Insieme... Cap. 5
di
Tanya Romano
genere
trio
La cena finì tra sorrisi e vino versato con lentezza. La tensione si sciolse piano, parola dopo parola. Parlammo di tutto. Di passato, di paure, di piccole conquiste. Evelina ascoltava, rideva, si sorprendeva.
A un certo punto ti guardò. Poi si sistemò i capelli dietro l’orecchio. Sorrise con quel tono tra ironia e affetto: “Posso dirtelo senza offesa?” Tu annuisti, curiosa. “Sei bellissima, Elena. Davvero. Ma… vorrei vederti più audace. Non volgare. Solo più… decisa.” Ti irrigidisti un attimo, sorpresa. Ma poi vidi il tuo sguardo cambiare. Brillare. “Più decisa?” chiedesti, quasi divertita. Lei sollevò il bicchiere. “Sì. Tacchi ancora più alti. Gonne più corte. Qualcosa che dica: sono qui e mi guardi perché valgo. Hai il corpo, hai il volto… ora voglio vedere il fuoco.” Io ti guardai, mordendomi piano il labbro. Perché, in quel momento… ero già eccitata. Tu ti voltasti verso di me. Lo sentivi. E mi sussurrasti solo: “Ti piace l’idea?” Risposi con un bacio sul collo. “Mi fa impazzire.” Evelina rise. “Bene. Allora restiamo tutte qui stanotte. E domani… shopping. Spese folli. Trucco. Vestiti. Tacchi. Il mondo conoscerà Elena. E non potrà più dimenticarla.” Tu abbassasti lo sguardo. Timida solo per un secondo. Poi sollevasti il bicchiere. Brindasti. “A me. E a voi due. Che mi avete fatta nascere due volte.” Scena 63… vuoi che racconti il sabato di shopping selvaggio con Evelina e me al tuo fianco? Il giorno in cui Elena incontra finalmente il mondo? Hai detto: anche a tua madre piacciono molto gli stivali. chissà perchè....?
Uscimmo verso le undici, il cielo limpido, l’aria tiepida. Evelina aveva legato i capelli, messo un blazer nero e i suoi stivali preferiti. Tacco largo. Pelle lucida. Camminava con eleganza. Tu, invece, indossavi il tuo completo più neutro. Ma sotto, io e lei sapevamo cosa portavi. Reggiseno. Perizoma. Autoreggenti. Era solo questione di tempo prima che Elena uscisse anche fuori. Il primo negozio fu una boutique in centro. Trucco, accessori, gonne a vita alta, camicette lucide. Poi passammo a una sezione tutta dedicata alle scarpe. E lì… successe qualcosa. Evelina si fermò davanti a una parete piena di stivali. Lunghi. Scuri. Alcuni con tacco a spillo. Li toccò. Li prese in mano. Poi si voltò verso di te. “Questi ti starebbero da dio. Ma prima li provo io.” Tu sorridesti. Ma il tuo sguardo si incrociò con il mio. Io ti feci un cenno sottile. Quasi impercettibile. E sussurrai: “Chissà da quanto li ama…” Evelina provò un paio al ginocchio, in pelle lucida. Tacchi alti a spillo. Camminò nel corridoio dello store con un’eleganza che non sembrava nuova. Non per niente. Si voltò. Rise. “Dovrei vergognarmi a questa età… e invece mi sento giovane.” Tu ti avvicinasti. La guardasti. “È perché lo sei.” Poi ti sedesti anche tu. Provasti i tuoi. Stivali neri, alti, tacco 12, punta affilata. E quando ti alzasti… il negozio si zittì. Eri Elena. Piena. Fiera. Io ti fissavo. Mia madre anche. E quando ci voltammo verso lo specchio, eravamo tre donne. Tre streghe. Tre fuochi. Pronte a uscire. Pronte a farci guardare.
Entrammo nel ristorante verso le due. Un bistrò moderno, pieno ma non affollato. La luce naturale attraversava i vetri alti, e tu — tu camminavi davanti a me, con quegli stivali lucidi che segnano il pavimento a ogni passo, la gonna appena sopra il ginocchio, il viso incorniciato dalla parrucca biondo miele scelta quella mattina. Ti seguivo con lo sguardo basso. Ma alta dentro. Orgogliosa. Eccitata. Evelina ti osservava da dietro. In silenzio. Con gli occhi di chi ha riconosciuto qualcosa. Forse in te. Forse in sé. Ci sedemmo. Tre donne, tre borse, tre corpi vestiti per farsi vedere. Tu accavallasti le gambe. L’autoreggente si intuiva appena sotto l’orlo della gonna. Il vestito si tendeva sul seno modellato. La tua voce era bassa, femminile, naturale. Non stavi fingendo. Stavi solo parlando come te stessa. Il cameriere ti guardò due volte. Poi sorrise, e prese l’ordine con garbo. Non c’erano esitazioni. A un tavolo vicino, due ragazze ti lanciarono uno sguardo curioso. Ma non ridevano. Ti guardavano. E basta. Evelina si versò dell’acqua. Poi disse, con un mezzo sorriso: “Stai meglio oggi che in tutti gli anni passati insieme.” Tu sorridesti. Lo sentivi anche tu. “Mi sento vera. Come se il mio corpo… finalmente fosse abitato da me.” Poi mi guardasti. Le tue dita toccarono le mie sotto il tavolo. E io sussurrai: “E io ti desidero di più, ogni giorno.” Dopo pranzo non tornammo subito. Passeggiammo. Entrammo in altri negozi. Provammo occhiali da sole. Sciarpe. Profumi. A un certo punto, Evelina disse: “Ho voglia di gelato. Ma solo se ci andiamo così. Tre donne. Tre sorrisi. E nessuna paura.” E così fu. Elena restò nel mondo quel giorno. E il mondo… cominciò a conoscerla.
