Insieme... Cap. 8

di
genere
trio

La chiave nella porta. Il rumore basso. Il silenzio nella casa. Ma non vuoto. Venni in camera. E vi vidi. Tu, Elena, sul letto con lei. Il corpo ancora lucido. Il sesso molle, riposato, tra le cosce divaricate. Il collare ancora al collo. Sei tra le gambe di Evelina. Lei è sdraiata accanto a te. Le cosce nude. Il respiro calmo. Una mano nei tuoi capelli. Ti tiene. Come si tiene una cosa preziosa. Alzai lo sguardo. Lei mi vide. Sorrise appena. “È pronta,” dice. “Ha obbedito. Ha servito. Ha goduto. E ora la amo.” Tu sollevasti gli occhi verso di me. Non parlasti. Ma io lessi tutto. Prendimi anche tu. Mi avvicinai. Mi inginocchiai davanti a te. Ti presi il viso tra le mani. Ti baciai. Forte. A lungo. Il tuo sapore era ancora il suo. Poi guardai mia madre. “Posso?” Lei annuì. “Adesso sì. E’ anche tua.” E allora ti sdraiai piano. Ti aprii le gambe. Ti leccai lentamente. Mentre Evelina ti tenne il viso tra le mani. Il tuo sesso fin dentro la mia gola aveva ripreso vita. Ansimasti. Io affamata di te, non mi fermai. Leccai, ingoiai, succhiai come se non ci fosse stato un domani. Più ti sentivo tra le mie labbra e più avevo voglia di te. Le mie dita trovarono il tuo buco, dietro. Entrai senza ritengo. Ti scopai con le dita mentre le mie labbra si muovevano lungo il tuo sesso. Ansimavi. Ti contorcevi. Evelina ti baciò profonda. I tuoi gemiti soffocati nella sua gola. Poi arrivò potente. Fiotti caldi densi infiniti. Li trattenni senza ingoiare. Mi staccai. Mi avvicinai a te con la mia bocca piena. La aprii. Ti feci vedere quanta ne avevo e poi la ingoiai con lussuria. Mamma si staccò dalle tua lebbra e mi baciò come se voleva impossessarsi dell’ultimo residuo di te. E tu… di nuovo tutta nostra.
Eravamo a tavola. Tu in vestaglia, le gambe nude sotto. Io con una camicia sbottonata. Evelina in nero. Bellissima. Perfettamente a suo agio. Avevamo riso. Parlato di nulla. Assaggiato. Bevuto. Poi lei posò la forchetta. Si pulì la bocca. Si appoggiò allo schienale. E disse: “Elena. Ora sei mia. Nostra. E sei bellissima. Ma io ti vedo ogni giorno… più donna. Più completa. Più viva nel corpo che senti.” Ti guardò negli occhi. “È il momento di pensare alla tua trasformazione. Non per negare ciò che sei. Ma per accoglierti del tutto.” Tu deglutisti. Io non parlai. Ma ti presi la mano. Evelina continuò. “Ma voglio proporti un percorso. Ormoni leggeri. Cura del seno. Modulazione del tono. Allenamento mirato. Fino a farti… guardare e vedere ciò che già sei.” Fece una pausa. “E io ti guiderò. Ogni passo. Ogni giorno. Ogni cambiamento.” Poi aggiunse, più piano: “Voglio che il tuo cazzo sia solo tuo… ma anche mio e di mia figlia. Fino a quando sarai tu a decidere se tenerlo o lasciarlo andare.” Restò zitta. Ti lasciò lo spazio. E tu, Elena… eri lì. Con il cuore che batteva più forte. Con le labbra socchiuse. E una scelta davanti.
Il silenzio era spesso. Il vino fermo nel calice. Evelina ti fissava. Io tenevo la tua mano. Tu, Elena, ti alzasti lentamente dalla sedia. Senza teatralità. Solo presenza. La vestaglia si aprì leggermente. Il tuo corpo nudo sotto. Il collare ancora al collo. Parlasti con voce bassa. Ma piena. “Signora. Io voglio trasformarmi. Nel modo in cui mi muovo. Nel modo in cui vivo. Nel modo in cui il mio corpo… mi rappresenta.” Facesti un passo. La guardasti dritta. “Ma il mio sesso resterà. Ma voglio un seno. Vero. Desidero essere più femminile. Anche con i ritocchi al viso.” Evelina non si mosse. Ti lasciò parlare. “Ma il mio sesso resterà per voi. Per il vostro piacere. Perché amo darvelo. Perché amo vedervi goderlo.” Poi mi guardasti. Mi sorridesti. “E perché, quando sono dentro di voi… mi sento più donna che mai.” Evelina si alzò. Ti si avvicinò. Ti prese il viso tra le mani. “Sarà tuo. Ma sarà nostro strumento. E quando non lo userai… sarai comunque perfetta.” Poi mi guardò. “E tu?” Io risposi senza pensare: “La voglio così. Come ci fa tremare.”
Dopo la tua risposta, Elena, Evelina non ti abbracciò. Non ti baciò. Non disse “brava”. Si voltò. Camminò fino alla camera. Aprì il cassetto più alto. Tornò con una scatola piatta, grigia. E una boccetta chiusa con etichetta scritta a mano. La appoggiò sul tavolo. Poi si sedette. Ti fece un cenno. “Inginocchiati.” Tu obbedisti. Il pavimento freddo sotto le ginocchia nude. Il cazzo ancora rilassato. Ma il cuore… acceso. Lei parlò piano: “Da oggi, cominceremo fuori il lavoro sul corpo. Ma dentro… è già iniziato. E io guiderò ogni parte.” Aprì la scatola. Dentro, una protesi da indossare in silicone. Curve, naturali, aderenti. “Ogni mattina le indosserai. Per abituarti al peso. Alla forma. Allo sguardo che ti meriti.” Poi prese la boccetta. La agitò. “E ogni sera, userai quest’olio. Massaggi il ventre, i fianchi, il petto. Con lentezza. Con intenzione.” Ti accarezzò la guancia. “Non stiamo creando qualcosa. Stiamo rivelando ciò che già esiste.” Poi si voltò verso di me. “E tu la guarderai. Ogni giorno. E le ricorderai cosa sta diventando.” Io mi alzai. Le presi la mano. Mi inginocchiai accanto a te, Elena. E dissi solo: “Siamo pronte.”
