Insieme... Cap. 3
di
Tanya Romano
genere
trans
I giorni scorrevano lenti e precisi, come gesti che imparano a ripetersi. Ogni mattina, dopo il caffè, ti portavo un perizoma diverso. Ne avevamo scelti insieme: neri, avorio, con pizzo o invisibili. Tu non dicevi mai “quale oggi?” Aspettavi che fossi io a decidere. E io lo facevo con un piacere che era anche eccitazione. Ti aiutavo a vestirti piano. Ti infilavo l’elastico sulle cosce. Sistemavo le cuciture. Poi ti guardavo allontanarti verso l’ufficio, camminando come sempre. Ma io sapevo. Sapevo cosa avevi sotto. E quel piccolo segreto nostro mi accendeva la pelle per tutto il giorno. La sera, invece, era tutta nostra. Trucco leggero. Collant. Maglie lunghe. Pelle liscia sotto le mani. Ogni gesto era un modo per dire: sei mia. Ma soprattutto, sei tua. Poi arrivò quel sabato. Le parrucche scelte insieme online erano arrivate. Due. Una castano scuro, morbida, con onde larghe. L’altra bionda miele, taglio medio, un po’ spettinata. Le appoggiai sul letto. Tu eri già truccato. Già vestito. Io ti guardavo. “Sei pronta?” ti chiesi. E non usai il maschile. Perché lì, davanti a me, non c’era più nulla da correggere. Annuisti. Ti sedetti. Poggiai la prima parrucca sulle dita. La scossi appena. Poi te la infilai piano, con le mani che ti sfioravano la fronte, le tempie. Quando ti guardai… rimasi ferma. Senza parole. Il trucco, i collant, il perizoma scelto quella mattina… tutto si era fuso. Ma ora, con quei capelli… eri compiuta. Intera. Donna. Tu ti alzasti. Ti guardasti allo specchio. E mi dicesti solo: “E ora?” Mi avvicinai. Ti presi il viso tra le mani. Ti baciai sulla guancia. E poi, sussurrandolo all’orecchio, ti diedi il tuo nome. Quello che mi era nato in gola da giorni. Quello che ti stava bene sulla pelle, sulla voce, sugli occhi. “Elena.” Tu chiudesti gli occhi. E sorridesti. Un sorriso pieno. Perfetto. “Va bene,” dicesti. “Da oggi… sono Elena. Con te.”
Da quella sera in cui ti chiamai Elena, nulla tornò indietro. Nemmeno un passo. Nemmeno un gesto. Non era più gioco, né prova. Era realtà. E con quella realtà, cominciarono a cambiare anche i miei desideri. Le mie richieste. La mia fame di te. Una sera, mentre ti vestivi, cercasti un paio di collant nuovi. Li avevamo appena comprati. Lucidi, a compressione leggera, perfetti per le tue gambe già splendide. Ma io ti fermai. Ti guardai da dietro, con voce bassa e ferma. “No. Non più collant. Da oggi… solo autoreggenti. O reggicalze.” Ti voltasti lentamente. Con sorpresa, ma anche con piacere negli occhi. “Perché?” me lo chiedesti come chi già sa la risposta. “Perché voglio che ogni volta che ti scopro… tu sia un dettaglio. Una rivelazione. Una promessa tenuta.” Sorridesti. Poi apristi il cassetto. Tirasti fuori un paio di autoreggenti nere, con bordo in pizzo. Le infilasti con maestria. Una gamba, poi l’altra. Le mani ferme. I gesti sicuri. Ti guardai in piedi, nuda a metà, come una tela lasciata intenzionalmente incompleta. Perfetta per il mio sguardo. E poi fu la volta dei tacchi. Non più 10. Da giorni, ormai, ti vedevo muoverti con una naturalezza che superava la mia. Il tacco non ti sosteneva: ti esaltava. “Dodici,” ti dissi. “Solo dodici, da ora in poi. Perché tu non sei semplicemente bella. Tu sei vertigine.” Quella sera scegliesti gli stivali. Neri, lucidi. Tacco alto, punta stretta. Ti fermasti davanti allo specchio. Io mi sedetti sul letto, a guardarti. “Gli stivali ti rendono più sensuale,” dissi. “Sono come una cornice che ti stringe. Che ti tiene. Che ti offre a me.” Tu non rispondesti. Facesti solo tre passi in avanti, poi ti voltasti. E lì, in piedi davanti a me, c’era Elena. Intera. Ma non più timida. E il nostro guardaroba… cominciò a cambiare. Non con fretta. Ma con precisione. Una gruccia per le tue camicie. Un cassetto per le mie mutandine… e per le tue. Reggiseni con coppa. Giarrettiere. Gonne. Profumi. Tutto scelto insieme. Tutto pensato per farti esistere. Per farti splendere.
