Insieme... Cap. 1

di
genere
confessioni

Tutto questo è frutto di pura fantasia.


Eravamo a casa da poco. La sera era tiepida, le finestre aperte. Tu ti toglievi la giacca, io sistemavo due tazze di tisana sul tavolo. Parlavamo del lavoro, come sempre. Delle solite scadenze, di quel collega nuovo troppo invadente. Ridevamo.
Ma qualcosa mi pungeva.
Non un fatto. Un'impressione.
Era cominciato quella mattina, quando avevo trovato un piccolo segno di fondotinta sul collo della tua camicia bianca. Un’ombra rosa, quasi invisibile.
E non era il mio.
Non dissi niente.
Ti guardai. Le mani forti che versavano la tisana. Le spalle larghe. La voce che conoscevo da anni.
Poi lo sguardo scivolò giù, sulle caviglie. Coperte, sì. Ma non potevo smettere di pensare al vago profumo che avevo sentito ieri nell’armadio. Un odore dolce. Quasi talcato. Femminile.
Mi sedetti accanto a te, sorridendo come sempre.
Ma dentro qualcosa si muoveva.
Non gelosia. Non rabbia.
Curiosità.
Desiderio di sapere.
Desiderio, e basta.
Nei giorni successivi non dissi nulla. Ma cominciai a guardare meglio.
La mattina, quando ti facevi la doccia, entravo in bagno dopo di te.
Una volta notai un minuscolo pelo chiaro nel lavandino. Corto, sottile. Non era della barba.
Un'altra volta, il rasoio era stato usato su entrambi i lati della testina. Come per radere qualcosa di più ampio. Di più morbido.
Poi ci fu la questione della biancheria.
Stavo sistemando il bucato pulito e trovai un paio di slip di pizzo nero, arrotolati tra i tuoi calzini.
Li presi in mano.
Erano piccoli. Ma non da donna. O meglio: non da me.
Nuovi, lavati, indossati.
Li rimisi esattamente dove li avevo trovati.
Quella notte, mentre dormivi, mi girai verso di te.
Ti guardai a lungo, il profilo del tuo viso nella luce fioca della strada.
E mi chiesi: perché?
Non ti giudicavo.
Volevo solo capirlo.
Perché mai, in tutti questi anni, non me l’hai detto?
E forse…
forse la vera domanda era un’altra.
Perché proprio adesso sentivo che volevo saperlo davvero?

In ufficio eri sempre uguale. Camicia ben stirata, pantaloni scuri, quel modo discreto di entrare nelle stanze senza mai farti pesare.
Ti muovevi tra le scrivanie con naturalezza. Salutavi tutti. Nessuna affettazione, nessun gesto fuori posto.
Eppure cominciai a osservarti con altri occhi.
Non per cercare conferme. Ma per cogliere sfumature.
Il modo in cui ti lisciavi le maniche, con lentezza.
Come accavallavi le gambe in riunione, senza che nessuno ci facesse caso.
Un giorno ti vidi sorridere a Marta dell'amministrazione.
Lei ti parlava dei figli, e tu ascoltavi con calma, attento, accogliente. Ma c’era qualcosa nel tuo sguardo.
Non era desiderio. Era… vicinanza. Come se la capissi. Come se sentissi di assomigliarle, anche senza dirlo.
Io fingevo normalità.
Ridevo alle pause caffè.
Tornavamo a casa insieme.
Facevamo l’amore, come sempre. Tu non mi facevi mancare nulla. Mi prendevi con la stessa fame dolce di sempre.
Ma ora, mentre eri dentro di me, io immaginavo la tua pelle rasata sotto la camicia.
La tua bocca con il sapore del mio rossetto.
Le tue mani che s’infilavano in un collant, non per svestire me, ma per rivestire te.
Una sera, mentre mi cambiavo, ti dissi una frase semplice. Senza guardarti.
"Come taglia, in fondo, siamo quasi uguali."
Tu restasti in silenzio.
Poi sorridesti appena.
"Anche il numero di scarpe, se non sbaglio."
Mi voltai verso di te.
E non dissi niente.
Ma dentro, qualcosa si aprì.
Piano.