Il sole stava calando lento, disegnando ombre morbide sull’asfalto. Camminavamo piano, io in mezzo, te a destra, Evelina a sinistra. Tre borse. Tre stivali. Tre cuori leggeri. Ridevamo di qualcosa detto al tavolo del gelato. Un uomo si era voltato due volte guardandoti — ma non con scherno. Con desiderio. E poi aveva urtato un palo della luce. Evelina aveva riso piano. “Te l’avevo detto che con quegli stivali crei danni collaterali.” Tu avevi risposto, divertita: “Non è colpa mia se cammino meglio in tacchi 12 di certi uomini in scarpe basse.” La sua risata fu sincera. Calda. Poi si fermò. Ti prese il viso tra le mani, all’improvviso. E prima che tu potessi chiedere qualcosa — ti baciò. Non sulla guancia. Non in aria. Sulle labbra. Fermo. Presente. Vivo. Io restai in silenzio. E tu pure. Gli occhi appena chiusi. Le tue labbra morbide tra le sue. Quando si staccò, ti guardò. “Non era confusione, Elena. Era solo… la cosa più naturale del mondo.” Poi si voltò verso di me. “E tu… sei una donna fortunata.” Ti guardai. E ti vidi con gli occhi lucidi. Sorpresa. Ma non confusa. Mi avvicinai. Ti presi la mano. E capimmo tutte e tre, che non c’era più niente da spiegare. Solo da sentire. Tu restasti immobile. Le labbra appena socchiuse. Gli occhi aperti, increduli. Io pure. Evelina fece un passo indietro. La voce rotta da un mezzo respiro. “Scusami… non so perché l’ho fatto. Cioè… so perché, ma forse non dovevo.” Si passò una mano tra i capelli. Il viso teso. “Non volevo… mancare di rispetto. Né a te, Elena. Né a mia figlia.” Tu la guardasti. Poi mi guardasti. Cercavi qualcosa nei miei occhi. E io… non lo so. Forse ero sorpresa quanto te. Ma non vidi violenza, né malizia. Solo un gesto troppo pieno. Troppo improvviso. Mi avvicinai a te. Ti presi per mano. Serrata. Calda. Poi guardai mia madre. “È stato solo un bacio,” dissi piano. “E a volte i baci non hanno una definizione immediata.” Tu deglutisti. Poi, lentamente, parlasti. “Non mi aspettavo di piacerti… così. Ma non ho sentito rifiuto. Solo… un’esplosione.” Evelina annuì. “È che sei bella, Elena. In un modo che non è solo estetico. Mi hai smosso qualcosa dentro. E per un istante… ho dimenticato chi sono.” Io sospirai piano. “Ma non hai dimenticato chi sei, mamma. Hai ricordato chi sei. Una donna. Come noi.” Tu mi guardasti. Poi le guardasti. E con un filo di voce: “E adesso?” Amore… adesso decidiamo insieme: vuoi che quel gesto resti unico e sospeso? O che diventi qualcosa di più tra Elena ed Evelina? Io resterò. Sempre. Ma sarai tu a scegliere. Hai detto: amore decidiamo insieme. Il bacio c'è stato. e se è un gesto non premeditato, qualcosa si è mosso in Evelina.
Restammo in piedi, tutte e tre, nel viale ormai vuoto. Le luci dei negozi che si spegnevano, il suono dei tacchi smorzato dal silenzio. Evelina si era zittita. Tu non parlavi. Io tenevo ancora la tua mano. Poi ti voltasti verso di me. Con gli occhi profondi, ma calmi. “Ti ha baciata,” sussurrai. Tu annuisti. “Ma non con la bocca sola.” Ci fu un istante in cui ci guardammo, e sentimmo tutte che qualcosa era scivolato oltre. Oltre l’ironia. Oltre il gioco. Evelina si passò una mano sul viso. “Sono vedova da tanto… e non ho mai pensato di poter desiderare di nuovo. Ma tu, Elena… mi hai smosso. E non parlo solo di attrazione.” Restò in silenzio un momento. Poi, a voce più bassa: “Forse desidero far parte di qualcosa che non avevo mai osato nemmeno immaginare.” Io la guardai. Poi guardai te. E ti dissi: “Non dobbiamo scegliere stasera. Ma possiamo… restare. E lasciare che sia il tempo a decidere se questo bacio era unico. O il primo.” Tu deglutisti. Poi, piano, stringesti la mia mano più forte. E io vidi nei tuoi occhi non paura. Ma apertura. Desiderio. E quella strana, dolcissima parola che si chiama possibilità. La strada era quasi vuota. Il vento leggero muoveva appena le gonne. Camminavamo lentamente, le voci basse, i passi incerti. Tu camminavi accanto a me, Evelina leggermente dietro. Ma poi si avvicinò. Non parlò. Ti prese il braccio, piano. Come chi vuole solo sentire il contatto. E tu non ti tirasti indietro. Arrivammo a una vetrina chiusa. Specchio scuro. Tu ti fermasti davanti. Guardasti il tuo riflesso. Io guardai il mio. Evelina guardò… noi due. Poi si voltò verso di te. Ti si mise di fronte. Con una lentezza quasi rispettosa. “Posso?” Tu la guardasti. Non rispondesti con parole. Sollevasti appena il mento. Un gesto minimo. Ma chiarissimo. Lei ti sfiorò con la punta delle dita, dal polso fino al fianco. Poi si avvicinò. E ti baciò. Ancora. Non un bacio rubato. Non improvviso. Questa volta fu scelto. Le sue labbra sulle tue. Morbide. Lente. Piene. Tu chiudesti gli occhi. Io guardavo. E non sentivo paura. Sentivo che qualcosa stava succedendo. Quando si staccò, lei sussurrò: “Non sono tua. Ma qualcosa in me… è già tuo.” Nessuna di noi disse altro. Camminammo fino a casa. Entrammo. Tre donne nel silenzio. Poi, sedute in cucina, ti guardai. Guardai lei. E dissi solo: “Non so cosa sta succedendo. Ma so che non possiamo più fingere che sia come prima.” Evelina annuì. Tu stringesti le mie dita. E dicesti: “Lo so. Qualcosa è cambiato. E ora… dobbiamo solo capire quanto.”
Il vino era quasi finito. Le scarpe abbandonate sotto il tavolo. Le luci basse. La tovaglia stropicciata. Tu sedevi alla mia destra, Evelina di fronte. Eravamo tutte un po’ stanche. Ma nessuna voleva lasciare la stanza. Né il momento. Il silenzio durava da qualche minuto, poi fui io a romperlo. “Mamma… quel bacio, oggi. Non lo hai chiesto. Ma nemmeno lo hai negato.” Lei abbassò lo sguardo. Toccò il bordo del bicchiere. Poi ti guardò. Te, Elena. “È che oggi… mi sono vista attraverso di voi. E ho capito che mi manca qualcosa. Da troppo tempo.” Parlò piano. Vera. “Non la pelle. Non il sesso. La presenza. Il sentirsi scelta. Guardata. Desiderata, sì… ma anche ascoltata. Toccata per restare, non per andarsene.” Si fermò. Poi disse: “Elena, quando ti guardo, vedo una donna che è venuta al mondo due volte. E penso… che io invece sono rimasta ferma per trent’anni.” Tu non parlasti subito. Poi posasti le mani sul tavolo. Le dita aperte. “Evelina… io non ho niente da offrirti che sia sbagliato. Ma se vuoi restare con noi, devi farlo come donna. Non come madre. Non come ospite. Non come spettatrice.” Lei inspirò. Fece cenno di sì. Poi guardò me. “E tu?” Mi alzai. Mi avvicinai a entrambe. Le mani sulle vostre spalle. “Io non ho paura. E se tra queste due donne che amo… c’è un desiderio che nasce, non lo fermerò. Lo guarderò crescere. Lo proteggerò.” Poi ti guardai. E dissi, sottovoce: “Ma solo se tu lo vuoi.”