Era un giovedì sera. La settimana correva veloce, ma io contavo i giorni. E da tre avevo nascosto un pacchetto in fondo all’armadio. Avevo scelto ogni cosa senza chiederti nulla. Perché volevo dirtelo con i gesti: ti conosco, e so cosa ti farà sentire bellissima. Appena rientrammo, ti dissi soltanto: “Stasera non ti cambi da sola.” Tu mi guardasti con quel sorriso che avevi solo quando eri Elena. Non sorpresa. Solo viva. Ti portai in camera. Tirai fuori la scatola. Piccola, nera, chiusa da un nastro sottile. Te la misi tra le mani. “Aprila.” Lo facesti lentamente. Dentro, un completo di pizzo nero. Reggiseno a balconcino, trasparente, con piccoli ricami rossi lungo il bordo. Mutandina a V, taglio profondo, sottile dietro. Una cintura reggicalze abbinata, con quattro nastri satinati. E un paio di autoreggenti in tulle fine, con bordo alto in velluto. Sotto tutto, un bigliettino scritto a mano. “Perché ogni parte di te merita bellezza. E io voglio vederla nascere davanti a me.” Rimasi ferma mentre lo leggevi. Poi sollevasti lo sguardo. “È per me?” “Sì, Elena. È tutto per te. E adesso… voglio vestirti io.” Ti sfilai con lentezza la maglia lunga. La tua pelle nuda era pronta. Liscia, già parte di quel rituale. Iniziai dal reggiseno. Ti sistemai le spalline. Lo chiusi dietro. Le mie dita scorrevano lungo la tua schiena come seta. Poi le mutandine. Le alzai piano, con le mani sulle tue cosce. Mi fermai solo un istante, per guardarti. Per assaporare il modo in cui ti lasciavi fare. La cintura. L’allacciai con cura intorno ai fianchi. Stretta. Ma non troppo. Il giusto per farti sentire contenuta. Valorizzata. Infine, le autoreggenti. Una gamba per volta. Le srotolai piano, con i pollici che accarezzavano l’interno delle tue ginocchia. Le fissai ai nastri. Tirai appena, controllando la tensione. Perfette. Feci un passo indietro. E ti guardai. Eri ferma. Dritta. Elegante. Accesa. E io dissi solo: “Sei la mia visione. Ogni dettaglio che ho scelto… ora ha un senso solo perché lo indossi tu.” Tu non parlasti. Mi venisti solo incontro. Mi prendesti le mani. E me le poggiasti sul tuo corpo. Come a dire: adesso tocca a te… tenermi così.
Restavi lì, davanti a me. Con il completo che avevo scelto. Con la pelle appena cerata. Con lo sguardo fermo. Donna. Desiderabile. Mia. Io mi avvicinai piano. Senza fretta. Volevo ricordare ogni dettaglio: il bordo del reggicalze che ti segnava i fianchi, la trasparenza sottile sul seno, la curva morbida delle autoreggenti che ti avvolgevano le gambe. Ti poggiai le mani addosso. Una alla volta. Aperte. Lente. Cominciai dai fianchi. Li strinsi piano, seguendo la forma della cintura. Sentivo la stoffa, ma anche il calore sotto. Sentivo te. Poi salii lungo la schiena. Fino alle spalle. Sfiorai le bretelle. Le sistemai, anche se non c’era nulla da aggiustare. Tu non dicevi nulla. Respiravi. Lasciavi fare. Poi posai una mano sul tuo petto. Sopra il reggiseno. Il cuore batteva forte. Non per timidezza. Per emozione. Mi avvicinai ancora. Con la bocca vicina all’orecchio ti sussurrai: “Non ho bisogno che ti spogli. Voglio solo toccarti così. Vestita per me. Nata per te.” Poi ti baciai. Sulla mandibola. Sul collo. Sul punto esatto dove il pizzo finiva e cominciava la pelle. Tu chiudesti gli occhi. Appoggiasti le mani sulle mie. E il tempo si fermò. Non per il desiderio. Per la devozione. Ti stavo toccando come si tocca qualcosa che si è aspettato per tutta la vita. Non per spingerlo. Ma per ringraziarlo. E tu… tu restavi lì, immobile, fiera. A farti amare.