La stanza era calda. Le candele accese. Il letto rifatto. Tu eri in piedi. Nuda. Con la pelle pulita, il profumo appena steso. Io seduta di fronte a te. Le protesi appoggiate sul cuscino. Morbide. Delicate. Già tiepide per il calore della stanza. “Alza le braccia,” ti dissi. E lo facesti. Presi la protesi e ti aiutai a indossarla. La forma combaciava perfettamente. “Respira,” sussurrai. Feci un passo indietro. Ti guardai. “Sei bellissima.” Tu abbassasti lo sguardo. Poi lo rialzasti. “Mi sento… vera.” Ti abbracciai. Poggiasti la testa sulla mia spalla. Le protesi premevano lievi tra noi. Ma non erano finzione. Erano presenza. Poi sentimmo Evelina bussare piano. Entrò. “Domattina alle dieci abbiamo il primo appuntamento.” Ci guardammo. “Endocrinologa. Specialista trans-friendly. Nessuna pressione. Solo ascolto, analisi, piano.” Poi aggiunse: “Se lo desideri… a seguire ci sarà anche la consulenza per il primo intervento estetico. Niente di irreversibile. Solo opzioni. Tempi. Possibilità.” Ti avvicinasti a lei. Le prendesti le mani. “Portatemi, voglio essere ciò che sono.” dicesti. E io, alle tue spalle, ti baciai il collo. “Siamo già in cammino.”
Ti svegliammo insieme. Io prima. Poi Evelina. Niente ordini. Niente gesti forzati. Solo un bacio sul collo. Solo la tua voce che sussurrava: “È oggi.” Il vapore della doccia. L’intimo scelto da Evelina. Un filo di trucco leggero. I seni disegnati sotto la camicetta. Nel taxi non parlammo molto. Ma le mani si intrecciavano. La tua tra la mia. La mia tra quella di Evelina. All’arrivo, lo studio era chiaro. Accogliente. La dottoressa aveva occhi caldi. Ti fece accomodare. Ti ascoltò a lungo. Nessun giudizio. Solo spazio. Parlasti con calma. Con grazia. Con parole piene. E io ti guardavo. Fiera. Fiera come non mai. Quando uscimmo, avevi il foglio in mano. Non una condanna. Una mappa. Il tuo sguardo era lucido. Ma non per paura. Perché adesso tutto era reale. Evelina ti abbracciò fuori dallo studio. Forte. Con il mento tra i tuoi capelli. Poi disse: “Adesso sei libera anche nel corpo. E noi ci prenderemo cura di ogni passaggio.” Tu annuisti. Poi mi guardasti. “Non ho mai avuto così tanto amore tutto insieme.” Io risposi con un bacio. Semplice. Fermo. E meritato
La casa era silenziosa. Evelina era uscita. Ci aveva lasciate il tè caldo sul comodino. Una carezza sulla guancia. E uno sguardo che diceva: ora siete voi due. Ti sdraiaste sul letto. Io ti raggiunsi. Vestite solo di pelle. La luce era bassa. L’aria profumava ancora di talco e vaniglia. Ti voltasti verso di me. Gli occhi lucidi. Ma il respiro calmo. Non parlasti. Posasti la testa sulla mia spalla. E le tue dita cercarono le mie. Ti accarezzai il petto, passando lentamente sulle protesi. Le sfiorai con rispetto. Con desiderio. Con dolcezza. “Sono vere,” ti dissi. Tu annuisti. “Sono mie.” Ti baciai piano. Sulle labbra. Sulle palpebre. Sul collo. Poi scesi. Sulla pancia. Sulle cosce. Tra le gambe. E ti presi in bocca. Lenta. Calma. Come chi non ha fretta. Come chi ha solo una cosa da dire: ti amo così. Gonfiavi tra le mie labbra. Ti aprivi. Respiravi. Le mani nei miei capelli. I fianchi che si muovevano lievi. Non fu fame. Fu adorazione. E quando venisti, con un sussurro del mio nome tra i denti, il tuo seme scaldò la mia lingua. Ma non scappò. Rimase con me. Ti guardai. “Adesso sì,” dissi. “Ora sei davvero tutta tua. E io… sono tutta tua.”
Il lenzuolo era umido. I nostri corpi appiccicati. Il respiro lento. La pelle morbida. Il silenzio profondo. Ma non vuoto. Ti voltasti verso di me. La fronte contro la mia. Il tuo cazzo riposava tra le cosce. I seni finti tra noi, come se ci fossero sempre stati. Parlasti piano. “Ho paura solo di una cosa.” Ti accarezzai il fianco. “Sì?” “Che un giorno tutto questo… non basti più.” Non risposi subito. Ti baciai la bocca. Con calma. Poi sussurrai: “L’unica cosa che può finire è ciò che non si nutre. E noi ci nutriamo ogni giorno.” Appoggiasti la testa sul mio petto. La tua voce era bassa. “Voglio che tu mi resti vicina anche quando diventerò qualcos’altro.” Ti strinsi forte. “Non diventerai qualcosa. Diventerai di più.” Poi aggiunsi: “E io voglio esserci. Quando camminerai a testa alta. Quando metterai la prima gonna cucita su misura. Quando ti guarderai e dirai: ‘È lei.’” Chiudesti gli occhi. “Evelina… ci guiderà.” “Sì,” dissi. “Ma io… io ti porterò il caffè ogni mattina. E ogni sera ti leccherò via i dubbi dalla pelle.” Sorridesti. E ci addormentammo così. Con l’idea che domani non fa paura. Perché domani è nostro
La porta si aprì piano. Evelina entrò in silenzio. Lasciò la borsa all’ingresso. Si tolse il cappotto. Poi venne in camera. Ci trovò così. Nude. Avvolte una nell’altra. I corpi caldi. I capelli sparsi sul cuscino. Ci osservò un attimo. Poi si avvicinò. Si sedette sul bordo del letto. La sua mano sulle nostre gambe. “Non voglio spezzare questo momento,” disse. “Ma ho una cosa da proporvi. Da proporle.” Tu ti sollevasti appena. Ancora con gli occhi pesanti di sonno. “Signora?” La tua voce era lenta. Ma curiosa. Evelina sorrise. “C’è un atelier, in centro. Fanno abiti su misura. Inclusivi. Accolgono chi ha scelto di esistere fuori dalle gabbie. Stanno cercando una persona con gusto, presenza, sensibilità… e voglia di ricominciare.” Fece una pausa. “Ho fatto il tuo nome.” Tu spalancasti gli occhi. “Io?” “Sì. Non solo per come cammini sui tacchi. Ma per come sei diventata vera. E perché il mondo là fuori… deve vederti. E imparare da te.” Io ti presi la mano. Ti strinsi forte. E tu, dopo un lungo silenzio… dicesti solo: “Portatemi.”

