non dicevo "continua". Ma lo pensavo forte.
“E quando è cominciato, davvero?”
La mia voce era bassa.
Quasi un sussurro.
“Da ragazzo,” rispondesti.
“Provavo i vestiti di mia madre, poi quelli di qualche fidanzata.
Non era per gioco.
Era un modo per stare bene.
Ma non ho mai avuto il coraggio di dirlo.
A nessuno.
Neanche a me stesso.”
Sentii un piccolo nodo sciogliersi in fondo al petto.
Ti stavo ascoltando davvero.
E tu… finalmente mi stavi lasciando entrare.
“E con me?” chiesi.
“Perché non me ne hai parlato?”
La tua risposta fu un silenzio lungo. Poi:
“Perché ti amo.
E temevo che non avresti capito.
Che avresti visto qualcosa di… lontano da me.
Qualcosa di falso.
Ma non lo è.
È una parte. Una parte vera.
Che ho tenuto nascosta per paura di perderti.”
Mi avvicinai.
Sfiorai la tua mano, senza stringerla.
Poi dissi, piano:
“Non ti sto perdendo.
Sto scoprendo qualcosa in più.
E se sei pronto… possiamo scoprirlo insieme.”
Tu annuisti.
Gli occhi un po’ lucidi.
Ma la voce ferma.
“Sono pronto a non nascondermi più.”
Restavamo lì, seduti al tavolo.
I bicchieri a metà, le mani quasi vicine.
Tu avevi appena detto che eri pronto a non nasconderti più.
Io ti guardavo.
Fiera. Intenerita.
E profondamente innamorata.
Mi avvicinai di più, appena.
Poi presi la tua mano.
Non stretta.
Solo il palmo contro il mio.
Caldo, vivo.
“Ti voglio dire una cosa chiara,” dissi.
“Senza ambiguità. Senza paura.
Io sono qui.
Con te.
Dentro tutto questo.”
I tuoi occhi si abbassarono per un istante.
Ma io ti richiamai con dolcezza.
“Guarda me.
Non ti sto guardando come se fossi cambiato.
Ti sto guardando come se fossi… più intero.”
Inspirai piano.
Il cuore calmo.
Le parole pronte da tempo.
“Non mi perdi, amore.
Non mi stai perdendo.
Io non me ne vado perché hai qualcosa in più.
Resto.
Perché me lo stai mostrando.
Perché mi fidi qualcosa che hai tenuto dentro per anni.”
Ti accarezzai il dorso della mano con le dita.
“Se vorrai provare, esplorare, capire… io sarò con te.
Anche solo ad ascoltare.
Anche solo a tenerti la mano mentre ti guardi allo specchio.
Ma da sola non lo farai.”
Restasti in silenzio.
Ma il tuo sguardo era pieno.
Lacrime agli angoli, ma ferme.
Come la tua voce, quando sussurrasti:
“Non ho mai pensato che sarebbe potuto succedere.
Così. Con te.
E che mi avresti guardato… così.”
Ti sorrisi.
“Così come?”
“Come se non avessi più bisogno di nascondermi.”
Scivolasti con le dita tra le mie.
E non ci fu più distanza.
Ci alzammo quasi insieme.
Nessuno dei due disse “andiamo in camera”.
Ma i nostri corpi si mossero come se lo avessero deciso da tempo.
Le luci erano basse.
Io ti precedevo di qualche passo, con la testa appena voltata, per controllare se mi seguivi.
E tu lo facevi.
Silenzioso. Presente.
In camera non accesi la luce.
Solo la lampada sul comodino, calda, dorata.
Mi voltai verso di te.
Ti vidi lì, fermo sulla soglia.
Come se non volessi entrare troppo in fretta.
Come se avessi bisogno che fossi io a invitarti.
Mi avvicinai piano.
Misi le mani sulla tua vita.
Non per spogliarti.
Per farti sentire che c’ero.
Che ero lì con te. Non davanti, non sopra. Con.
Sussurrai solo:
“Stenditi. Se vuoi.”
E tu lo facesti.
Sul letto, sopra le lenzuola.
Guardandomi in silenzio.
Io mi sedetti accanto a te.
