Insieme... Cap. 4

di
genere
trans

Elena??? Stavo per aprire la porta di casa. La borsa ancora sulla spalla, il cuore pieno di te, il viso teso ma deciso. Poi, dietro di me, la sua voce. Quella voce che mi ha cresciuta. Che mi ha guidata. E che ora tremava. “Elena???” Mi voltai di scatto. Mia madre era ancora lì, sul pianerottolo. Aveva gli occhi larghi. Non arrabbiati. Solo confusi. Spaventati. “Elena…” ripeté. Come se il suono le fosse sfuggito. Come se lo avesse intuito, indovinato, o—peggio—immaginato. Io la guardai in silenzio. Poi chiusi la porta tra noi. Appoggiai la schiena al legno. Respirai piano. Dentro casa, tutto era quieto. Tu, in salotto, stavi ascoltando musica. Una camicia mia, le gambe nude, il trucco ancora morbido sulle palpebre. Quando mi vedesti, ti alzasti subito. “Com’è andata?” Ti guardai. Poi mi avvicinai. Ti presi il volto tra le mani. E ti baciai piano. Poi ti sussurrai all’orecchio: “Ha detto il tuo nome.” Ti irrigidisti un istante. Poi appoggiasti la fronte sulla mia. “E adesso?” “Adesso niente. Non cambiamo nulla. Non ci nascondiamo. E se vorrà capire… capirà.” Tu chiudesti gli occhi. Sorridesti piano. E in quel sorriso, io vidi tutta la forza che ti avevo regalato. Che avevi preso. E fatto tua.

Era sabato sera. Avevo scritto a mia madre due giorni prima: “Ci vediamo a cena? Parliamo un po’, fuori da casa. Solo noi.” Aveva risposto con un semplice: “Va bene. Dimmi dove.” Ti dissi tutto mentre ti aiutavo a scegliere i vestiti. Tu restasti in silenzio per un momento. Poi, con voce bassa, chiedevi: “Vado… come me?” Scossi piano la testa. “No. Non stasera. Non ancora. Ma sotto… Elena può venire con noi.” Ti si accese un sorriso lento, intimo. E con naturalezza, tirasti fuori il perizoma in pizzo nero. Poi le autoreggenti. Le infilasti senza fretta. Io ti guardavo. E già la pelle mi vibrava. Poi la camicia bianca. La giacca elegante. I pantaloni stirati. Maschile fuori. Ma io sapevo. E tu… anche. In macchina ti sfiorai il ginocchio. Sentii il bordo alto dell’autoreggente sotto il tessuto. Sorrisi. Sussurrai: “Sei mia, anche adesso.” Tu stringesti la mia mano. E rispondesti: “E tu… sei bellissima quando ti accorgi di me. Così.” Arrivammo al ristorante. Mia madre era già lì. Ci salutò con un sorriso cauto. Ci sedemmo. Parlammo del lavoro, della vita, del tempo. Ma ogni tanto, io abbassavo lo sguardo. Ti guardavo le mani. Il colletto. La tensione leggera delle autoreggenti sotto il tessuto. E sentivo tutto il mio desiderio salirti addosso, anche senza toccarti. Tu lo sentivi. Lo vedevi nei miei occhi. E cominciava a piacerti. Non solo il sentirti donna. Ma il vedermi eccitata da te, mentre nessuno lo sa. Sotto il tavolo, sfiorai la tua coscia. Tu non mi fermasti. Elena era lì. Seduta con noi. Solo nostra. E bastava.

Il ristorante era pieno di voci basse, piatti che tintinnano, luci calde. Io sedevo accanto a te, mia madre di fronte. La conversazione scorreva piano: nulla di forzato, ma nemmeno del tutto naturale. Tu rispondevi con gentilezza. Ma io ti conoscevo. Sapevo che dentro avevi Elena sotto la camicia. Sotto la cintura. Sotto la pelle. E io… io la vedevo. Ti vedevo. Mia madre si fermò a un certo punto. Appoggiò il bicchiere. Poi disse, guardandoti con curiosità: “Mi sembri diverso. Non in modo negativo, solo… più calmo. Più centrato.” Tu sorridesti. E io ti presi la mano, nascosta sotto il tavolo. “Sta bene,” dissi. “Per la prima volta in modo profondo.” Lei socchiuse gli occhi. Non era diffidente. Era attenta. Come chi cerca di capire cosa non viene detto. Poi le sue labbra si mossero lentamente. Una frase, appena sussurrata. “C’è qualcosa tra voi… qualcosa che non ho mai visto. Un legame diverso.” Io annuii. Non negai. “È un amore che si allarga,” dissi. “Non cambia, si allarga.” Lei ci guardò. A lungo. Poi disse solo: “Qualunque cosa sia… vedo che vi fa bene. E se vi fa bene… allora voglio capirlo. Col mio tempo. Ma lo voglio.” Tu inspirasti piano. Non parlasti. Ma sotto il tavolo, stringesti la mia mano. Forte. E io sorrisi. Perché qualcosa stava cominciando.