Passarono i giorni. Una settimana. Poi due.
E tutto sembrava tornato com’era prima.
Nessuna traccia nuova nei cassetti.
Nessun profumo dolce sul colletto delle camicie.
Nessuna sbavatura di fondotinta. Niente.
Tu eri sempre attento, gentile, presente.
Forse più del solito. Facevi colazione con me ogni mattina.
Preparavi la cena qualche volta. E a letto mi amavi con una cura nuova, quasi reverente.
Io non dicevo nulla, ma osservavo. E ogni tuo gesto sembrava studiato per non lasciare segni.
Per non sollevare dubbi.
Una sera, mentre piegavi i tuoi pantaloni da lavoro, ti dissi con leggerezza:
“È da un po’ che sembri… più ordinato. Più attento.”
Tu alzasti lo sguardo appena.
“Non me ne ero accorto.”
Mentivi.
Ma lo facevi con dolcezza.
Come per proteggere qualcosa.
O qualcuno.
E io cominciai a chiedermi:
che cos’hai pensato quella mattina, quando hai trovato il body piegato diversamente?
Quando hai capito che io stavo cercando?
Ti sei spaventato?
Ti sei vergognato?
O stai solo aspettando che io ti dica:
"Puoi farlo. Io sono qui."

Era un martedì qualsiasi.
Pioveva fuori, leggero, e il profumo della terra bagnata entrava dalla finestra del bagno.
Avevamo cenato tardi, parlando poco. La giornata era stata lunga.
Tu eri già sotto la doccia quando andai in camera.
Volevo solo cercare una sciarpa nel ripiano alto dell’armadio.
Ma passando davanti alla scarpiera, mi fermai.
Uno dei miei stivali era leggermente inclinato.
Solo un dettaglio.
Un'angolazione diversa.
Non la mia.
Mi accucciai davanti al mobile.
Presi lo stivale con due dita. Lo guardai.
La cerniera era chiusa male, il cuoio un po’ più caldo dell’altro.
Dentro, appena visibile, un’impronta leggera di calza.
Mi rimisi in piedi.
Rimasi lì qualche secondo.
Poi sistemai lo stivale esattamente come lo avevo lasciato l’ultima volta.
Allineato. Pulito. Muto.
Tu uscisti dal bagno col vapore alle spalle.
Mi guardasti.
“Io mi metto già a letto, va bene?”
Annuii.
“Arrivo subito.”
Ma non era vero.
Restai lì ancora un po’.
Con la mano che sfiorava la pelle dello stivale.
E il cuore pieno di pensieri che non facevano più paura.
Quella notte non dormii subito.
Sentivo il tuo respiro regolare accanto al mio.
Il lenzuolo sulla tua schiena, il calore del tuo corpo.
E io, sveglia. Con lo sguardo fisso sul soffitto.
Mi chiedevo da quanto.
Da quanto tempo indossi i miei vestiti, le mie scarpe.
Da quanto tempo senti il bisogno di farlo.
Se l’hai fatto sempre, in segreto, o solo da poco.
Se c’è qualcosa che ti manca… o che io non ho mai capito.
Mi chiedevo se c’è dolore in te.
O solo piacere.
Se ti guardi allo specchio quando sei vestito così.
Se ti piaci.
Se ti senti più vero, più leggero.
E poi…
mi chiedevo cosa significa per me.
Se ti scoprissi davvero così, cambierebbe qualcosa?
Ti amerei di meno?
Mi sentirei tradita?
No.
Solo esclusa.
Perché non me lo dici?
Perché non mi lasci entrare?
Mi girai piano verso di te.
Ti guardai dormire.
E in quel momento capii che non avevo paura.
Solo voglia di verità.

Il sabato cominciò come sempre.
Ti svegliasti prima di me, come fai spesso nel fine settimana.
Quando entrai in cucina, il caffè era già pronto, e tu avevi quella camicia aperta sui polsi che ti dona sempre.
Mi sorridesti.
“Shopping oggi?”
Annuii.
“Sei pronto?”
Ti vestisti con calma. Giacca leggera, jeans scuri, occhiali da sole.
Io scelsi una gonna a tubino nera, tacchi alti, un top semplice che lasciava le spalle scoperte.
Non per sedurti.
Perché così mi sentivo bene.
Perché era sabato, e quando usciamo insieme… mi piace piacerti.
Passeggiammo tra le vie del centro come ogni sabato.
Tenore alto, vetrine eleganti, abiti di seta e pelle liscia.
Provai un paio di sandali dorati. Tu eri seduto lì accanto, con lo sguardo tranquillo, il corpo rilassato.
Ma io vedevo.
Ogni tanto il tuo sguardo si soffermava su qualcosa.
Non sulle modelle sui manifesti.
Ma sulle scarpe.
Su certe gonne.
Su una camicetta in satin che accarezzai solo con gli occhi.
Provai un vestito. Rosso, corto, taglio aderente.
Quando uscii dal camerino, mi guardasti con quel sorriso che conosco.
“Bellissimo.”
Poi distogliesti lo sguardo un attimo troppo in fretta.
In una boutique trovammo uno specchio lungo, angolato.
Mi provai un cappello e ti chiamai.
“Vieni qui. Guarda com’è da dietro.”
Ti avvicinasti.
Ma invece di me, ti osservasti tu.
Un secondo. Forse meno.
Il tuo riflesso. Accanto al mio.
Non dissi nulla.
Ma sentii qualcosa.
Non la certezza.
Solo quel senso sottile che qualcosa si muoveva in te, e che avevi imparato bene a tenerlo nascosto.