Non ero più nuda. Avevo indossato una camicia leggera.
Non era tua.
Ma il profumo sì.
Appoggiai una mano sulla tua gamba, sopra i jeans.
Non toccavo per eccitare.
Toccavo per dire: “sei reale. Ti vedo. E non mi sposti.”
Ti accarezzai il petto con l’altra mano.
E ti dissi, con voce calma:
“Non c’è nulla da dimostrare, amore.
Solo da essere.
E se in questa stanza vuoi sentirti libero…
questa stanza sarà per te. Sempre.”
Tu chiudesti gli occhi.
E il respiro si fece più lento.
Più profondo.
E io, accanto a te, mi sentii… intera.
La mattina mi svegliai prima di te.
Mi alzai piano, lasciandoti dormire ancora un po’.
Ti guardai sotto la luce tenue dell’alba, il viso rilassato, il corpo disteso, il respiro calmo.
Sembravi… più leggero.
Feci la doccia, preparai il caffè, mi vestii per l’ufficio.
Quando uscimmo insieme, non parlammo molto.
Ma il silenzio non era sospetto.
Era pieno di qualcosa che ora sapevamo.
In ufficio tornai ai ritmi di sempre.
Riunioni. Email. Telefonate.
Ma ogni tanto la mente andava altrove.
Alla tua voce, alla tua verità.
Alle mie mani sulla tua pelle, la sera prima.
Aprii il browser.
Cercai parole senza sapere esattamente cosa scrivere.
“Marito crossdressing”
“complicità nella coppia”
“supporto… discreto”
Lessi articoli.
Forum.
Storie.
Alcune mi colpirono per quanto erano vicine.
Altre mi fecero paura.
Per il modo in cui venivano giudicati.
Per il modo in cui certe donne parlavano dei loro mariti come se fossero diventati “altro”.
Ma tu non sei altro.
Tu sei tu.
Non parlai con nessuno.
Non volevo consigli.
Non volevo diagnosi.
A pranzo ci incontrammo in quel ristorante tranquillo vicino all’ufficio.
Tu eri già lì.
Seduto.
Sorridente.
Quando mi avvicinai, mi guardasti come sempre.
Ma io lo notai subito: qualcosa in te era cambiato.
Il viso più disteso.
Lo sguardo più aperto.
Una leggerezza nuova, silenziosa, bellissima.
Ci sedemmo.
Ordinammo.
E tra una forchettata e l’altra, ti osservavo parlare.
Con la voce morbida.
Con i gesti più lenti.
Come se qualcosa, finalmente, ti avesse lasciato il corpo.
E io, seduta di fronte a te, cominciai a capire che forse…
questa parte di te non avrebbe mai tolto niente.
Anzi.
Avrebbe solo aggiunto.
Eri lì, davanti a me.
La luce del mezzogiorno entrava dalle vetrate del ristorante, e il tuo viso sembrava riposato.
Sano. Vivo.
Le spalle rilassate, le mani che non stringevano più il tovagliolo come un’ancora.
Ti guardai mentre parlavi del lavoro.
Poi sorrisi.
E infilai la mia domanda in mezzo alla normalità.
“E quando ti vesti, quando sei solo…
hai un nome?”
La tua forchetta si fermò a mezz’aria.
Non di scatto.
Solo un attimo.
Poi la poggiasti sul piatto.
Sollevasti gli occhi su di me.
“No,” dicesti piano.
“Mai avuto bisogno di un nome.
Non ho mai pensato a me stesso come… un altro.”
Annuii.
Mi aspettavo qualcosa del genere.
Ma volevo sentirlo da te.
“Allora è solo… un modo per stare bene?”
La mia voce era lieve.
Ma le parole erano precise.
Tu sorridesti appena.
“È più un modo per stare calmo.
Per sentirmi me stesso, in un modo che fuori non ha spazio.”
Bevvi un sorso d’acqua.
Poi ti dissi, fissandoti negli occhi:
“Allora troviamolo, quello spazio.
Anche fuori.
Anche con me.”
Restasti in silenzio un momento.
Poi mi prendesti la mano, sotto il tavolo.
Senza stringere.
Solo per tenermi.