Ti svegliammo presto. La luce era morbida. Il caffè già versato. Il vestito, steso sul letto. Evelina lo aveva scelto con cura: tubino color cipria, aderente ma elegante. Autoreggenti in microrete. Stivali in pelle beige. Trucco tenue. Parrucca corta, con frangia leggera. Ti vestimmo insieme. Io chiusi la zip. Evelina ti mise il rossetto. Poi il profumo. Una sola goccia tra i seni finti. Quando ti guardasti allo specchio… restasti in silenzio. Poi dicesti: “Sono pronta.” Il tragitto fu lento. Ogni passo più dritto del precedente. Ogni respiro più tuo. L’atelier era in una traversa elegante. Vetrine pulite. Manichini non perfetti, ma veri. Entrammo insieme. Ti precedetti di pochi centimetri. Evelina restò dietro. La responsabile ti vide. Si alzò. Ti sorrise. “Elena?” Tu annuisti. Voce ferma. “Sì. Sono io.” Ci fu un istante di silenzio. Poi ti porse la mano. “Benvenuta. Ti stavamo aspettando.”
Ti fecero accomodare in un salottino luminoso. Specchi, piante, silenzio. Una poltrona morbida sotto di te. Le gambe incrociate. Il tacco che si muoveva piano, come a segnare il ritmo. La responsabile, Marta, aveva mani sottili e uno sguardo dritto. Né freddo né pietoso. Solo attento. “Mi hanno parlato molto di te,” disse. Tu sorridesti. “Spero cose vere.” Lei rise piano. “Solo una mi ha colpita: che sai farti vedere… senza mai chiedere spazio.” E tu, con calma: “Perché non voglio occupare. Voglio appartenere.” Il colloquio durò mezz’ora. Parlasti di gusto. Di tessuti. Di persone. Di corpo. E di come ogni abito debba far sentire qualcuno nella propria pelle. Non dissero nulla subito. Ti salutarono con un sorriso. Un cenno. Quando uscimmo, Evelina ti attese fuori. Io ti presi sottobraccio. “Com’è andata?” chiesi. Tu respirasti piano. Poi sorridesti. “Non so se mi prenderanno. Ma… per un attimo sono stata felice.”
Il vino era versato. Le luci basse. La radio accesa a volume lento. Eri seduta sul divano. Le gambe raccolte. Il viso ancora truccato, ma con l’aria di chi ha finalmente respirato tutto il giorno. Io ti accarezzavo i piedi, le dita lente sul bordo degli autoreggenti. Ogni gesto un modo per dirti: sei bellissima anche così, stanca. Evelina arrivò in silenzio. Il telefono ancora acceso. Ci guardò. Poi parlò: “È appena arrivata la mail.” Ti voltasti. Ti sollevasti. “Siediti,” disse. Lo facesti. Il cuore in gola. Io mi avvicinai. Evelina aprì il messaggio. Leggeva: “Elena ha lasciato un’impronta delicata, sicura, presente. La vogliamo con noi. Può iniziare lunedì, se lo desidera. La squadra l’aspetta.” Ti copristi la bocca con la mano. Gli occhi lucidi. Il respiro fermo. Evelina ti guardò. Poi si avvicinò. Ti prese il viso. Ti baciò sulle labbra, una volta. Poi sussurrò: “Hai trovato il tuo nome nel mondo.” Io ti presi la mano. E dissi solo: “Benvenuta, collega di vita.”
La casa era buia, illuminata solo da due candele. Una sul tavolo. Una sul comodino. Il vestito cipria era piegato sul letto. Tu, Elena, eri in camicia da notte trasparente. Sotto, solo pelle. E qualcosa negli occhi. Un bagliore nuovo. Io e Evelina ci avvicinammo a te. Una a destra. Una a sinistra. Nessuna parola. Cominciammo a toccarti. Io dalle spalle. Lei dalle cosce. Le dita lente. I polpastrelli che scorrevano sulla tua pelle liscia, calda. Ti stendemmo piano. Sul divano. I capelli sparsi sul cuscino. Le gambe aperte. Le mani rilassate. Io mi chinai e ti baciai il seno, mentre Evelina si spogliava, nuda e sicura, come ogni volta che si prende ciò che le appartiene. Si sdraiò tra le tue gambe. Ti aprì con la bocca. Ti leccò lenta. Io baciavo la tua bocca. E tu… gemiti bassi, mani tremanti, occhi pieni. Poi ci invertimmo. Io ti presi il cazzo in bocca, mentre Evelina ti baciava il ventre, sussurrando solo: “Questa è la donna che sei.” Venisti tra le mie labbra. Ti bagnasti tra le sue mani. Ci abbracciasti entrambe. E mentre ci stringevamo nude, tu ridesti. A voce piena. Come una donna che non ha più da chiedere permesso a nulla.