Il tavolo restava silenzioso, ma vivo. Mia madre ci guardava. Non con giudizio. Con attenzione. Con il tipo di rispetto che arriva quando si accetta di non capire subito. Poi fu tu, amore mio, a muovere lo sguardo. A sollevare il viso. E dicesti, con voce chiara, senza forzare nulla: “C’è qualcosa che volevo dirle da molto. Ma non sapevo come.” Lei restò immobile. Non sorrideva. Non si irrigidiva. Aspettava. “Io non sono cambiato,” continuasti. “Ma mi sto mostrando per quello che sono sempre stato. Una parte di me… è femminile. Non è un travestimento. Non è un gioco. È presenza. È verità.” Appoggiasti le mani sul tavolo, senza tremare. “Lei mi conosce da anni. Come marito di sua figlia. Ma oggi… sua figlia ama qualcuno che si chiama Elena.” Mia madre non rispose subito. Ti guardò. A lungo. Poi disse solo: “È il tuo nome?” Quasi un sussurro. Come se volesse provarlo sulle labbra prima di accettarlo nel cuore. Tu annuisti. “È il mio nome.” Lei guardò me. Poi tornò su di te. “E cosa vuole Elena da me?” Tu rispondesti con un respiro lento. “Rispetto. Nulla di più. Non approvazione. Non consenso. Solo spazio. Per poter esistere. Accanto a lei.” Mia madre abbassò gli occhi. Poi li rialzò. E con voce spezzata, ma sincera, disse: “Non so se riuscirò a capirlo tutto… ma so vedere quando c’è amore vero. E l’amore… non ha genere. Ha solo coraggio.” Tu sorridesti piano. Io ti strinsi la mano. E capimmo che qualcosa si era aperto. Non tutto. Non subito. Ma abbastanza.

Fino a quel giorno In ufficio tutto scorreva come sempre. Saluti rapidi al mattino. Riunioni. Caffè. Mail. Tu eri lì, puntuale, concentrato. Professionale. Ma qualcosa in te… brillava. Non era il taglio dei capelli, né il nuovo modo di vestire. Era lo sguardo. Più calmo. Il corpo. Più sciolto. Le colleghe ti lanciavano occhiate diverse. I colleghi ti parlavano con un rispetto nuovo, inconsapevole. Ti vedevano più intero, ma nessuno sapeva dire perché. Solo io sapevo. Che sotto la camicia c’erano spesso autoreggenti. Che sotto i pantaloni, la tua pelle era sempre liscia. Che sotto tutto… c’era Elena. E a casa… non c’erano più ruoli. Quando chiudevamo la porta, tu diventavi ciò che ormai eri: una donna. Mia. Tutta. La parte maschile era rimasta solo nel sesso. Quando ti lasciavo entrare in me con dolcezza. Quando il tuo corpo si faceva ancora forza, ma la tua voce… era tutta Elena. Fino a quel giorno. Era un giovedì. Stavi cucinando, con un grembiule sopra il vestito che avevo scelto per te. Tacco dodici. Rossetto opaco. Capelli raccolti. Suonò il citofono. Io risposi. Dalla voce, era una collega. Una delle più dirette. “Sei a casa? Passo cinque minuti, ti devo lasciare una cosa.” Mi voltai. Tu mi guardavi immobile. Occhi larghi. Bocca socchiusa. Non avevi tempo di cambiarti. Nemmeno di nasconderti. E fu lì che accadde qualcosa. Elena non fuggì. Mi guardasti. Respirasti piano. E dicesti solo: “Apri.” Io non parlai. Feci quello che mi avevi chiesto. E il mondo, da quel momento, non sarebbe stato più lo stesso.