E il tuo sorriso, in quel momento… mi fece capire che avevo appena aperto una porta nuova.
E che tu eri pronto ad attraversarla.
Con me.
La sera tornò come ogni sera.
Uscimmo insieme dall’ufficio, le luci della città nei vetri delle auto.
Parlammo poco. Ma bastava uno sguardo, un tocco leggero sulla spalla.
Era tutto lì.
A casa mangiammo sul tavolo grande, come sempre.
Due bicchieri di vino, piatti semplici, la musica in sottofondo.
Poi ci spostammo sul divano.
La tv accesa su qualcosa che non guardavamo davvero.
Io mi sdraiai contro di te, le gambe raccolte, la testa sulla tua spalla.
Sentivo il tuo respiro regolare.
Ma anche un’energia nuova.
Una tensione che non era chiusura.
Era voglia.
Ti accarezzai piano l’avambraccio.
Non per dirti “parla”.
Solo per farti sentire che c’ero.
E dopo qualche minuto, cominciasti.
Con voce bassa.
Sincera.
“Lo so che mi ami per come sono.
E questa è la cosa più forte che mi sia mai successa.”
Ti voltasti leggermente verso di me.
“E so anche che sei curiosa.
Che hai domande.
Che vuoi sapere di più.”
Feci cenno di sì, col mento.
Ma non parlai.
“Non ho un’immagine chiara di me… non una definizione.
Non mi sento ‘diverso’, non mi sento ‘sbagliato’.
Mi sento completo… solo quando posso lasciare uscire tutto.
Anche ciò che non si vede.”
Rimasi ferma.
Attenta.
“Vestirmi a volte è solo il primo strato.
Quello che viene dopo è più sottile.
È un modo di stare nel corpo. Di sentirmi calmo, leggero.
Più mio.”
Ti voltasti del tutto ora, guardandomi negli occhi.
“Non voglio nasconderti niente, amore.
E se vuoi sapere, se vuoi capire… io sono pronto.
A risponderti.
A mostrarti.
A farlo insieme.”
Ti sorrisi.
E ti presi la mano.
“Va bene,” dissi.
“Quando vuoi. Con i tuoi tempi. Ma io ci sono. Sempre.”
Tu annuisti.
E per la prima volta… ti vidi davvero più libero.
La tv continuava a riempire la stanza di luci e suoni morbidi.
Ma noi non ascoltavamo più nulla.
Solo il nostro respiro.
Il peso del corpo contro il divano.
Le mani che si cercavano senza fretta.
Ti guardai.
Avevo una domanda in gola da giorni.
E ora sentivo che potevo fartela.
“Posso chiederti qualcosa di più… diretto?”
Tu annuisti, senza esitazione.
“Quando sei in quei momenti… quando sei vestito…
ti senti attratto anche dagli uomini?
Hai mai pensato a quel lato?”
Ci fu un secondo di silenzio.
Poi la tua voce, chiara. Sicura.
“No.”
Scuotesti appena la testa.
“Non ho mai sentito quel tipo di attrazione.
Non è una questione sessuale.
Non per me.
È qualcosa che ha a che fare con il modo in cui mi percepisco.
Con il corpo. Con la quiete.
Con il piacere di stare in certe forme, certi gesti.
Ma non cambia chi desidero.”
Abbassai lo sguardo, poi lo rialzai.
“E chi desideri… sono io?”
Volevo sentirlo. Da te.
“Solo tu,” rispondesti.
Senza esitazioni.
“Con tutto quello che sto scoprendo… voglio scoprirlo con te.”
Il cuore mi batté più forte.
Non per la risposta.
Per il modo in cui l’avevi detta.
Semplice. Pulita. Vera.
Poi facesti una cosa che non mi aspettavo.
Ti alzasti.
Tese la mano verso di me.
“Seguimi,” dicesti.
La voce bassa. Ma chiara.
Ti guardai.
La mano sospesa nell’aria.
E capii che stava per succedere qualcosa.
Non solo tra noi.
Ma dentro di te.
Presi la tua mano.
E mi alzai.
Mi portasti in camera, mano nella mano.
Ma quando varcammo la soglia, la tua presa si fece più lenta.