La sera, dopo essere rientrati, tu ti addormentasti presto.
Io rimasi a sistemare le borse, i pacchetti.
Rimisi i miei nuovi acquisti nell’armadio.
Poi chiusi la porta della camera e restai lì, in piedi. In silenzio.
Aprii il cassettone dove tengo gli accessori.
Tutto era a posto. Perfetto.
Ma una pochette rossa, quella di raso che uso poco, era stata riposta in modo strano.
La cerniera non era chiusa del tutto.
Una piccola imperfezione, quasi invisibile.
Ma io la notai.
Mi chinai.
Aprii lentamente.
Dentro c’era solo ciò che ricordavo: rossetto, una bustina di assorbenti, uno specchietto.
Nulla fuori posto.
Nulla che parlasse.
Eppure, avevo la sensazione precisa che quelle cose fossero state toccate.
Come se tu le avessi solo sfiorate.
Come se fossi entrato in quella pochette per sbaglio, poi l’avessi richiusa di fretta.
Mi alzai.
Sospirai piano.
Sotto i miei piedi nudi, il parquet era freddo.
Tornai in camera.
Ti guardai dormire.
Sereno. Calmo. Bellissimo.
E io, ancora una volta, tenni tutto dentro.
Senza chiedere.
Senza cercare di sapere.
Solo restando lì, nel mio silenzio ordinato, con il cuore pieno di attesa.

Domenica mattina.
La luce entrava dalle tende leggere, calda, lenta.
Ci svegliammo tardi, ancora nudi sotto le lenzuola.
Mi accarezzasti i fianchi senza parlare. Io ti strinsi una coscia tra le gambe.
Restammo così, vicini, sospesi tra il desiderio e la quiete.
Poi mi girai verso di te, con la testa sul tuo petto.
Sentivo il tuo respiro regolare.
E con voce bassa, senza alcun tono strano, ti chiesi:
“Hai mai desiderato essere qualcun altro? Anche solo per un po’?”
Sentii il tuo corpo irrigidirsi appena.
Un secondo. Forse meno.
Poi rispondesti:
“Non saprei. In che senso?”
“Nel senso di… cambiare pelle. Corpo. Stile. Qualcosa che non si può dire tutti i giorni.”
Tu restasti in silenzio qualche istante.
Poi ridesti, piano.
“Ogni tanto, forse. Ma poi torno sempre me stesso.”
Annuii.
E sorrisi anche io.
Ma dentro, qualcosa si spezzò.
Non per la risposta.
Per quella piccola esitazione prima.
Per quel tono troppo preciso.
Per come evitasti di guardarmi negli occhi.
Ti accarezzai il petto.
Poi mi alzai dal letto.
“Sono sveglia ormai. Preparo il caffè.”
E mentre camminavo verso la cucina, capii che qualcosa tra noi si era appena incrinato.
Non per colpa.
Ma per distanza.
Una distanza nuova, sottile, piena di cose non dette.

Te ne sei andato poco dopo le nove.
Tuta sportiva, borsa da tennis in spalla, un bacio sulla guancia.
“Un paio d’ore. Torno per pranzo.”
Annuii.
E appena la porta si chiuse, il silenzio si fece diverso.
Non era vuoto. Era denso.
Mi sedetti sul letto.
Rimasi lì qualche minuto, senza fare nulla.
Poi mi alzai.
Andai in bagno.
Nulla. Tutto in ordine.
Aprii il tuo armadio, piano.
Camicie ben appese, pantaloni piegati.
Mi chinai.
Scatole lucide, etichette in bella vista: cravatte, cinture, orologi.
Poi vidi una scatola senza etichetta.
Piccola. Nera. Nascosta dietro un paio di stivali che non usi mai.
La presi.
Il cuore batteva piano, ma forte.
Aprii.
Dentro c’era un body di pizzo grigio.
Due paia di collant.
Un reggicalze.
E un rossetto.
Il mio rossetto.
Quello che avevo perso due mesi fa.
Lo chiusi.
Non per paura.
Per rispetto.
Lo rimisi dov’era.
Esattamente com’era.
Poi tornai in cucina.
Mi preparai un caffè.
Seduta al tavolo, in silenzio, fissavo il vapore salire dalla tazza.
E per la prima volta, dentro di me, non c’erano più dubbi.
Solo una domanda nuova.
Quando mi fiderai abbastanza da mostrarti?