Aprii la porta con calma. La collega era lì, con la solita energia da ufficio: jeans, blazer scuro, cellulare in mano. Appena mi vide, sorrise. “Ciao! Scusa l’improvvisata, ma dovevo lasciarti quel file stampato per domani.” Poi ti vide. E per un secondo lungo… lunghissimo… il tempo si fermò. Tu eri in piedi, accanto al tavolo. Vestito morbido, tacco 12, capelli raccolti con cura. Rossetto nude, autoreggenti sotto l’orlo appena visibile. Il grembiule ancora addosso. Ma il corpo dritto. La testa alta. I suoi occhi si mossero. Ti studiarono in silenzio. Non con cattiveria. Con sorpresa. E qualcosa di più difficile da leggere: curiosità… rispetto… forse persino ammirazione. Poi parlò. La voce più bassa. Più lenta. “Scusa… io… credevo ci fosse tuo marito.” Tu rispondesti senza spostarti. Con voce calma. Chiara. “Ci sono. Sono io.” Lei ti guardò ancora. Poi fece un mezzo passo dentro, con un’espressione che si sciolse in un sorriso pulito. “Stai… benissimo.” Fece una pausa. “Davvero.” Tu annuisti, senza esagerare. “Grazie.” Io non dicevo nulla. Ti osservavo. Orgogliosa. Incantata. Lei appoggiò la busta sul tavolo. “Scusami ancora. Vado. A lunedì.” Ti sorrise. E uscì. Chiusi la porta piano. Poi mi voltai. Tu eri ancora lì. Il respiro appena accelerato. Ma il volto… sereno. Mi avvicinai. Ti sfiorai le labbra. E dissi solo: “Sei entrata nel mondo. E il mondo ti ha vista.” E tu, Elena, sorridesti. “Era ora.”

Entrammo insieme, come ogni mattina. Tu con l’abito impeccabile, la camicia chiusa, il viso pulito. Esternamente eri quello che tutti conoscevano. Ma io sapevo cosa indossavi sotto. Il perizoma in pizzo azzurro che avevo scelto. Le autoreggenti. E una sicurezza nuova, intatta. Le prime ore passarono tranquille. Ma non del tutto normali. Nella pausa caffè, qualcuno ti guardò più a lungo del solito. Non con diffidenza. Con attenzione. Una collega si avvicinò a me in corridoio. Non con tono invadente. Con delicatezza. “Ieri sono passata un attimo da casa tua… scusa se lo dico, ma… lui era diverso. Sembrava… felice. Sereno.” Io la guardai. Sorrisi piano. “Lo è.” Lei non disse altro. Ma negli occhi… nessuna cattiveria. Solo stupore. E, forse, invidia. Al tuo rientro in ufficio, qualcuno ti chiese con una punta d’ironia: “Hai cambiato look a casa? Ti vediamo più... raffinato ultimamente.” Tu sorridesti. E rispondesti solo: “Diciamo che mi sento più a mio agio con me stesso.” Niente spiegazioni. Niente scuse. Solo verità, detta con grazia. Nel pomeriggio, passammo uno accanto all’altro in corridoio. Le dita si sfiorarono appena. Tu non dicesti nulla. Ma io sapevo. Il segreto c’era ancora. Ma ora era anche forza. E presenza.

Passarono pochi giorni. All’inizio erano solo sguardi. Più lunghi. Meno limpidi. Come se volessero vedere oltre il vestito. Come se sapessero… ma non dicessero. Poi arrivarono le prime battute. Sottovoce. Mormorate alle macchinette del caffè. Sorrisi falsi. Frasi tagliate a metà appena tu passavi. “...certo che adesso è tutto più fluido, eh?” “…dice che si sente più a suo agio, certo…” “…hai visto l’altro giorno? Sembrava…” Non erano accuse. Non erano attacchi. Erano lame sottili. Appoggiate con garbo. Ma sempre pronte a incidere. Tu non rispondevi. Continuavi a lavorare. Preciso. Presente. Ma io ti osservavo da lontano. E vedevo le spalle farsi più rigide. Il collo più teso. Gli occhi più vuoti. Una sera, tornando a casa, ti tolsi la giacca appena entrati. Ti sfiorai la schiena. E dissi piano: “Te lo stanno facendo pesare?” Tu non rispondesti subito. Poi sussurrasti: “Non tutti. Ma… sì. Cominciano a isolarmi. Piccoli gesti. Come se qualcosa si fosse rotto. O minacciato.” Ti abbracciai da dietro. La guancia contro la tua spalla. “Non sei sbagliata. Sei solo troppo vera per chi non ha ancora il coraggio di esserlo.” Tu chiudesti gli occhi. E sussurrasti: “Posso restare Elena solo con te?” Ti strinsi forte. “No. Con me… puoi essere Elena sempre. Ma un giorno… lo sarai anche fuori. E allora non chiederai più il permesso.”