Non ti fermasti del tutto.
Ma rallentasti.
Come chi attraversa una porta che conosce bene… eppure ogni volta lo fa col fiato sospeso.
Io restai in silenzio.
A pochi passi da te.
Non troppo vicina.
Solo abbastanza da farti sentire che c’ero.
Ti voltasti verso di me.
Avevi gli occhi tesi, lucidi.
Una tensione diversa da ogni altra.
Non era paura del giudizio.
Era timore di mostrarti. Così, per intero.
Cominciasti a muoverti con lentezza.
A prendere qualcosa dall’armadio.
Le mani tremavano appena.
Lo vidi.
E non dissi nulla.
Ti voltasti di nuovo, come se cercassi conferma.
E io annuii.
Sorridendo.
Piano.
“Vai,” dissi solo.
“Con calma.
Io sono qui.
Tutto il tempo che ti serve.”
Fu allora che abbassasti lo sguardo.
Non per vergogna.
Per concentrazione.
Ti sedesti sul letto.
Appoggiasti i vestiti accanto a te.
Poi restasti lì.
Fermo.
Con le mani sulle cosce.
Le spalle leggermente curve.
Mi avvicinai solo di un passo.
Poi mi inginocchiai davanti a te.
Le mani sulle tue ginocchia.
E ti dissi a bassa voce:
“Non devi essere perfetto.
Non devi essere sicuro.
Devi solo essere vero.
E io ti vedrò.”
La tua bocca si mosse appena.
Come per ringraziare, ma senza fiato.
Restai lì.
Ferma.
Presente.
La tua forza.
Il tuo specchio.
La tua casa.
Mi alzai lentamente da terra.
Ti lasciai le mani, ma non lo sguardo.
Poi mi sedetti sul bordo della poltrona, accanto al letto.
Non troppo vicina.
Non troppo lontana.
Incrociai le gambe, le mani in grembo.
E ti guardai.
Tu eri seduto sul bordo del letto.
I vestiti scelti accanto a te: piegati, ordinati.
Li avevi già toccati mille volte, probabilmente.
Ma non così.
Non con me presente.
La stanza era silenziosa.
Solo il ticchettio dell’orologio da parete.
E il nostro respiro.
Ti vidi prendere il primo capo.
Una maglietta a costine sottili, grigio perla.
Lunga, morbida.
Appena femminile, ma solo per chi sa guardare.
La sfilasti piano, come se stessi toccando qualcosa di sacro.
Poi ti alzasti.
Con movimenti lenti, precisi, cominciasti a svestirti.
Togliesti la camicia.
Il corpo nudo sotto la luce bassa della lampada.
Conosciuto, amato…
eppure ora lo vedevo diverso.
Più fragile.
Più tuo.
Quando indossasti la maglia, mi accorsi delle tue mani.
Leggermente tese.
Ma il gesto era dolce.
Come se stessi chiedendo al tessuto di accettarti.
Poi prendesti un paio di collant.
Neri. Velati.
Li apristi con cura.
Le dita attente, rispettose.
Ti sedesti di nuovo.
Cominciasti a infilarli, centimetro dopo centimetro.
I polpacci, le ginocchia, le cosce.
E io…
non riuscivo a distogliere lo sguardo.
Non per eccitazione.
Non per stupore.
Per commozione.
Perché ti stavi spogliando davvero.
Non solo del maschile.
Non solo dei ruoli.
Ma della corazza.
Vidi le tue spalle rilassarsi mentre ti alzavi.
Sistemasti la maglietta.
Ti guardasti allo specchio.
Non troppo a lungo.
Solo un attimo.
Poi ti voltasti verso di me.
E per la prima volta…
non cercavi conferma.
Solo presenza.
Io mi alzai.
Mi avvicinai piano.
Ti sfiorai un fianco, sopra il tessuto liscio.
“Così,” dissi.
“Sembri… te stesso.”
Tu abbassasti gli occhi.
Ma sorridevi.
Ed era uno dei sorrisi più veri che ti avessi mai visto.
Ero ancora accanto a te, le mani lungo i fianchi, le dita appena a contatto col tessuto liscio dei collant.
Il tuo sguardo era cambiato.