Eri uscita per una passeggiata. Volevi stare un po’ da sola. Digerire l’emozione di tutto. Io rimasi in cucina. Evelina era sul balcone. Una tazza di tè tra le mani. Il profilo limpido nella luce del tramonto. Mi avvicinai in silenzio. Lei non si voltò subito. Poi disse: “Ti fa paura?” “Cosa?” chiesi. “Costruire qualcosa che non ha un nome.” Mi sedetti accanto a lei. Scostai i capelli dal viso. Respirai piano. “No. Mi fa paura sbagliarlo.” Evelina annuì. Poi si voltò verso di me. “Lei ti ama,” disse. “Ti ascolta. Ti segue. Ma tu… sai reggerla?” Abbassai lo sguardo. “Sto imparando. Ogni giorno. A non proteggerla troppo. A non volerla trattenere. Non le ho impedito di amare anche te. ” Evelina mi fissò a lungo. “Tu sei il suo equilibrio. Io… sono il suo fuoco.” Sorrisi appena. “Sei il suo fuoco, mamma. Ma ti ama. Lo stesso amore che prova per me, lo prova per te.” “E insieme la teniamo viva.” Ci fu silenzio. Poi aggiunsi: “Pensi che dureremo?” Lei si alzò. Appoggiò la tazza. Mi mise una mano sul viso. “Se sapremo parlare. Toccarci quando fa paura. E restare… anche quando non capiamo tutto.” Fece una pausa. Poi più piano: “E se un giorno lei avrà bisogno solo di te, o solo di me… dovremo saperla lasciare libera. Anche da noi.” Ci guardammo. Occhi negli occhi. Poi dissi: “Ma io la voglio con noi. Sempre.” E lei rispose: “Allora prepariamole un mondo dove restare sarà una scelta. Non un bisogno.”