I giorni seguenti scivolarono lenti. Ma qualcosa sotto la pelle dell’ufficio si era fatto più scuro. Tu lo sentivi. Io lo vedevo. Le pause pranzo si accorciavano. Le chiacchiere si spegnevano quando entravi. Un paio di sguardi non si abbassavano più. Ti sfidavano. Non apertamente. Peggio: passivo-aggressivi, mascherati da cortesia. Una mattina trovasti il tuo nome — il vecchio — cancellato dalla lista di un meeting. Sostituito da una sigla. In un’e-mail ti avevano messo in copia “per cortesia”. Non come referente. Un gesto piccolo, ma dritto. Tornasti alla tua scrivania con le labbra serrate. Ti sedesti. E cominciasti a scrivere. Ma le mani… tremavano appena. Io passai accanto. Non ti guardai. Ma lasciai un post-it sul bordo della tua scrivania. Una parola sola: “Resisti.” Quella sera, a casa, non parlammo subito. Cenammo in silenzio. Poi, nel letto, nudi, ti strinsi forte. “Stanno cercando di farti tornare indietro,” dissi. “Ma non capiscono che… indietro, tu non ci sei più.” Tu annuisti contro il mio petto. “Mi odiano senza sapere perché. Perché non riescono a essere liberi come me. Perché io… non mi nascondo più.” Sorrisi. “E non lo farai mai più, amore mio. Non con loro. Non con nessuno. E se proveranno a farti male… ti troveranno davanti me.” Tu respirasti forte. Poi sussurrasti: “Ti amo. Anche perché non mi chiedi mai di essere meno.”

Era giovedì. Metà mattina. Tu eri alla tua scrivania, composto come sempre, camicia impeccabile, i tuoi tacchi sotto la scrivania — invisibili a tutti, visibilissimi per me. Poi arrivò la mail. Oggetto: “Passa da me appena puoi. Ufficio HR.” Firmato: Dott. Federico Neri Direttore del personale. Educato. Distante. Mi guardasti da lontano. Un secondo appena. Io ti feci un cenno leggerissimo. Come a dire: non sei sola. Entrasti nel suo ufficio alle 11:08. Ne uscisti alle 11:23. Ma quei 15 minuti cambiarono qualcosa. Più tardi, quando restammo sole in archivio, mi raccontasti tutto. La voce calma. Ma piena di tensione. “Sorridente. Distaccato. Preciso. Ha detto che ci sono voci. Che l’ambiente va tutelato. Che alcuni colleghi si sentono… a disagio.” Chiudesti gli occhi. Poi sussurrasti: “Ha detto che il mio ‘comportamento personale’ potrebbe incidere sulla ‘percezione dell’equilibrio interno’.” “E poi?” chiesi. “Poi mi ha chiesto se sto ‘attraversando un momento particolare’. Ha detto che apprezza la mia professionalità… ma che dovrei forse ‘contenere alcune espressioni individuali’.” Rimanemmo in silenzio. Poi io dissi solo: “Hanno paura.” Tu apristi gli occhi. “Paura di cosa?” “Di te. Perché sei più coraggiosa di tutti loro insieme.” Ti baciai piano sulla guancia. E sussurrai: “Ma se proveranno a toglierti spazio… lotteremo. Insieme. Fino all’ultima riga.”