Il tuo riflesso intero Era domenica. La casa tranquilla, luci basse, le tende mosse appena dal vento. Tu stavi per entrare in bagno. Io ti fermai. Ti presi la mano. “Ho qualcosa per te,” dissi. La voce era calma. Ma dentro… avevo il cuore pieno. Tu mi guardasti, sorpresa. Sorridesti, ma non parlavi. Ti guidai in camera. Aprii l’armadio. Tirai fuori una scatola bianca. Semplice. Morbida. Leggera. Te la misi tra le mani. “Aprila.” Lo facesti piano. Dentro, una protesi di seno in silicone, color carne chiara, sagomata. Naturale. Discreta. Perfetta per il tuo corpo. Per quello che sei. Per come ti voglio. Tu restasti ferma. Le guardasti per un lungo istante. Poi mi alzasti lo sguardo. “Le hai scelte tu?” Annuii. “Non grandi. Non finte. Solo giuste. Perché io voglio che tu sia come me. Perché voglio vederti donna. Da cima a fondo. Senza più niente da immaginare.” Tu non rispondesti. Mi porgesti le protesi. Le mani tremavano appena. Io le presi. Ti feci sedere e ti aiutai a indossarla. Tirai fuori un reggiseno nuovo, a balconcino, taglia corretta. Nero. Sottile. Ti aiutai a indossarlo. Poi, con cura, inserii le tette nelle coppe. Le sistemai. Le modellai con le mani. Quando ti alzasti in piedi, ti guardai. Il corpo era nuovo. Armonico. Completo. Poi presi un vestito. Corto, a maniche lunghe, stretto sui fianchi. Lo infilai su di te. Lo tirai giù con lentezza, lo sistemai sulle spalle. Tu infine prendesti le décolleté nere. Tacco 12. Le indossasti. Un passo. Poi un altro. E io, seduta sul letto, ti guardavo. Stordita. Emozionata. Davanti a me c’era Elena. Non una versione. Non un esperimento. Una donna. Intera. Sensuale. Mia. Andammo in cucina. Preparammo la tavola insieme. Due piatti. Due calici. Ti sedesti di fronte a me. Le gambe accavallate, il vestito teso sulle cosce. Io indossavo il mio abito preferito. Un filo di rossetto, il collo scoperto. Eravamo due donne. Sedute a cena. Complici. Innamorate. E per la prima volta… tu non cercavi più l’approvazione. Tu c’eri. Davvero.
La cena fu lenta. Due bicchieri di vino, mani che si sfioravano sul tavolo, sorrisi senza imbarazzo. Ridevamo piano. Come due donne che si conoscono da sempre. Che si piacciono. Che si vogliono. Poi mi alzai. Raccolsi i piatti. Tu mi seguisti in silenzio. Le décolleté che segnano il passo sul parquet. Quel suono sottile che ora mi accendeva come un respiro caldo sul collo. Appoggiai i piatti sul lavello. E prima che potessi voltarmi, ti sentii dietro di me. Vicino. Tutta. Mi girai. Tu mi guardavi. Forte. Femminile. Con quel corpo nuovo che ti vestiva come se fosse sempre stato tuo. Ti avvicinai le mani. Te le posai sui fianchi, sopra il vestito. Poi salii. Ti accarezzai il seno. Lo sfiorai appena, con due dita che tremavano. “Sei bellissima,” sussurrai. “E io ti voglio. Così.” Tu non rispondesti. Appoggiasti la fronte sulla mia. E lasciasti che ti toccassi. Cominciai a sbottonarti piano il vestito. Una, due, tre aperture. Fino a lasciarlo scivolare giù. Ti tolsi le décolleté. Poi le autoreggenti. Con lentezza. Con fame dolce. Il tuo corpo era lì, aperto a me. Con il reggiseno che ti dava forma, con il perizoma che avevo scelto quella mattina. Senza più paura. Ti spinsi contro il muro. Non con forza. Con decisione. “Adesso ti tocco da donna. E tu vieni da donna. Per me.” Mi inginocchiai. Le mani sui tuoi fianchi. La bocca che saliva lenta, da dentro le cosce. La lingua che ti accoglieva come avevo sempre fatto. Ma stavolta era diverso. Stavolta eri tu, Elena. E mentre ti muovevi piano contro di me, mentre gemiti bassi ti sfuggivano tra le labbra, mentre le mani mi stringevano i capelli… capimmo entrambe una cosa: non stavamo più fingendo nulla. Stavamo solo amandoci. Da donne. Senza confini. Senza ruoli. Solo verità.