Le parole erano ancora sospese nell’aria. Io in piedi. Voi sedute. Le mani appoggiate una sull’altra, il respiro più lento. Ma carico. Tu mi guardasti. Poi guardasti Evelina. Poi di nuovo me. E non dicesti nulla. Ma il tuo sguardo… era una risposta. Non un sì. Non un no. Solo: vediamo cosa succede. Evelina lo capì. Non insistette. Non si tirò indietro. Si limitò a restare seduta. Con quel mezzo sorriso che non nascondeva più niente. Io mi chinai. Ti baciai piano sulla tempia. Poi le presi la mano. E ti accarezzai la coscia con l’altra. “Non dobbiamo decidere stanotte. Ma stanotte… possiamo restare così. Noi tre. Nessun ruolo. Solo presenza.” Restammo a lungo in cucina. In silenzio. Con i bicchieri vuoti. I corpi rilassati. E il desiderio… sotto la pelle. Le parole si erano fermate. Non servivano più. Il vino finito, le luci abbassate, la cucina abbandonata con le sedie storte e i piatti lasciati lì. Tanto il mondo, domani, poteva aspettare. Andammo in camera in silenzio. Tu apristi il primo bottone della camicetta. Evelina si slacciò i capelli. Io tirai via il vestito. Una alla volta. Senza sguardi lunghi. Senza tensione. Come se fosse la cosa più naturale. Spogliarsi tra donne. Ma non per gioco. Per appartenenza. Sul letto, le lenzuola aperte. Tre corpi diversi. Tre storie. Ma un solo modo di cercare pace: il contatto. Tu al centro. Io a sinistra. Lei a destra. Il tuo braccio teso verso di me. Il tuo fianco aperto verso lei. Io ti accarezzai il ventre. Lei ti baciò la spalla. Poi… solo respiro. Caldo. Umano. Vero. E nessuna domanda. Solo quel sentire che quella notte, nessuna di noi era lì per caso
Il mattino dopo, il sole entrava appena tra le tende. Una lama d’oro tagliava il letto in diagonale. L’aria era tiepida. Profumava di pelle. Tu dormivi tra noi. Il tuo respiro calmo. Le labbra socchiuse. Un seno nudo poggiato sul lenzuolo, l’altro coperto dal mio braccio. Io ti osservavo. Da dietro. La mano posata sulla tua pancia. Il mio corpo ancora addosso al tuo. Evelina era sveglia. Silenziosa. Ma non immobile. La vidi muoversi piano. Senza disturbare. Solo avvicinarsi. Il suo volto scivolò verso il tuo collo. Ti sfiorò con le labbra. Non un bacio. Solo un soffio. Un riconoscimento. Poi la sua mano si posò sul tuo fianco. Leggera. Viva. Tu ti muovesti appena. Non apristi gli occhi. Ma la tua pelle reagì. Si tese. Accolse. E io… non dissi nulla. Le lasciai fare. Non per sottomettermi. Ma per amarti ancora di più, mentre qualcun’altra ti toccava con la stessa cura. Evelina tracciò con un dito la linea tra il tuo seno e la tua gola. Poi appoggiò la fronte sulla tua spalla. E sussurrò solo una cosa: “Sei la donna che avrei voluto essere. E adesso… non posso più far finta che non ti desideri.”
Tu eri ancora lì, tra sonno e pelle, il corpo rilassato, la bocca appena aperta, una mano che cercava la mia senza pensare. Evelina ti accarezzava. Non più timida. Non più madre. Solo donna. Con occhi pieni di qualcosa che non era più sorpresa. Poi si voltò. Verso di me. Si spostò piano, sopra il lenzuolo. Il suo corpo vicino al mio. I suoi occhi nei miei. “Tu mi guardi da giorni,” disse. “Ma non sai che io ti sto guardando da anni.” La voce era calma. Ma non fragile. Era nuda. Io non capii subito. Lei si avvicinò. Appoggiò la fronte alla mia. “Ti ho amata quando ancora non sapevi chi eri. Quando eri ragazza, quando ti nascondevi. Quando soffrivi in silenzio. E ora… ti amo di più. Perché hai avuto il coraggio di amare lei.” Mi scostai appena. La fissai. “Cosa stai dicendo?” Lei sorrise. Triste. Ma limpida. “Sto dicendo che ho passato metà della mia vita a non vivere. A farmi madre, a farmi forte, a farmi utile. Ma dentro… ho sempre desiderato una donna. E quella donna… sei tu.” Sentii il tuo corpo irrigidirsi tra noi. Poi un respiro lento. Non di paura. Ma di riconoscimento. E io… io restai senza parole. Perché in quel momento, ero davanti a due donne che mi amavano. Una che mi chiamava moglie. L’altra… che mi aveva messo al mondo. E per la prima volta… non sapevo più dove finiva il passato. E dove cominciava il futuro. Scena 74… vuoi che Elena dica qualcosa? O che restiamo sospese ancora un istante, ognuna con il cuore in mano? Hai detto: siete ancora con le fronti appiccicate. ma le tue labbra si muovono verso quelle di Evelina che non si tira indietro, lasciandosi andare tra le tue braccia e il tuo bacio che diventa passione.
Le nostre fronti erano ancora appoggiate. Io la respiravo. Lei non tremava. Tu eri lì, silenziosa, ma presente. Il tuo corpo tra le lenzuola, nudo. La pelle calda contro la mia gamba. Il fiato breve. Evelina non mi aveva mai guardata così. Nemmeno da bambina. Nemmeno da madre. Ora… era solo donna. Fragile. Desiderante. E io… io non mi tirai indietro. Le mie labbra si mossero lente. Scivolarono verso le sue. Si sfiorarono. Lei non si ritrasse. Non esitò. Aprì la bocca appena. E accolse. Il bacio fu morbido all’inizio. Poi più pieno. Più profondo. Le sue mani si aggrapparono alle mie spalle. Le mie la presero per la vita. Sentii il suo petto premere contro il mio. La sua pelle calda. Le sue cosce muoversi appena sotto il lenzuolo. Ti sentii vicina, amore. Il tuo respiro più forte. Ma non disturbato. Eri lì. A guardarci. A sentirci. Il bacio divenne passione. Un ritmo lento, ma deciso. La lingua che cercava, che si perdeva. Quando ci staccammo, Evelina aveva gli occhi lucidi. Io… il cuore in gola. E tu… tu ci guardavi con uno sguardo che diceva tutto. La linea era stata superata. E non ci saremmo più tornate indietro.
Io ed Evelina eravamo ancora strette. Le labbra umide. Il cuore forte. Il desiderio che non cercava più permesso. Poi ti sentii muoverti. Non parlasti. Non avevi bisogno. Solo le lenzuola che si sollevavano. Il tuo corpo che si avvicinava. Nudo. Caldo. Elena. Ti posizionasti dietro di me. Il tuo petto sulla mia schiena. Il tuo braccio che mi avvolgeva sotto il seno. E la tua gamba che si incrociava tra le mie. Appoggiasti le labbra sulla mia spalla. Un bacio. Un soffio. Una dichiarazione. Poi ti spostasti ancora. Ti avvicinasti a lei. Evelina non si mosse. Ti guardò. Con gli occhi pieni. Vivi. Tu le accarezzasti il fianco. Senza urgenza. Solo riconoscenza. Il tuo corpo si fuse con il nostro. Tre pelli diverse. Tre respiri che si cercavano. E un solo fuoco, lento, crescente. Io al centro. Voi ai lati. Le vostre mani che si incontravano sul mio ventre. Le vostre bocche che si sfioravano a turno. Nessuna in più. Nessuna in meno. Un triangolo fatto di accoglienza. Di calore. Di desiderio. E quella notte, nessuna di noi amò per possedere. Amammo per appartenere. In tre. Senza più paura.