L’aria in ufficio era diventata sottile. Ogni passo misurato. Ogni parola scelta. Ogni sorriso falso più affilato del silenzio. Ma noi andavamo avanti. Un giorno alla volta. La sera, a casa, ti spogliavo con lentezza. Ti liberavo dai gesti forzati. Ti restituivo Elena sotto la pelle. Quel venerdì sera, mentre finivamo di apparecchiare per cena, il citofono suonò. Una voce che non aspettavamo. Ma che conoscevo bene. “Posso salire?” Era mia madre. Tu ti irrigidisti un istante. Poi mi guardasti. “Sa che sono qui?” “Non lo so,” dissi. “Ma se sale adesso… forse è pronta.” Aprii. Quando arrivò sulla soglia, io le aprii la porta. Lei mi guardò. Poi spostò lo sguardo oltre le mie spalle. Ti vide. Tu eri lì, in piedi. Abito semplice ma femminile. Niente trucco pesante. Solo un filo di rossetto. Capelli sciolti sulle spalle. La tua voce non tremò. “Buonasera.” Mia madre si fermò. Ti guardò a lungo. Poi disse: “Posso entrare?” Annuii. La feci accomodare. Ci sedemmo a tavola. Tre posti. Tre piatti. Due donne che la amavano… e una che voleva capire. Lei prese il bicchiere d’acqua. Lo poggiò. E poi ti guardò. “Ho pensato molto a come sarebbe stato questo momento. Ma non pensavo che mi avresti fatto così… meno paura.” Tu non rispondesti. Ma sorridesti piano. Lei inspirò. “Posso parlare con Elena? Solo con lei. Per qualche minuto.” Tu mi guardasti. Io ti feci un cenno lieve. E tu… annuisti.

Evelina si sistemò le mani sul grembo. Guardava il piatto. Poi te. La sua voce uscì calma. Ma tesa. “Mi chiedo… come si fa a vivere così, per tanto tempo, con qualcosa dentro… senza mostrarlo?” Si fermò. Ti guardò dritta. “Come hai fatto?”
“ Vede Evelina. Ho sofferto e anche molto. Ho avuto paura. Tanta. Troppa. Sua figlia Elisa. Ho avuto paura di perderla. Lei ha creduto in me. Mi ama e io amo lei , più di quanto possa immaginare. E' stata sua figlia e rendermi libera. E ora lo sono e siamo felici entrambi.”
Evelina restò in silenzio. Le mani strette, lo sguardo basso. Poi lo alzò. Lentamente. Fissandoti come si guarda qualcosa che non si era mai voluto vedere… ma ora non si può più ignorare. Ti parlò piano. Con voce incrinata. Ma sincera. “Mi avevano detto che era una fase. Che certe cose passano. Che l’amore si trova solo dentro ciò che è normale.” Fece una pausa. Poi aggiunse: “Ma io… non ti ho mai vista parlare così. Così… vera.” Si voltò verso di me, solo un attimo. Poi tornò su di te. “E se ti amo io… posso amare anche te, Elena.” Ti sorrise. Non con sicurezza. Ma con tenerezza vera. “Solo una cosa ti chiedo: continua ad amare mia figlia così. Forte. E libera.” Poi allungò la mano. Ti sfiorò le dita. E disse: “Grazie per non avermi esclusa.”
Mi alzai piano. Mi avvicinai a voi. Vi guardai entrambe. Tu con gli occhi lucidi, Evelina con le mani ancora tese verso di te. Poi dissi, a voce bassa, ma ferma: “Avrei potuto proteggerla per sempre. Tenerti fuori. Mentire. Ma ho scelto di fidarmi. Perché se Elena è la persona che amo, allora meritava di essere vista da chi mi ha insegnato cos’è l’amore.” Guardai mia madre. Poi te. “Siete due donne forti. Una ha cresciuto me. L’altra… mi fa rinascere ogni giorno.” Poi mi chinai. Ti presi il volto tra le mani. E baciai le tue labbra. Senza paura. Davanti a lei. Davanti al mondo. Poi dissi solo: “Adesso siamo in tre. E se c’è ancora qualcosa da capire… lo faremo insieme.” Evelina annuì. Poi si asciugò gli occhi. E sorrise. “Non ho mai avuto una figlia in più. Forse… ora sì.”

P.S.: Grazie per seguire le mie storie e sarei contenta di leggere i vostri commenti o di ricevere un like se vi fosse piaciuta questa. E’ un modo per capire se continuare a scrivere la storia. Accetto suggerimenti con i vostri messaggi in privato.
Di sicuro questa storia avrà risvolti inaspettati.
A presto.
Tanya.

tanya.romano.1966@gmail.com ( per i vostri commenti o suggerimenti )
scritto il
2025-08-18
8 1 8
visite
1 6
voti
valutazione
6.6
il tuo voto

Continua a leggere racconti dello stesso autore

racconto precedente

Insieme... Cap. 3

racconto sucessivo

Insieme... Cap. 5
Segnala abuso in questo racconto erotico

Commenti dei lettori al racconto erotico

cookies policy Per una migliore navigazione questo sito fa uso di cookie propri e di terze parti. Proseguendo la navigazione ne accetti l'utilizzo.