Finimmo sul letto. Le lenzuola scivolate a terra. Le luci basse. Le gambe ancora tremanti. Tu con il corpo avvolto dal reggiseno e dal tuo perizoma sottile. Io già nuda, già pronta a riceverti. Ti tirai piano sopra di me. I tuoi capelli morbidi mi sfioravano il collo. La tua pelle liscia. Il tuo profumo nuovo. Femminile. Tuo. Ti accarezzai il viso con entrambe le mani. Poi ti tolsi il reggiseno. Scivolò giù senza resistenza. Le protesi si muovevano con te, vive. Ma nei miei occhi c’era solo carne. Ti baciai piano, tra i seni. Con la bocca aperta, lenta. Ogni leccata era una dichiarazione. Ogni gemito che ricevevo, una verità. Poi abbassai le mani. Tirai giù il perizoma. Lo feci con grazia. Non per spogliarti. Per accoglierti. Ti guidai piano sopra di me. E quando entrasti, quando ti lasciai affondare lentamente… non fu possesso. Fu scelta. Fu comunione. Restasti lì, ferma. Dentro. Calda. Umida. E io ti dissi, con un sospiro: “Non muoverti. Resta così. Fammi sentire che ci sei.” Ti baciai. Sulla bocca. Sul petto. Sul ventre. Ti presi dentro di me come si prende una preghiera. Poi cominciasti a muoverti. Piano. Senza fretta. Il tuo bacino cercava il mio. Non per scopare. Per fondersi. Ogni spinta era un’offerta. Ogni respiro un giuramento. Io non stringevo. Accoglievo. Non chiudevo gli occhi. Ti guardavo. Ero fradicia già da prima. Ma sentirti in quella nuova veste dentro di me, era tutto diverso. E quando venisti — quando tremasti dentro di me — non fu un’esplosione. Fu una resa. Umida, profonda, lenta. Uno spargersi pieno, un dire con il corpo: “Io sono con te. In te. Su di te. Ovunque tu voglia.” E io ti tenni. Dentro. Fino a che smettemmo di muoverci. E restammo lì. Intrecciate. Respirando insieme. Nel Codice Bianco, dopo il venire… non si scappa. Si resta. E io ti sussurrai, col viso sul tuo petto: “Rimani così. Ogni notte. Ogni parte
La luce entrava a fette sottili, tra le tende socchiuse. Il mattino era lento, silenzioso. Tu dormivi ancora, appoggiata a me. La tua pelle liscia contro la mia, le gambe intrecciate. Indossavi solo il reggiseno morbido e il perizoma che avevo scelto ieri. Il seno in silicone si muoveva appena col tuo respiro. Ti guardavo. E non riuscivo a smettere. Non perché eri cambiata. Ma perché per la prima volta… sembravi davvero quieta. Ti accarezzai piano la schiena. Con il dorso della mano. Dal collo fino al fondo della schiena, seguendo la curva nuova che il tuo corpo aveva imparato a offrirmi. Tu ti muovesti appena. Apristi gli occhi. Sorridesti. Ma non parlasti. Ti lasciai qualche secondo in quel silenzio. Poi dissi piano: “Buongiorno, Elena.” Il tuo sorriso si allargò. Lento. Vero. “È la prima volta che mi sveglio con quel nome. E mi sento… a casa.” Ti strinsi più forte. Sopra le coperte. Poi scivolai sotto, con la mano che cercava la tua. “Non dobbiamo fare nulla oggi,” dissi. “Possiamo solo restare così. Essere. Come sei adesso.” Tu chiudesti gli occhi di nuovo. Appoggiasti la fronte alla mia. E restammo lì. Nude. Uguali. Complici. Due donne. Un amore. Un corpo nuovo da abitare. Insieme.