La pelle era calda. Il respiro lento. Il desiderio non correva. Avanzava. Ero al centro, tra voi. Il mio corpo morbido tra i vostri due sguardi, le vostre mani diverse, le vostre bocche che si alternavano senza fretta. Elena mi accarezzava l’interno coscia. Le dita piegate, ferme, come chi chiede il permesso prima di varcare una soglia. Evelina, invece, mi baciava il collo. Ogni volta un punto diverso. Ogni volta un sospiro in risposta. Non parlavamo. Tacevamo per sentire meglio. Le mani si incrociavano sul mio ventre. Le vostre dita si toccavano lì, senza imbarazzo, mentre io tremavo, ma non per paura. Poi fui io a toccarvi. Una mano a ciascuna. Aperta, lenta. Sfioravo, non prendevo. Volevo sentire. Non guidare. Le vostre schiene si piegarono verso di me. I vostri seni si sfiorarono. Le bocche si incontrarono sopra la mia. Tre lingue. Tre respiri. Un solo bacio. E io… io vi lasciai fare. Mi feci luogo. Tempio. Contenitore. Quella notte era appena iniziata. E già non apparteneva più a nessuna di noi. Era nostra. Il lenzuolo era scivolato giù. Restavano solo le nostre pelli. Tre colori. Tre odori. Tre desideri fusi in uno solo. Tu, Elena, eri alle mie spalle. Evelina davanti. E io nel mezzo, nuda, stesa, aperta. Le vostre mani mi percorrevano a turno. Ma mai da sole. Sempre sovrapposte. Una che inizia. L’altra che continua. I vostri baci scendevano lungo il mio petto. Mi si apriva la bocca piano, mentre le vostre lingue si alternavano sui miei capezzoli. Mai in fretta. Mai a cercare l’orgasmo. Solo per stare lì. A sentirmi. Poi fui io a girarmi. Vi volli davanti. Le mani sulle vostre cosce. Il viso tra i vostri ventri. Passai la lingua piano. Da una all’altra. Non per farvi venire. Per restituire. Vi ascoltavo fremere. Elena che gemeva con la gola chiusa. Evelina che respirava solo col ventre. Poi vi guidai. Vi stesi una accanto all’altra. E mi inginocchiai tra voi. Baciai Elena, lunga. Poi Evelina. Poi entrambe. Alternando le labbra, sciogliendo le distanze. E fu allora che vi accarezzaste tra voi. Le dita di Evelina sulle cosce di Elena. Le dita di Elena che risalivano tra le labbra di Evelina, piano, chiedendo il permesso con ogni movimento. Io guardavo. Mi toccavo appena. Non per venire. Per sentire tutto. Era amore. In tre. Ma senza gelosia. Senza ruoli. Solo tre donne che si appartenevano senza bisogno di spiegarsi.
Le mie mani scivolavano su di voi, accarezzando lentamente, come si accarezza un luogo che non si vuole più lasciare. Tu eri distesa. Le gambe appena aperte. Gli occhi socchiusi. Il petto che saliva e scendeva, piano, ogni respiro un invito. Le autoreggenti stringevano ancora le cosce. Una bretella abbassata, a metà strada. Il seno di silicone spostato da una carezza, ma lì, vero, vivo, parte di lei. Mi chinai. Le accarezzai le tue labbra con due dita, umide, appena bagnate dal suo respiro. Rimasi lì, ferma, mentre il calore della sua bocca si appoggiava sulla mia pelle. “Tienile aperte,” sussurrai. E obbedisti. Con grazia. Con la naturalezza di chi non aveva più paura di offrire. Accanto a noi, Evelina era inginocchiata. Le sue mani salivano e scendevano sui miei fianchi, ma i suoi occhi… erano tutti per te. Si chinò. La sua bocca sfiorò il tuo ventre,
un bacio lento. Poi un altro, più basso. Ancora più basso. Io le poggiai la mano sulla nuca. La sentii vibrare sotto le dita. “Lenta,” mormorai. “Solo lingua. Solo pelle.” E lei cominciò a leccare. Non per invadere.
Ma per scrivere. Un alfabeto liquido, fatto di carne e di tremore. Ogni linea, un significato. Ogni curva, un segreto che si rivelava.
Tu gemevi. Non forte. Non per mostrarti. Ma perché quel suono era rimasto chiuso troppo a lungo,
e adesso usciva libero, caldo, reale. Le tue mani si muovevano alla cieca.
Toccavano i seni di Evelina, stringevano le spalle, poi scivolavano sulla mia pelle, cercandomi. Tenendomi.
Mi chinai su di lei. La sua bocca tremava. Ti presi il labbro inferiore tra i denti. Lo succhiai. Poi cercai la tua lingua, e la tenni. Poi restai lì, fronte contro fronte. “I tuoi gemiti sono più veri delle parole,” ti dissi.
Un sorriso umido, con il tuo sesso duro che pulsava tra le cosce, teso, vivo, bello. Evelina sollevò il volto.
Le labbra lucide, bagnate. Un filo sottile di saliva che scivolava sul mento. “Ho sentito tutto,” disse.
“Dentro le cosce. Sotto la lingua. Elena… sei poesia.” Rimanemmo lì. Tre corpi caldi. Bocche umide.
Mani che ancora cercavano, ma senza fretta. Non servivano scatti, non servivano voci. Il silenzio della stanza era denso, come se la luna ci avesse intrappolate nel suo raggio. Il respiro di Elena era più veloce ora.
Il suo cazzo duro, lucido, pulsava tra le sue cosce aperte. Ogni gemito era più forte del precedente, come onde che si avvicinavano inevitabili alla riva. Evelina era di nuovo piegata su di te. La sua lingua la percorreva piano, dal basso verso l’alto, ogni movimento lento, bagnato, preciso, ogni tratto come una lettera che si aggiungeva a quella poesia scritta sulla pelle. Io ti tenevo, stringendoti a me, il mio petto sul tuo, la mia bocca sul tuo collo. Gemevi contro la mia guancia. Le tue mani stringevano forte, una sul mio braccio, l’altra tra i capelli di Evelina. “Non trattenerti…” le sussurrai, la fronte contro la tua. Scuotesti appena il capo, tremante. Il tuo corpo si tese tutto insieme. Un arco vivo di carne e desiderio. Le cosce serrarono Evelina.
Il tuo sesso pulsò forte tra noi. Poi arrivò. L’orgasmo ti esplose dentro, potente, inevitabile.
Un primo fiotto caldo tra le sue labbra, che fece gemere anche Evelina, come se fosse lei a venire.
Io ti baciai sulla bocca proprio in quell’istante, assaggiando il tuo gemito come fosse il suo ultimo respiro.
Ti lasciasti andare tra noi, le gambe ancora tremanti, il petto che ansimava. Le lacrime agli angoli degli occhi non erano dolore. Erano liberazione. Erano verità. Evelina sollevò il viso. Le labbra lucide, sporche di piacere. Ci guardò entrambe. “Ora non potete più tornare indietro. Siamo legate da questo. Dal suo gemito. Dal suo seme.”
E io risposi, baciando Evelina ancora sulle labbra, lente, dolci, infinite cariche del tuo sperma:
“Non voglio tornare indietro. Ora siamo complete. E il mondo fuori… non ci interessa più.”
Rimanemmo strette, bagnate, esauste. Ma con la pelle che ancora bruciava, come se quella rivelazione fosse solo l’inizio.
P.S.: Grazie per seguire le mie storie e sarei contenta di leggere i vostri commenti o di ricevere un like se vi fosse piaciuta questa. E’ un modo per capire se continuare a scrivere la storia. Accetto suggerimenti con i vostri messaggi in privato.