Non esitante.
Concentrato. Presente.
Guardai verso il basso.
La tua nudità si era coperta. Ma qualcosa restava sospeso.
“Allora,” dissi piano.
“E ai piedi?
Cosa scegli?”
Ti fermai un istante.
Guardasti la scarpiera in fondo alla stanza.
Poi tornasti verso il comodino.
Lo apristi con lentezza.
Ne tirasti fuori una scatola bassa.
La conoscevo.
La apristi.
Dentro, le mie décolleté nere.
Tacco 10.
Pelle lucida.
Punta sottile.
Le prendesti con entrambe le mani.
E per un attimo, ti fermasti.
Poi ti sedesti.
E cominciasti a infilarle.
Un piede alla volta.
Come se lo avessi fatto cento volte.
Forse era così.
Quando ti alzasti…
il mio respiro si fermò per un istante.
Le tue gambe si allungarono.
Le spalle si aprirono.
Il corpo sembrava riconoscersi.
Facesti un passo.
Poi un altro.
Camminavi piano.
Sicuro.
Leggero.
Io ti seguii con gli occhi.
Ogni gesto controllato, fluido, spontaneo.
Non c’era goffaggine.
Nessun dubbio.
Solo bellezza.
Una bellezza diversa.
Tua.
Vera.
Rimasi in piedi, ferma.
Poi ti dissi, con voce calda, piena:
“Amore…
cammini meglio di me.”
Ti voltasti.
Ridevi con lo sguardo.
Ma avevi gli occhi lucidi.
E io…
io ti vedevo.
Non travestito.
Non trasformato.
Solo libero.
Restavi in piedi, davanti a me.
Alta sul tacco, la schiena dritta, il volto acceso da qualcosa che non era trucco.
Era libertà.
Era verità.
Ti guardai camminare ancora per un paio di passi.
Poi smisi di restare ferma.
Mi mossi verso di te.
Silenziosa. Lenta.
Con lo sguardo fisso sul tuo viso.
Ti raggiunsi.
Mi fermai a pochi centimetri da te.
Poi alzai le mani.
Le posai sulle tue guance.
I pollici a sfiorare la pelle calda, appena tesa.
Non dissi nulla.
Ti guardai negli occhi.
Volevo che sentissi tutto, anche senza parole.
Poi chinai la fronte sulla tua.
Respirai con te.
A lungo.
Le mie mani scesero sulle spalle.
Poi si fermarono sulla vita.
Il tessuto sottile tra le dita.
I collant che trattenevano la tua pelle come una seconda pelle.
Ti accarezzai piano i fianchi.
E dissi solo una cosa.
Chiara.
Dolce.
“Sei bellissimo.”
Tu chiudesti gli occhi.
Il tuo corpo si mosse appena contro il mio.
Non per cercare qualcosa.
Per ringraziare.
Per lasciarsi toccare.
Ti strinsi a me.
Senza premere.
Solo perché ora… finalmente… potevo farlo.
E tu, amore mio, eri pronto a lasciarti abbracciare.
Restammo abbracciati ancora un momento.
Il tuo respiro sul mio collo, il mio corpo contro il tuo.
Pelle contro stoffa, silenzio contro battiti.
Poi mi scostai piano.
Solo quanto bastava per guardarti ancora negli occhi.
Ti presi una mano.
Non la tirai.
La sfiorai appena.
E dissi, con voce bassa:
“Vieni con me.
Voglio che ti vedi…
come ti vedo io.”
Tu non rispondesti.
Ma mi seguisti.
Due passi.
Tre.
Fino allo specchio a tutta parete, accanto alla finestra.
Ti ci fermai davanti.
Io al tuo fianco.
Un po’ più indietro.
Abbassai lo sguardo solo un istante.
Poi tornai su di te.
Al tuo riflesso.
Ti guardavi.
Ma con cautela.
Come chi ha sempre osservato di sfuggita, mai davvero.
Io non dissi nulla.
Ti lasciai tutto lo spazio.
Ti lasciai il tempo.
Nel riflesso, vedevo la tua figura: slanciata, composta.
La maglia morbida sulle spalle.
I collant che disegnavano le gambe con precisione.