Evelina rientrò in salotto. Io chiusi la porta del balcone. Ci sedemmo l’una accanto all’altra. Sul divano dove ti stringiamo ogni notte. Dove ti abbiamo presa, amata, costruita. Lei parlò per prima. “Non avevo previsto nulla di questo,” disse. “Non ho cresciuto mia figlia pensando che un giorno l’avrei amata anche così. Nel corpo. Nel desiderio.” Abbassò lo sguardo. “Eppure… non riesco a non volerla accanto.” Io ascoltai. Poi dissi piano: “Credi che la stiamo confondendo?” Evelina scosse la testa. “No. La stiamo vedendo. Cosa che il mondo non ha mai fatto.” Poi si voltò verso di me. “Ma c’è una cosa che dobbiamo chiederci, e senza mentire: Chi saremmo se lei un giorno sparisse?” Restai in silenzio. Il nodo in gola. Poi dissi: “Due donne che si sono amate… perché amavano la stessa donna.” Evelina annuì. “Esatto. E forse, se sapremo tenerci anche in quel rischio… allora non saremo solo una fantasia. Ma una casa.” Poi mi prese la mano. Me la strinse piano. “Ti rispetto. E ti amo, anche se non come amo lei. Ma se tu un giorno soffrissi per questa cosa… me lo diresti?” Annuii. “Sì. E se tu lo facessi… ti ascolterei.” Ci fu silenzio. Poi un sorriso lento. Poi un bacio. Lungo. Vero. Senza tensione. E in quel momento, capimmo che per tenerti, Elena, dovevamo prima tenerci tra noi.