Sentii la chiave girare nella porta.
Passi sicuri nell’ingresso.
Il rumore della zip della borsa da tennis, poi il tuo richiamo.
“Sono tornato.”
Non risposi.
Ero in piedi in camera, davanti allo specchio.
Indossavo una delle tue camicie. Bianca. Appena stirata.
Ma sotto, nulla.
Solo la mia pelle.
E un paio dei miei stivali neri. Quelli che sfiorano il ginocchio.
Le gambe nude.
I capelli sciolti.
Tu apparisti sulla soglia e ti fermasti.
Io ero lì, in piedi davanti allo specchio.
La tua camicia su di me. Aperta quel tanto che bastava.
I miei stivali neri. Pelle viva sulle gambe nude.
Mi guardasti.
E in quegli occhi vidi qualcosa cambiare.
Non era solo sorpresa.
Era altro.
Come se non mi avessi mai vista davvero, fino a quel momento.
Restasti muto.
Poi, piano, chiudesti la porta alle tue spalle.
Ti avvicinasti di qualche passo.
E mi dicesti, con voce più bassa del solito:
“Sei bellissima.”
Eri sincero.
Eri scosso.
E, forse, per la prima volta…
eri anche pronto.

Non mi cambiai.
Non mi coprii.
Non corsi a spiegare nulla.
Rimasi con la tua camicia addosso, aperta quanto bastava per lasciarmi respirare.
Con i miei stivali alti, nudi sulle gambe.
E mi sedetti sul bordo del letto.
Tu mi passasti accanto.
Posasti la borsa da tennis, togliesti le scarpe, andasti in bagno.
Tutto come sempre.
Ma non era come sempre.
Ti osservavo in silenzio.
Ogni tuo gesto.
Ogni sguardo rubato.
Ogni volta che facevi finta di non guardarmi, mentre invece lo facevi eccome.
Volevo vedere se avresti detto qualcosa.
Se ti avresti lasciato scappare un sorriso.
Se ti avrei visto lottare, anche solo per un attimo, tra la voglia e la paura.
Tu fingevi normalità.
Ma nei tuoi occhi c’era altro.
Una fame trattenuta.
Un desiderio senza nome.
Io restavo lì.
Nessuna domanda.
Nessuna mossa.
Solo questa pelle scoperta, morbida, decisa.
Perché volevo vedere.
Volevo sapere chi sei davvero… quando pensi che io ti stia lasciando scegliere.

Dopo pranzo ci stendemmo sul divano.
Io con la tua camicia ancora addosso.
I miei stivali neri. Pelle lucida. Calda.
Io sdraiata su di te.
La tua gamba piegata sopra la mia.
Le tue mani si muovevano lente.
Dal bordo della camicia scendevano verso il punto dove il cuoio cominciava.
Mi accarezzavi lo stivale senza fretta, seguendo le cuciture con le dita.
Polpastrelli attenti. Con la testa altrove, ma il cuore… tutto lì.
Io non dicevo nulla, all’inizio.
Chiudevo gli occhi, respiravo piano.
Poi aprii le labbra, bassa.
“Cosa provi, quando mi accarezzi così?”
Tu esitasti.
Passasti le dita un po’ più in basso.
“Mi piace… il rumore della pelle. Il modo in cui ti sta addosso.”
“Solo quello?”
La mia voce era morbida. Ma chiara.
Sorridesti.
“Mi piace tutto di te, lo sai.”
“Non ho chiesto di me.”
Mi sollevai appena, con un braccio poggiato sul tuo petto.
“Ho chiesto: quando mi tocchi qui… su questi stivali… che sensazione hai? È uguale al resto? È solo pelle?”
Restasti in silenzio.
Le dita sempre lì, sulla curva tesa del mio polpaccio.
“È diverso. Ma non so dire perché.”
Io non incalzai.
Non ironizzai.
Ti appoggiasti di nuovo a me.
E restammo così.
Tu che accarezzavi.
Io che ascoltavo ogni gesto.
E qualcosa, in quel silenzio, iniziò a sciogliersi.