Le scarpe — le mie — che ora sembravano tue da sempre.
Poi vidi qualcosa nei tuoi occhi.
Non esitazione.
Stupore.
Come se, per la prima volta, riconoscessi te stesso…
e ti piacessi.
Mi avvicinai.
Mi posizionai dietro di te.
Appoggiai le mani sui tuoi fianchi.
La guancia sulla tua spalla.
Parlammo nel riflesso.
“Sembri sereno,” dissi.
“Lo sono,” rispondesti.
“E… non pensavo mi sarebbe piaciuto così tanto.”
Sorrisi.
“Nemmeno io.
Ma guarda cosa ho davanti.”
Il tuo sorriso si rifletté, timido.
Poi si allargò.
Vero.
Pulito.
E io, stretta a te, capii che da quel momento in poi…
guardarti sarebbe stato un privilegio.
Non una concessione.
Restavamo in piedi, il mio corpo dietro il tuo.
Le mani ancora poggiate sui tuoi fianchi.
La guancia contro la tua spalla.
Lo specchio davanti a noi.
Tutto il resto era fuori dal tempo.
Ti osservai a lungo.
Ogni linea del tuo corpo.
Ogni sfumatura nei tuoi occhi.
Poi dissi piano, quasi senza fiato:
“Quando ti guardi così…
chi vedi?”
Tu restasti in silenzio un momento.
Le pupille che correvano avanti e indietro sul tuo riflesso.
Come se stessi cercando una risposta tra le pieghe del tessuto, tra la curva delle tue gambe, nel modo in cui tenevi il collo più eretto del solito.
“Non lo so ancora,” rispondesti.
“Ma sento che è qualcosa che è sempre stato lì.
Solo… chiuso.
Mai lasciato parlare.”
Appoggiai il mento sulla tua spalla.
“E se potesse parlare, adesso?
Cosa direbbe?”
Il tuo respiro rallentò.
“Direbbe che non vuole fingere.
Che non vuole fare scena.
Non vuole apparire…
vuole esistere.
Con dolcezza.
Con grazia.
Con verità.”
Ti accarezzai piano il fianco.
Poi aggiunsi:
“Ha un nome, questa parte di te?”
Tu ci pensasti qualche secondo.
“Non ancora.
Ma forse un giorno sì.
E quando lo troverò…
voglio dirtelo per prima.”
Chiusi gli occhi un istante.
E sussurrai:
“Non serve un nome, per amarti.
Mi basta che tu ci sia.”
Ti voltasti di poco, abbastanza da sfiorarmi le labbra con la tua guancia.
E lì, senza bisogno di altro,
capimmo che stavamo cominciando davvero.
Eravamo ancora davanti allo specchio.
Il tuo corpo alto, elegante.
Le gambe velate.
Il profilo calmo.
I miei occhi dentro i tuoi, riflessi nella luce bassa della stanza.
Non dicevamo nulla.
Non ce n’era bisogno.
Poi mi allontanai piano.
Aprii il mio cassetto.
Ne tirai fuori una cosa piccola.
Una mia collana.
Filo sottile, dorato.
Un ciondolo liscio, semplice. Caldo.
Mi avvicinai di nuovo a te.
Alzai le mani, la catenina tra le dita.
“Posso?” chiesi.
Tu annuisti.
E piegasti leggermente la testa.
Come un sì silenzioso, pieno di fiducia.
Ti misi la collana.
La chiusi con delicatezza dietro la nuca.
Il metallo freddo contro la tua pelle.
Il mio respiro che ti accarezzava il collo.
Poi feci un passo indietro.
Ti guardai ancora una volta.
“Adesso sì,” dissi.
“Ora sei completo.”
Tu abbassasti lo sguardo sul ciondolo.
Lo toccasti piano.
E sorridesti.
Un sorriso che non avevo mai visto.
Il sorriso di chi si riconosce.
Poi alzasti gli occhi.
E mi dicesti solo:
“Grazie per non avermi chiesto di essere altro.”
Mi avvicinai.
Ti baciai piano sulla guancia.
E ti sussurrai:
“Sei già tutto.”
Era tardi.
Lo specchio ormai aveva detto tutto.