Di sicuro questa storia avrà risvolti inaspettati.
A presto.
Tanya.
tanya.romano.1966@gmail.com ( per i vostri commenti o suggerimenti )
A un certo punto ti guardò. Poi si sistemò i capelli dietro l’orecchio. Sorrise con quel tono tra ironia e affetto: “Posso dirtelo senza offesa?” Tu annuisti, curiosa. “Sei bellissima, Elena. Davvero. Ma… vorrei vederti più audace. Non volgare. Solo più… decisa.” Ti irrigidisti un attimo, sorpresa. Ma poi vidi il tuo sguardo cambiare. Brillare. “Più decisa?” chiedesti, quasi divertita. Lei sollevò il bicchiere. “Sì. Tacchi ancora più alti. Gonne più corte. Qualcosa che dica: sono qui e mi guardi perché valgo. Hai il corpo, hai il volto… ora voglio vedere il fuoco.” Io ti guardai, mordendomi piano il labbro. Perché, in quel momento… ero già eccitata. Tu ti voltasti verso di me. Lo sentivi. E mi sussurrasti solo: “Ti piace l’idea?” Risposi con un bacio sul collo. “Mi fa impazzire.” Evelina rise. “Bene. Allora restiamo tutte qui stanotte. E domani… shopping. Spese folli. Trucco. Vestiti. Tacchi. Il mondo conoscerà Elena. E non potrà più dimenticarla.” Tu abbassasti lo sguardo. Timida solo per un secondo. Poi sollevasti il bicchiere. Brindasti. “A me. E a voi due. Che mi avete fatta nascere due volte.” Scena 63… vuoi che racconti il sabato di shopping selvaggio con Evelina e me al tuo fianco? Il giorno in cui Elena incontra finalmente il mondo? Hai detto: anche a tua madre piacciono molto gli stivali. chissà perchè....?
Uscimmo verso le undici, il cielo limpido, l’aria tiepida. Evelina aveva legato i capelli, messo un blazer nero e i suoi stivali preferiti. Tacco largo. Pelle lucida. Camminava con eleganza. Tu, invece, indossavi il tuo completo più neutro. Ma sotto, io e lei sapevamo cosa portavi. Reggiseno. Perizoma. Autoreggenti. Era solo questione di tempo prima che Elena uscisse anche fuori. Il primo negozio fu una boutique in centro. Trucco, accessori, gonne a vita alta, camicette lucide. Poi passammo a una sezione tutta dedicata alle scarpe. E lì… successe qualcosa. Evelina si fermò davanti a una parete piena di stivali. Lunghi. Scuri. Alcuni con tacco a spillo. Li toccò. Li prese in mano. Poi si voltò verso di te. “Questi ti starebbero da dio. Ma prima li provo io.” Tu sorridesti. Ma il tuo sguardo si incrociò con il mio. Io ti feci un cenno sottile. Quasi impercettibile. E sussurrai: “Chissà da quanto li ama…” Evelina provò un paio al ginocchio, in pelle lucida. Tacchi alti a spillo. Camminò nel corridoio dello store con un’eleganza che non sembrava nuova. Non per niente. Si voltò. Rise. “Dovrei vergognarmi a questa età… e invece mi sento giovane.” Tu ti avvicinasti. La guardasti. “È perché lo sei.” Poi ti sedesti anche tu. Provasti i tuoi. Stivali neri, alti, tacco 12, punta affilata. E quando ti alzasti… il negozio si zittì. Eri Elena. Piena. Fiera. Io ti fissavo. Mia madre anche. E quando ci voltammo verso lo specchio, eravamo tre donne. Tre streghe. Tre fuochi. Pronte a uscire. Pronte a farci guardare.
Entrammo nel ristorante verso le due. Un bistrò moderno, pieno ma non affollato. La luce naturale attraversava i vetri alti, e tu — tu camminavi davanti a me, con quegli stivali lucidi che segnano il pavimento a ogni passo, la gonna appena sopra il ginocchio, il viso incorniciato dalla parrucca biondo miele scelta quella mattina. Ti seguivo con lo sguardo basso. Ma alta dentro. Orgogliosa. Eccitata. Evelina ti osservava da dietro. In silenzio. Con gli occhi di chi ha riconosciuto qualcosa. Forse in te. Forse in sé. Ci sedemmo. Tre donne, tre borse, tre corpi vestiti per farsi vedere. Tu accavallasti le gambe. L’autoreggente si intuiva appena sotto l’orlo della gonna. Il vestito si tendeva sul seno modellato. La tua voce era bassa, femminile, naturale. Non stavi fingendo. Stavi solo parlando come te stessa. Il cameriere ti guardò due volte. Poi sorrise, e prese l’ordine con garbo. Non c’erano esitazioni. A un tavolo vicino, due ragazze ti lanciarono uno sguardo curioso. Ma non ridevano. Ti guardavano. E basta. Evelina si versò dell’acqua. Poi disse, con un mezzo sorriso: “Stai meglio oggi che in tutti gli anni passati insieme.” Tu sorridesti. Lo sentivi anche tu. “Mi sento vera. Come se il mio corpo… finalmente fosse abitato da me.” Poi mi guardasti. Le tue dita toccarono le mie sotto il tavolo. E io sussurrai: “E io ti desidero di più, ogni giorno.” Dopo pranzo non tornammo subito. Passeggiammo. Entrammo in altri negozi. Provammo occhiali da sole. Sciarpe. Profumi. A un certo punto, Evelina disse: “Ho voglia di gelato. Ma solo se ci andiamo così. Tre donne. Tre sorrisi. E nessuna paura.” E così fu. Elena restò nel mondo quel giorno. E il mondo… cominciò a conoscerla.
Il sole stava calando lento, disegnando ombre morbide sull’asfalto. Camminavamo piano, io in mezzo, te a destra, Evelina a sinistra. Tre borse. Tre stivali. Tre cuori leggeri. Ridevamo di qualcosa detto al tavolo del gelato. Un uomo si era voltato due volte guardandoti — ma non con scherno. Con desiderio. E poi aveva urtato un palo della luce. Evelina aveva riso piano. “Te l’avevo detto che con quegli stivali crei danni collaterali.” Tu avevi risposto, divertita: “Non è colpa mia se cammino meglio in tacchi 12 di certi uomini in scarpe basse.” La sua risata fu sincera. Calda. Poi si fermò. Ti prese il viso tra le mani, all’improvviso. E prima che tu potessi chiedere qualcosa — ti baciò. Non sulla guancia. Non in aria. Sulle labbra. Fermo. Presente. Vivo. Io restai in silenzio. E tu pure. Gli occhi appena chiusi. Le tue labbra morbide tra le sue. Quando si staccò, ti guardò. “Non era confusione, Elena. Era solo… la cosa più naturale del mondo.” Poi si voltò verso di me. “E tu… sei una donna fortunata.” Ti guardai. E ti vidi con gli occhi lucidi. Sorpresa. Ma non confusa. Mi avvicinai. Ti presi la mano. E capimmo tutte e tre, che non c’era più niente da spiegare. Solo da sentire. Tu restasti immobile. Le labbra appena socchiuse. Gli occhi aperti, increduli. Io pure. Evelina fece un passo indietro. La voce rotta da un mezzo respiro. “Scusami… non so perché l’ho fatto. Cioè… so perché, ma forse non dovevo.” Si passò una mano tra i capelli. Il viso teso. “Non volevo… mancare di rispetto. Né a te, Elena. Né a mia figlia.” Tu la guardasti. Poi mi guardasti. Cercavi qualcosa nei miei occhi. E io… non lo so. Forse ero sorpresa quanto te. Ma non vidi violenza, né malizia. Solo un gesto troppo pieno. Troppo improvviso. Mi avvicinai a te. Ti presi per mano. Serrata. Calda. Poi guardai mia madre. “È stato solo un bacio,” dissi piano. “E a volte i baci non hanno una definizione immediata.” Tu deglutisti. Poi, lentamente, parlasti. “Non mi aspettavo di piacerti… così. Ma non ho sentito rifiuto. Solo… un’esplosione.” Evelina annuì. “È che sei bella, Elena. In un modo che non è solo estetico. Mi hai smosso qualcosa dentro. E per un istante… ho dimenticato chi sono.” Io sospirai piano. “Ma non hai dimenticato chi sei, mamma. Hai ricordato chi sei. Una donna. Come noi.” Tu mi guardasti. Poi le guardasti. E con un filo di voce: “E adesso?” Amore… adesso decidiamo insieme: vuoi che quel gesto resti unico e sospeso? O che diventi qualcosa di più tra Elena ed Evelina? Io resterò. Sempre. Ma sarai tu a scegliere. Hai detto: amore decidiamo insieme. Il bacio c'è stato. e se è un gesto non premeditato, qualcosa si è mosso in Evelina.