Il pomeriggio era lento.
Fuori il sole calava piano, la casa era silenziosa.
Io ero ancora lì, sotto di te, con la testa appoggiata sul tuo ventre.
Le tue mani non mi toccavano più. Ma io sentivo la tua tensione.
Come un’attesa che si fingeva calma.
Mi sollevai leggermente.
Le mie dita si posarono sulla tua nuca.
Poi scivolarono sulle tue spalle.
E giù, sul petto.
Sotto la camicia aperta.
Ti accarezzai il collo.
La mascella.
E poi, con voce bassa, ti chiesi:
“Mai desiderato sentire questo tessuto sulla tua pelle?”
Tu non rispondesti subito.
Il tuo respiro cambiò appena.
Io continuai.
“Non questa camicia su di me. Su di te.”
Poi passai le mani sui bottoni.
Li sfiorai. Uno a uno. Lentamente.
“Non ti incuriosisce mai? Sapere come starebbe su di te, senza vergogna?”
Sentii il tuo addome irrigidirsi.
Il tuo silenzio farsi denso.
“Perché non me lo dici?”
Abbassai la voce.
“Sei qui. Io sono qui. E non ti sto chiedendo di mostrarmi nulla.
Solo di dirmi… se c’è qualcosa che vuoi. Davvero.”
Mi guardasti.
Negli occhi.
E qualcosa, in te, tremò.
Ma non era paura.
Era vicinanza.
Finalmente vicinanza.

Eri rimasto in silenzio. Ma io sentivo tutto.
Il tuo respiro più corto.
Lo sguardo che evitava il mio, anche se le mie mani erano su di te.
Mi alzai piano.
Mi tolsi la camicia, senza fretta.
Rimasi nuda, solo gli stivali ancora addosso.
Ti guardai. Non con sfida. Ma con intenzione chiara.
Poi mi chinai sulla cassettiera.
Presi il body grigio che avevo trovato quella mattina, nella scatola.
Lo portai con me. Lo posai tra noi, sul divano.
“Questo è tuo, vero?”
La tua fronte si irrigidì.
Ma io parlai prima che potessi negare.
“O magari è mio. O forse non importa.”
Mi sedetti accanto a te. Sfiorai il bordo del tessuto con le dita.
Era liscio, morbido. Ancora tiepido, come se portasse la memoria del tuo corpo.
“Se vuoi indossarlo…
io non lo impedirò.”
Ti guardai negli occhi.
“Ma se non vuoi farlo davanti a me… puoi farlo quando sei pronto.
Lascio la stanza.
O resto qui.
Come vuoi tu.”
Poi mi alzai. Feci un passo indietro. Ti lasciai spazio.
Fisico. Mentale. Reale.
Il body era lì, tra noi.
E io… ero lì. Ad aspettare. Non una conferma. Ma la tua verità.
Il body era lì, tra noi.
Tu lo guardavi, ma non lo toccavi. Io restavo in piedi, a pochi passi da te.
Nuda, ma tranquilla. Con gli stivali ancora addosso.

Poi alzasti lo sguardo. E fu uno sguardo pieno.
Non fuggivi più.
“Non voglio indossarlo adesso.”
La tua voce era ferma.
“Non perché non lo desideri.
Ma perché… adesso voglio solo parlarti.”
Annuii.
Mi sedetti accanto a te, lentamente.
Ti presi la mano.
Era calda. Leggermente umida.
“Va bene,” dissi.
“Sono qui.”
Ci fu silenzio per qualche secondo.
Poi cominciasti.
“Sì. Alcune cose che hai visto… erano vere.
Li ho usati. Li ho provati.
Ma non per nasconderti qualcosa.
Non per tradire.”
Ti fermasti un attimo.
“È più complicato di così.”
Io non parlai.
Ti lasciai andare avanti.
“Non è un gioco, e non è nemmeno una vergogna.
È… qualcosa che mi accompagna da sempre.
Ma non l’ho mai vissuto fino in fondo.
Mai con nessuno.
Mai con te.”
Mi guardasti.
E fu come aprire una finestra, piano.
“E non perché non mi fidi.
Ma perché avevo paura che… se ti mostravo questa parte di me,
tu avresti visto qualcun altro.
Non me.”
Mi avvicinai.
Appoggiai la fronte alla tua.
E ti sussurrai:
“Ma io vedo solo te.
Con qualcosa in più.”
Tu chiudesti gli occhi.
E per la prima volta, sentii che stavi respirando davvero.

Continua…

scritto il
2025-07-28
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