Il tuo corpo era calmo, la collana ancora sul petto.
E nei tuoi occhi non c’era più il timore di prima.
Solo quiete.
Solo verità.
Mi avvicinai, ti presi la mano.
Poi dissi piano, con la voce che ti accarezza:
“Stanotte… perché non restiamo così?
Solo intimo. Tu ed io.
Niente più pigiami.
Niente più abiti da nascondere.”
Ti guardai con un sorriso.
“Ogni sera, da oggi… così.
Io con qualcosa di leggero.
Tu… con quello che ti fa stare bene.”
Non aspettavo un sì immediato.
Ma tu non esitai.
“Mi piacerebbe,” rispondesti.
“Mi piacerebbe moltissimo.”
Poi ti guardasti un’ultima volta allo specchio.
Ti toccasti piano l’orlo della maglia.
Controllasti la linea dei collant.
E annuisti.
“Se dormo così… mi sentirò me stesso.
E vicino a te, in un modo nuovo.
Più vero.”
Mi voltai verso il letto.
Sollevai le lenzuola.
Mi infilai tra i cuscini.
Poi ti guardai.
“Dai, amore.
Vieni a casa.”
E tu venisti.
Così.
Come sei.
Ci infilammo sotto le lenzuola.
Tu con i collant ancora addosso, la maglia sottile.
Io in una bralette chiara, le gambe nude contro le tue.
E per la prima volta… ci fu anche una risata.
“Lo sai che da ora in poi dovrò dividere i miei vestiti con te?” dissi, appoggiando la fronte al tuo petto.
“Già fatto,” rispondesti.
“Ma adesso almeno ho il permesso.”
Sorrisi, accarezzandoti il fianco.
“Dovrò mettere delle etichette su certe cose.
‘Riservato per lei.’”
“Oppure,” aggiungesti, “scegliamo direttamente un armadio in comune.
Io prendo i tacchi alti. Tu mi lasci i tuoi migliori body.”
Scoppiammo a ridere piano, tra le lenzuola tiepide.
Le mani intrecciate, il corpo rilassato.
Come se quella condivisione fosse da sempre il nostro modo più vero di amarci.
I giorni passarono veloci.
Nessun passo forzato.
Solo gesti naturali.
Tornammo al lavoro, alle abitudini… ma ogni sera ci spogliavamo solo per essere più noi.
E ogni notte, il nostro letto era il luogo dove ci si poteva dire tutto.
Anche ridendo.
Poi arrivò il sabato successivo.
E quella mattina, mentre bevevamo il primo caffè, ti dissi piano:
“Voglio dedicarmi a te, oggi.”
Tu mi guardasti con un sopracciglio sollevato.
“Nel senso buono?”
“Nel senso completo,” risposi.
“Pelle, mani, occhi, tutto.
Se ti va… cominciamo davvero.”
Ti sorrisi.
“Ceretta.
Skincare.
Lezioni di trucco.
E poi… andiamo a scegliere delle parrucche. Insieme.
Non perché ti servano.
Ma perché puoi scegliere chi vuoi essere.”
Tu appoggiasti la tazza.
Poi mi guardasti negli occhi.
E dicesti:
“Sì.
Facciamolo.
Tutto.”
Mi allungai verso di te.
Sfiorai le tue labbra con un bacio lento.
Poi dissi:
“Oggi… cominciamo a scrivere il nostro nuovo corpo.”
Ti feci sedere sul bordo della vasca.
Le luci erano calde, avvolgenti.
Niente fretta, solo il tempo giusto.
Io con addosso la mia vestaglia aperta, tu ancora nella tua maglia lunga.
I collant scivolarono piano lungo le tue gambe mentre te li toglievo, centimetro dopo centimetro.
Non con impazienza, ma come se stessi svelando una verità.
La tua pelle sotto le dita era morbida, ma segnata dal tempo, dai peli leggeri, da anni in cui ti eri lasciato solo a metà.
E ora… ora volevi essere toccato tutto.
Preparai l’occorrente.
Ceretta tiepida, strisce pulite, mani sicure.
Ti guardai negli occhi.
“Vuoi che cominci?”
Tu annuisti.
Respiravi piano.