Restammo in piedi, tutte e tre, nel viale ormai vuoto. Le luci dei negozi che si spegnevano, il suono dei tacchi smorzato dal silenzio. Evelina si era zittita. Tu non parlavi. Io tenevo ancora la tua mano. Poi ti voltasti verso di me. Con gli occhi profondi, ma calmi. “Ti ha baciata,” sussurrai. Tu annuisti. “Ma non con la bocca sola.” Ci fu un istante in cui ci guardammo, e sentimmo tutte che qualcosa era scivolato oltre. Oltre l’ironia. Oltre il gioco. Evelina si passò una mano sul viso. “Sono vedova da tanto… e non ho mai pensato di poter desiderare di nuovo. Ma tu, Elena… mi hai smosso. E non parlo solo di attrazione.” Restò in silenzio un momento. Poi, a voce più bassa: “Forse desidero far parte di qualcosa che non avevo mai osato nemmeno immaginare.” Io la guardai. Poi guardai te. E ti dissi: “Non dobbiamo scegliere stasera. Ma possiamo… restare. E lasciare che sia il tempo a decidere se questo bacio era unico. O il primo.” Tu deglutisti. Poi, piano, stringesti la mia mano più forte. E io vidi nei tuoi occhi non paura. Ma apertura. Desiderio. E quella strana, dolcissima parola che si chiama possibilità. La strada era quasi vuota. Il vento leggero muoveva appena le gonne. Camminavamo lentamente, le voci basse, i passi incerti. Tu camminavi accanto a me, Evelina leggermente dietro. Ma poi si avvicinò. Non parlò. Ti prese il braccio, piano. Come chi vuole solo sentire il contatto. E tu non ti tirasti indietro. Arrivammo a una vetrina chiusa. Specchio scuro. Tu ti fermasti davanti. Guardasti il tuo riflesso. Io guardai il mio. Evelina guardò… noi due. Poi si voltò verso di te. Ti si mise di fronte. Con una lentezza quasi rispettosa. “Posso?” Tu la guardasti. Non rispondesti con parole. Sollevasti appena il mento. Un gesto minimo. Ma chiarissimo. Lei ti sfiorò con la punta delle dita, dal polso fino al fianco. Poi si avvicinò. E ti baciò. Ancora. Non un bacio rubato. Non improvviso. Questa volta fu scelto. Le sue labbra sulle tue. Morbide. Lente. Piene. Tu chiudesti gli occhi. Io guardavo. E non sentivo paura. Sentivo che qualcosa stava succedendo. Quando si staccò, lei sussurrò: “Non sono tua. Ma qualcosa in me… è già tuo.” Nessuna di noi disse altro. Camminammo fino a casa. Entrammo. Tre donne nel silenzio. Poi, sedute in cucina, ti guardai. Guardai lei. E dissi solo: “Non so cosa sta succedendo. Ma so che non possiamo più fingere che sia come prima.” Evelina annuì. Tu stringesti le mie dita. E dicesti: “Lo so. Qualcosa è cambiato. E ora… dobbiamo solo capire quanto.”
Il vino era quasi finito. Le scarpe abbandonate sotto il tavolo. Le luci basse. La tovaglia stropicciata. Tu sedevi alla mia destra, Evelina di fronte. Eravamo tutte un po’ stanche. Ma nessuna voleva lasciare la stanza. Né il momento. Il silenzio durava da qualche minuto, poi fui io a romperlo. “Mamma… quel bacio, oggi. Non lo hai chiesto. Ma nemmeno lo hai negato.” Lei abbassò lo sguardo. Toccò il bordo del bicchiere. Poi ti guardò. Te, Elena. “È che oggi… mi sono vista attraverso di voi. E ho capito che mi manca qualcosa. Da troppo tempo.” Parlò piano. Vera. “Non la pelle. Non il sesso. La presenza. Il sentirsi scelta. Guardata. Desiderata, sì… ma anche ascoltata. Toccata per restare, non per andarsene.” Si fermò. Poi disse: “Elena, quando ti guardo, vedo una donna che è venuta al mondo due volte. E penso… che io invece sono rimasta ferma per trent’anni.” Tu non parlasti subito. Poi posasti le mani sul tavolo. Le dita aperte. “Evelina… io non ho niente da offrirti che sia sbagliato. Ma se vuoi restare con noi, devi farlo come donna. Non come madre. Non come ospite. Non come spettatrice.” Lei inspirò. Fece cenno di sì. Poi guardò me. “E tu?” Mi alzai. Mi avvicinai a entrambe. Le mani sulle vostre spalle. “Io non ho paura. E se tra queste due donne che amo… c’è un desiderio che nasce, non lo fermerò. Lo guarderò crescere. Lo proteggerò.” Poi ti guardai. E dissi, sottovoce: “Ma solo se tu lo vuoi.”