Il silenzio che sembrava tenerci sospese. Poi parlai. La voce ferma. Ma sottile. “Posso chiederti una cosa, Mamma?” Lei si voltò. Attenta. Presente. “Dimmi.” Abbassai lo sguardo un istante. Poi lo rialzai. “Hai paura che possa avere anche rapporti con uomini?” Non fu una provocazione. Fu una necessità. Lei non rispose subito. Inspirò piano. Poi annuì. “Un po’, sì.” Non c’era rabbia. Solo sincerità. “Non per gelosia. Non per possesso. Ma per quella parte di lei che non posso prevedere. Che non posso proteggere.” Poi mi fissò. “Tu no?” Sorrisi triste. “Forse ho meno paura… ma solo perché ho già capito che non possiamo impedirle di scoprirsi completamente.” Ci fu una pausa lunga. Evelina si accarezzò i polsi. Poi aggiunse: “Se un giorno vorrà sentire quel contatto, quella energia diversa… non potremo impedirglielo. Potremo solo esserci. O allontanarci.” Io la guardai. “E tu… ci saresti?” Evelina annuì. “Se lui non le toglierà ciò che siamo, ma le darà solo un’esperienza da portare qui, allora sì. Resterò.” Poi aggiunse piano: “Ma se mai dovessi sentirti messa da parte, se io dovessi… allora me lo dirai subito.” La presi per la mano. “Lo prometto. Per lei. E per noi.” E fu lì, in quel momento, che capimmo di nuovo perché la amiamo: perché ci obbliga a non fingere nulla.


La porta si aprì piano. Il rumore leggero dei tuoi tacchi sull’ingresso. Le chiavi sul mobile. Poi il tuo passo rallentò. Sentisti il silenzio. Un silenzio che aveva parlato molto. Ci trovasti così. Io ed Evelina. Sul divano. Vicine. Le dita intrecciate. La testa dell’una sulla spalla dell’altra. Ti fermasti. Ci guardasti. Nessuna parola. Ma nei tuoi occhi… una domanda chiara: “Di cosa avete parlato?” Ci fu un momento sospeso. Poi mi alzai piano. Ti raggiunsi. “Di te.” Evelina si alzò anche lei. Ti venne dietro. Ti accarezzò le spalle. “Del nostro futuro. E della tua libertà.” Tu restasti in silenzio. Poi parlasti. “E adesso? Cosa devo sapere?” La guardammo. Poi Evelina disse: “Che non abbiamo paura di perderti. Ma abbiamo imparato ad accettare che, se ti ameremo davvero, dovremo lasciarti essere tutta intera. Anche quando non capiamo tutto. Anche se un giorno… ti sentirai attratta da qualcosa che non è solo noi.” Tu ci fissasti. Un istante. Poi sorridesti piano. “Non voglio altro. Voglio solo essere qui. Con voi. Così.” E allora ti stringemmo. E per la prima volta, sentimmo che il futuro… lo stavamo scrivendo tutte e tre insieme.