Cominciai dai polpacci.
Stesi la cera con calma.
Le dita ferme, precise.
Ti accarezzavo prima con la spatola, poi con le mani, e sentivo la tua pelle cambiare già nel tocco.
Quando strappai la prima striscia, il tuo respiro si spezzò appena.
Ti guardai.
“Va tutto bene?”
Tu sorridesti.
“Sì. Sento che sta succedendo qualcosa.
Davvero.”
Continuai.
Dal ginocchio alle cosce.
Ogni striscia era un passaggio.
Non solo estetico.
Era un gesto d’amore.
Ti stavo aiutando a togliere quello che non serviva più.
Per farti emergere.
Più netto. Più pulito. Più tuo.
Poi passai alle braccia.
Alle mani.
Alle dita.
Ti alzai la maglietta piano.
E con la stessa cura, preparai il petto.
Ti accarezzai prima con il palmo, poi con la cera calda.
Ogni volta che ti toccavo, sentivo il tuo corpo rilassarsi.
Fidarsi.
Affidarsi.
Quando finii, ti guardai.
Eri seduto lì, con la pelle lucida, nuova.
Eri ancora tu.
Ma più visibile.
Passai le dita sulle tue gambe nude.
Poi le portai sulle tue spalle, ferme, aperte.
“Così,” dissi piano,
“stai diventando bellissimo.”
Tu non rispondesti.
Mi guardasti soltanto.
E nei tuoi occhi c’era tutto.
Gratitudine.
Emozione.
Appartenenza.
Ti feci sedere davanti allo specchio piccolo, quello tondo, col bordo dorato.
La luce calda cadeva morbida sul tuo viso.
Le braccia nude. Le gambe distese.
E quello sguardo… che ancora faticava a stare fermo.
Non per paura.
Per emozione.
Io presi il primo pennello.
Lo passai sulla mia mano, poi sul tuo viso, senza colore.
Solo per farti sentire la setola.
Il tocco.
La promessa.
“Chiudi gli occhi,” dissi.
Tu obbedisti.
Cominciai con una base leggera.
Un fondotinta appena più caldo del tuo tono naturale.
Lo stesi con le dita, piano.
Partii dal centro della fronte.
Scivolai lungo il naso, le guance, il mento.
Il tuo respiro si fece lento.
Ti lasciavi fare.
Ma non eri passivo.
Eri aperto.
Poi presi la spugnetta e iniziai a sfumare.
Ogni movimento era un massaggio.
Ogni passaggio un gesto che diceva: sei bello così, e io voglio che tu lo veda.
Ti accarezzai gli zigomi con un tocco di cipria.
Poi un filo di blush, quasi invisibile.
Il pennello girava in piccoli cerchi, mentre io ti dicevo sottovoce:
“È come disegnare chi sei, senza cancellare nulla.
Solo illuminare quello che già c’è.”
Passai a un ombretto neutro.
Un tocco d’oro chiaro all’angolo interno.
Un marrone caldo sulla piega dell’occhio.
Pennello dopo pennello, ti modellavo con rispetto.
Non stavo truccando un uomo.
Stavo carezzando il tuo vero volto.
Poi presi il mascara.
“Guarda in basso.”
Le tue ciglia si curvarono piano.
Senza sbavature.
Perfette.
Infine, il rossetto.
Non uno acceso.
Uno rosa tenue, che sembrava il tuo colore naturale amplificato.
Te lo passai sulle labbra con calma.
Poi con il dito lo sfumai leggermente.
Mi fermai.
Ti guardai.
“Adesso puoi aprire gli occhi.”
Lo facesti.
E ti vedesti.
Io ti stavo dietro, silenziosa.
Ma nel tuo riflesso c’ero anch’io.
Ero la tua compagna.
La tua alleata.
La tua prima spettatrice.
Tu non parlavi.
Solo respiravi.
Lento.
Fondo.
Poi sussurrasti:
“Mi piace.
E non so se è il trucco… o il fatto che tu sia qui.”
Ti misi le mani sulle spalle.
Mi chinai piano.
E dissi:
“È entrambi.
È che ora non ti nascondi più.
E questo… ti fa splendere.”
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