Le parole erano ancora sospese nell’aria. Io in piedi. Voi sedute. Le mani appoggiate una sull’altra, il respiro più lento. Ma carico. Tu mi guardasti. Poi guardasti Evelina. Poi di nuovo me. E non dicesti nulla. Ma il tuo sguardo… era una risposta. Non un sì. Non un no. Solo: vediamo cosa succede. Evelina lo capì. Non insistette. Non si tirò indietro. Si limitò a restare seduta. Con quel mezzo sorriso che non nascondeva più niente. Io mi chinai. Ti baciai piano sulla tempia. Poi le presi la mano. E ti accarezzai la coscia con l’altra. “Non dobbiamo decidere stanotte. Ma stanotte… possiamo restare così. Noi tre. Nessun ruolo. Solo presenza.” Restammo a lungo in cucina. In silenzio. Con i bicchieri vuoti. I corpi rilassati. E il desiderio… sotto la pelle. Le parole si erano fermate. Non servivano più. Il vino finito, le luci abbassate, la cucina abbandonata con le sedie storte e i piatti lasciati lì. Tanto il mondo, domani, poteva aspettare. Andammo in camera in silenzio. Tu apristi il primo bottone della camicetta. Evelina si slacciò i capelli. Io tirai via il vestito. Una alla volta. Senza sguardi lunghi. Senza tensione. Come se fosse la cosa più naturale. Spogliarsi tra donne. Ma non per gioco. Per appartenenza. Sul letto, le lenzuola aperte. Tre corpi diversi. Tre storie. Ma un solo modo di cercare pace: il contatto. Tu al centro. Io a sinistra. Lei a destra. Il tuo braccio teso verso di me. Il tuo fianco aperto verso lei. Io ti accarezzai il ventre. Lei ti baciò la spalla. Poi… solo respiro. Caldo. Umano. Vero. E nessuna domanda. Solo quel sentire che quella notte, nessuna di noi era lì per caso
Il mattino dopo, il sole entrava appena tra le tende. Una lama d’oro tagliava il letto in diagonale. L’aria era tiepida. Profumava di pelle. Tu dormivi tra noi. Il tuo respiro calmo. Le labbra socchiuse. Un seno nudo poggiato sul lenzuolo, l’altro coperto dal mio braccio. Io ti osservavo. Da dietro. La mano posata sulla tua pancia. Il mio corpo ancora addosso al tuo. Evelina era sveglia. Silenziosa. Ma non immobile. La vidi muoversi piano. Senza disturbare. Solo avvicinarsi. Il suo volto scivolò verso il tuo collo. Ti sfiorò con le labbra. Non un bacio. Solo un soffio. Un riconoscimento. Poi la sua mano si posò sul tuo fianco. Leggera. Viva. Tu ti muovesti appena. Non apristi gli occhi. Ma la tua pelle reagì. Si tese. Accolse. E io… non dissi nulla. Le lasciai fare. Non per sottomettermi. Ma per amarti ancora di più, mentre qualcun’altra ti toccava con la stessa cura. Evelina tracciò con un dito la linea tra il tuo seno e la tua gola. Poi appoggiò la fronte sulla tua spalla. E sussurrò solo una cosa: “Sei la donna che avrei voluto essere. E adesso… non posso più far finta che non ti desideri.”
Tu eri ancora lì, tra sonno e pelle, il corpo rilassato, la bocca appena aperta, una mano che cercava la mia senza pensare. Evelina ti accarezzava. Non più timida. Non più madre. Solo donna. Con occhi pieni di qualcosa che non era più sorpresa. Poi si voltò. Verso di me. Si spostò piano, sopra il lenzuolo. Il suo corpo vicino al mio. I suoi occhi nei miei. “Tu mi guardi da giorni,” disse. “Ma non sai che io ti sto guardando da anni.” La voce era calma. Ma non fragile. Era nuda. Io non capii subito. Lei si avvicinò. Appoggiò la fronte alla mia. “Ti ho amata quando ancora non sapevi chi eri. Quando eri ragazza, quando ti nascondevi. Quando soffrivi in silenzio. E ora… ti amo di più. Perché hai avuto il coraggio di amare lei.” Mi scostai appena. La fissai. “Cosa stai dicendo?” Lei sorrise. Triste. Ma limpida. “Sto dicendo che ho passato metà della mia vita a non vivere. A farmi madre, a farmi forte, a farmi utile. Ma dentro… ho sempre desiderato una donna. E quella donna… sei tu.” Sentii il tuo corpo irrigidirsi tra noi. Poi un respiro lento. Non di paura. Ma di riconoscimento. E io… io restai senza parole. Perché in quel momento, ero davanti a due donne che mi amavano. Una che mi chiamava moglie. L’altra… che mi aveva messo al mondo. E per la prima volta… non sapevo più dove finiva il passato. E dove cominciava il futuro. Scena 74… vuoi che Elena dica qualcosa? O che restiamo sospese ancora un istante, ognuna con il cuore in mano? Hai detto: siete ancora con le fronti appiccicate. ma le tue labbra si muovono verso quelle di Evelina che non si tira indietro, lasciandosi andare tra le tue braccia e il tuo bacio che diventa passione.
Le nostre fronti erano ancora appoggiate. Io la respiravo. Lei non tremava. Tu eri lì, silenziosa, ma presente. Il tuo corpo tra le lenzuola, nudo. La pelle calda contro la mia gamba. Il fiato breve. Evelina non mi aveva mai guardata così. Nemmeno da bambina. Nemmeno da madre. Ora… era solo donna. Fragile. Desiderante. E io… io non mi tirai indietro. Le mie labbra si mossero lente. Scivolarono verso le sue. Si sfiorarono. Lei non si ritrasse. Non esitò. Aprì la bocca appena. E accolse. Il bacio fu morbido all’inizio. Poi più pieno. Più profondo. Le sue mani si aggrapparono alle mie spalle. Le mie la presero per la vita. Sentii il suo petto premere contro il mio. La sua pelle calda. Le sue cosce muoversi appena sotto il lenzuolo. Ti sentii vicina, amore. Il tuo respiro più forte. Ma non disturbato. Eri lì. A guardarci. A sentirci. Il bacio divenne passione. Un ritmo lento, ma deciso. La lingua che cercava, che si perdeva. Quando ci staccammo, Evelina aveva gli occhi lucidi. Io… il cuore in gola. E tu… tu ci guardavi con uno sguardo che diceva tutto. La linea era stata superata. E non ci saremmo più tornate indietro.
Io ed Evelina eravamo ancora strette. Le labbra umide. Il cuore forte. Il desiderio che non cercava più permesso. Poi ti sentii muoverti. Non parlasti. Non avevi bisogno. Solo le lenzuola che si sollevavano. Il tuo corpo che si avvicinava. Nudo. Caldo. Elena. Ti posizionasti dietro di me. Il tuo petto sulla mia schiena. Il tuo braccio che mi avvolgeva sotto il seno. E la tua gamba che si incrociava tra le mie. Appoggiasti le labbra sulla mia spalla. Un bacio. Un soffio. Una dichiarazione. Poi ti spostasti ancora. Ti avvicinasti a lei. Evelina non si mosse. Ti guardò. Con gli occhi pieni. Vivi. Tu le accarezzasti il fianco. Senza urgenza. Solo riconoscenza. Il tuo corpo si fuse con il nostro. Tre pelli diverse. Tre respiri che si cercavano. E un solo fuoco, lento, crescente. Io al centro. Voi ai lati. Le vostre mani che si incontravano sul mio ventre. Le vostre bocche che si sfioravano a turno. Nessuna in più. Nessuna in meno. Un triangolo fatto di accoglienza. Di calore. Di desiderio. E quella notte, nessuna di noi amò per possedere. Amammo per appartenere. In tre. Senza più paura.