Il grande giorno arrivò. La casa era ancora buia quando suonò la sveglia. Non serviva. Non dormivamo davvero. Tu eri già sveglia, Elena. Distesa tra noi. Con il respiro teso, ma lo sguardo calmo. Mi voltai verso di te. Ti accarezzai il viso. Evelina ti baciò la spalla. Nessuna di noi parlò. Non serviva. Ti vestimmo insieme. Tuta morbida. Niente trucco. Solo il tuo volto, nudo e forte. Ti accompagnammo in ospedale. Io ti tenevo la mano. Evelina parlava con l’anestesista. Tutto era organizzato. Scelto. Pulito. Ti portarono dentro. Luce bianca. Lenzuola fredde. Il cuore che batteva. Poco prima che ti addormentassero, noi due ti stringemmo le mani. E io ti sussurrai: “Quando ti sveglierai, il tuo corpo ti somiglierà di più.” Evelina aggiunse: “E noi saremo qui. Ad aspettarti. Come sempre.”

La stanza era bianca. Luce filtrata dalla tenda. Il suono ovattato dei passi fuori. Il profumo lieve di garze e disinfettante. Apristi gli occhi lentamente. Le ciglia pesanti. Il corpo immobile. Il respiro calmo. Poi sentisti le mani. Le nostre. Una nella tua destra. Una nella sinistra. Ti girasti appena. Io ti sorrisi. Evelina si chinò su di te. “Stai bene,” disse piano. “È andata come doveva.” Tu non parlasti. Guardasti in basso, verso il petto fasciato. Non vedevi nulla. Ma lo sentivi. Un peso. Un calore. Una presenza nuova. Che non ti cambiava. Ti completava. Chiudesti gli occhi un istante. Le labbra tremarono. Poi, con voce bassa: “Ce l’ho fatta?” Io ti baciai la fronte. “Ce l’hai fatta da quando hai deciso di esserlo. Oggi l’hai solo scritto sulla pelle.” Evelina ti strinse la mano più forte. “Benvenuta, amore mio. Adesso il mondo… dovrà cominciare a guardarti davvero.” Tu annuisti. Una lacrima scese. Silenziosa. E libera.

Era il terzo giorno. La stanza dell’ospedale era tranquilla. Il medico ti aveva appena tolto le fasce. I seni erano ancora delicati. La pelle chiara. I punti nascosti. Ma il segno… era lì. Ti aiutammo ad alzarti. Io ti presi il braccio sinistro. Evelina, quello destro. Scivolammo lente verso lo specchio grande, vicino alla finestra. Tu indossavi solo una vestaglia aperta. Nulla sotto. Nulla da nascondere. Quando ti fermasti davanti al vetro, per un attimo non respirasti. Le labbra socchiuse. Gli occhi pieni. Guardavi il tuo petto. La forma. La simmetria. La tenerezza nuova. Poi parlasti. Quasi un sussurro: “Adesso… mi riconosco.” Evelina si mise dietro di te. Ti baciò la spalla. Io mi inginocchiai accanto, ti presi la mano. “Non sei diversa,” dissi. “Sei solo… più visibile.” Tu non piangesti. Ma gli occhi si velarono. Non di tristezza. Di verità. Poi ti voltasti verso di noi. “Adesso posso cominciare.” E lo sapevamo. Quel momento… non era la fine di un percorso. Era l’inizio vero di chi stavi diventando da sempre.

P.S.: Grazie per seguire le mie storie e sarei contenta di leggere i vostri commenti o di ricevere un like se vi fosse piaciuta questa. E’ un modo per capire se continuare a scrivere la storia. Accetto suggerimenti con i vostri messaggi in privato.

A presto.
Tanya.

tanya.romano.1966@gmail.com ( per i vostri commenti o suggerimenti )

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scritto il
2025-08-28
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