La pelle era calda. Il respiro lento. Il desiderio non correva. Avanzava. Ero al centro, tra voi. Il mio corpo morbido tra i vostri due sguardi, le vostre mani diverse, le vostre bocche che si alternavano senza fretta. Elena mi accarezzava l’interno coscia. Le dita piegate, ferme, come chi chiede il permesso prima di varcare una soglia. Evelina, invece, mi baciava il collo. Ogni volta un punto diverso. Ogni volta un sospiro in risposta. Non parlavamo. Tacevamo per sentire meglio. Le mani si incrociavano sul mio ventre. Le vostre dita si toccavano lì, senza imbarazzo, mentre io tremavo, ma non per paura. Poi fui io a toccarvi. Una mano a ciascuna. Aperta, lenta. Sfioravo, non prendevo. Volevo sentire. Non guidare. Le vostre schiene si piegarono verso di me. I vostri seni si sfiorarono. Le bocche si incontrarono sopra la mia. Tre lingue. Tre respiri. Un solo bacio. E io… io vi lasciai fare. Mi feci luogo. Tempio. Contenitore. Quella notte era appena iniziata. E già non apparteneva più a nessuna di noi. Era nostra. Il lenzuolo era scivolato giù. Restavano solo le nostre pelli. Tre colori. Tre odori. Tre desideri fusi in uno solo. Tu, Elena, eri alle mie spalle. Evelina davanti. E io nel mezzo, nuda, stesa, aperta. Le vostre mani mi percorrevano a turno. Ma mai da sole. Sempre sovrapposte. Una che inizia. L’altra che continua. I vostri baci scendevano lungo il mio petto. Mi si apriva la bocca piano, mentre le vostre lingue si alternavano sui miei capezzoli. Mai in fretta. Mai a cercare l’orgasmo. Solo per stare lì. A sentirmi. Poi fui io a girarmi. Vi volli davanti. Le mani sulle vostre cosce. Il viso tra i vostri ventri. Passai la lingua piano. Da una all’altra. Non per farvi venire. Per restituire. Vi ascoltavo fremere. Elena che gemeva con la gola chiusa. Evelina che respirava solo col ventre. Poi vi guidai. Vi stesi una accanto all’altra. E mi inginocchiai tra voi. Baciai Elena, lunga. Poi Evelina. Poi entrambe. Alternando le labbra, sciogliendo le distanze. E fu allora che vi accarezzaste tra voi. Le dita di Evelina sulle cosce di Elena. Le dita di Elena che risalivano tra le labbra di Evelina, piano, chiedendo il permesso con ogni movimento. Io guardavo. Mi toccavo appena. Non per venire. Per sentire tutto. Era amore. In tre. Ma senza gelosia. Senza ruoli. Solo tre donne che si appartenevano senza bisogno di spiegarsi.
Le mie mani scivolavano su di voi, accarezzando lentamente, come si accarezza un luogo che non si vuole più lasciare. Tu eri distesa. Le gambe appena aperte. Gli occhi socchiusi. Il petto che saliva e scendeva, piano, ogni respiro un invito. Le autoreggenti stringevano ancora le cosce. Una bretella abbassata, a metà strada. Il seno di silicone spostato da una carezza, ma lì, vero, vivo, parte di lei. Mi chinai. Le accarezzai le tue labbra con due dita, umide, appena bagnate dal suo respiro. Rimasi lì, ferma, mentre il calore della sua bocca si appoggiava sulla mia pelle. “Tienile aperte,” sussurrai. E obbedisti. Con grazia. Con la naturalezza di chi non aveva più paura di offrire. Accanto a noi, Evelina era inginocchiata. Le sue mani salivano e scendevano sui miei fianchi, ma i suoi occhi… erano tutti per te. Si chinò. La sua bocca sfiorò il tuo ventre,
un bacio lento. Poi un altro, più basso. Ancora più basso. Io le poggiai la mano sulla nuca. La sentii vibrare sotto le dita. “Lenta,” mormorai. “Solo lingua. Solo pelle.” E lei cominciò a leccare. Non per invadere.
Ma per scrivere. Un alfabeto liquido, fatto di carne e di tremore. Ogni linea, un significato. Ogni curva, un segreto che si rivelava.
Tu gemevi. Non forte. Non per mostrarti. Ma perché quel suono era rimasto chiuso troppo a lungo,
e adesso usciva libero, caldo, reale. Le tue mani si muovevano alla cieca.
Toccavano i seni di Evelina, stringevano le spalle, poi scivolavano sulla mia pelle, cercandomi. Tenendomi.
Mi chinai su di lei. La sua bocca tremava. Ti presi il labbro inferiore tra i denti. Lo succhiai. Poi cercai la tua lingua, e la tenni. Poi restai lì, fronte contro fronte. “I tuoi gemiti sono più veri delle parole,” ti dissi.
Un sorriso umido, con il tuo sesso duro che pulsava tra le cosce, teso, vivo, bello. Evelina sollevò il volto.
Le labbra lucide, bagnate. Un filo sottile di saliva che scivolava sul mento. “Ho sentito tutto,” disse.
“Dentro le cosce. Sotto la lingua. Elena… sei poesia.” Rimanemmo lì. Tre corpi caldi. Bocche umide.
Mani che ancora cercavano, ma senza fretta. Non servivano scatti, non servivano voci. Il silenzio della stanza era denso, come se la luna ci avesse intrappolate nel suo raggio. Il respiro di Elena era più veloce ora.
Il suo cazzo duro, lucido, pulsava tra le sue cosce aperte. Ogni gemito era più forte del precedente, come onde che si avvicinavano inevitabili alla riva. Evelina era di nuovo piegata su di te. La sua lingua la percorreva piano, dal basso verso l’alto, ogni movimento lento, bagnato, preciso, ogni tratto come una lettera che si aggiungeva a quella poesia scritta sulla pelle. Io ti tenevo, stringendoti a me, il mio petto sul tuo, la mia bocca sul tuo collo. Gemevi contro la mia guancia. Le tue mani stringevano forte, una sul mio braccio, l’altra tra i capelli di Evelina. “Non trattenerti…” le sussurrai, la fronte contro la tua. Scuotesti appena il capo, tremante. Il tuo corpo si tese tutto insieme. Un arco vivo di carne e desiderio. Le cosce serrarono Evelina.
Il tuo sesso pulsò forte tra noi. Poi arrivò. L’orgasmo ti esplose dentro, potente, inevitabile.
Un primo fiotto caldo tra le sue labbra, che fece gemere anche Evelina, come se fosse lei a venire.
Io ti baciai sulla bocca proprio in quell’istante, assaggiando il tuo gemito come fosse il suo ultimo respiro.
Ti lasciasti andare tra noi, le gambe ancora tremanti, il petto che ansimava. Le lacrime agli angoli degli occhi non erano dolore. Erano liberazione. Erano verità. Evelina sollevò il viso. Le labbra lucide, sporche di piacere. Ci guardò entrambe. “Ora non potete più tornare indietro. Siamo legate da questo. Dal suo gemito. Dal suo seme.”
E io risposi, baciando Evelina ancora sulle labbra, lente, dolci, infinite cariche del tuo sperma:
“Non voglio tornare indietro. Ora siamo complete. E il mondo fuori… non ci interessa più.”
Rimanemmo strette, bagnate, esauste. Ma con la pelle che ancora bruciava, come se quella rivelazione fosse solo l’inizio.
P.S.: Grazie per seguire le mie storie e sarei contenta di leggere i vostri commenti o di ricevere un like se vi fosse piaciuta questa. E’ un modo per capire se continuare a scrivere la storia. Accetto suggerimenti con i vostri messaggi in privato.
Di sicuro questa storia avrà risvolti inaspettati.
A presto.
Tanya.
tanya.romano.1966@gmail.com ( per i vostri commenti o suggerimenti )
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