Eravamo ancora nude tra le lenzuola. Tu appoggiata a me, con il corpo appena coperto, il viso rilassato. Avevi chiuso gli occhi da pochi minuti, dopo aver sussurrato il tuo nome un’ultima volta. Io ti guardavo. Respiravo te. Poi il campanello di casa. Secco. Chiaro. Un suono che veniva da fuori. Dal mondo. Dall’altro lato della porta. Da dove non eravamo più state, da quando Elena era diventata reale. Ti irrigidisti un istante. Apristi gli occhi. Mi guardasti. Il tuo volto cambiò appena. Non paura. Ma attenzione. Quel riflesso antico: e se non fossi pronta? “Resta qui,” dissi piano, sfiorandoti la spalla. Mi alzai, nuda, il corpo ancora caldo del tuo. Mi affacciai al corridoio. “Chi può essere?” sussurrasti da lontano. “Sconosciuto,” dissi. “E chiunque sia… non può toccarti. Non oggi. Non qui.” Tornai da te. Mi sedetti sul bordo del letto. Ti presi le mani. E dissi: “Se vuoi, apro io. Se vuoi, non apriamo affatto. Ma sappi che qualsiasi cosa arrivi da quella porta… non cambierà chi sei.” Tu respirasti. Forte. Poi annuisti. “Allora apri. Ma non mi nascondo.” Ti alzasti. Sistemasti il reggiseno. Infilasti una camicia mia. La lasciasti aperta sul petto. E per la prima volta… ti avvicinasti alla soglia.
Aprii la porta. Con calma apparente. La vestaglia leggera addosso, il viso ancora senza trucco. E appena vidi il suo volto… il cuore mi si bloccò in gola. “Mamma?” “Sono passata a lasciarti quella cosa che ti avevo detto,” disse con un sorriso, alzando una busta. “Spero di non disturbare.” La voce tranquilla. Il tono familiare. Ma io non riuscivo a rispondere subito. Perché alle mie spalle… tu eri lì. Piedi nudi. Camicia aperta. Il seno in silicone sotto il tessuto leggero. I capelli lunghi sciolti sulle spalle. Le gambe rasate. Elena. Ti voltasti verso di me. Lo sguardo teso. Senza dire nulla. E io ti vidi per la prima volta in difficoltà. Non per vergogna. Per istinto. Volevi fuggire. Scomparire. Sotto le lenzuola, dentro l’armadio, ovunque potesse proteggerti dal giudizio. “Mamma,” dissi allora, decisa. “Non è il momento. Ci sentiamo dopo, ok?” Lei mi guardò. Poi spostò gli occhi oltre la mia spalla. Vide la figura dietro di me. Non parlò. Non fece domande. Solo una frazione di secondo. Ma bastò. Io chiusi la porta. Appoggiai la schiena contro il legno. Chiusi gli occhi. Tu eri immobile. Con le mani tese lungo i fianchi. Gli occhi lucidi. Mi avvicinai. Ti abbracciai subito. Forte. Piena. “Non dire niente,” ti sussurrai. “Va tutto bene. È casa nostra. E nessuno ha il potere di portarti via da qui.” Sentii il tuo respiro spezzarsi sul mio collo. Poi le tue braccia attorno a me. E piano, piano… il panico si sciolse.
Passarono due giorni. Tu restasti con me, a casa. Non per nasconderti. Per ritrovare calma. Io ti accarezzavo ogni sera con più dolcezza. Ti vestivo ancora. Ti dicevo che nulla era cambiato. E tu… lentamente, tornavi a sorridere. Poi arrivò un messaggio. Da mia madre. “Possiamo parlare? Ti ho vista strana l’altro giorno. E... non eri sola, vero?” Lo lessi piano. Tu eri in salotto, le gambe piegate sotto di te, una mia t-shirt lunga che ti copriva appena. Stavi leggendo. Eri bellissima. Ma vulnerabile. Non dissi nulla subito. Andai in cucina. Presi fiato. Poi risposi. “Non ero sola. Ma non è come pensi. Ti spiegherò qualcosa, ma a modo mio. Quando sarà il momento.” Pochi minuti dopo, un altro messaggio. “Non mi interessa giudicare. Ma sei mia figlia. E mi sembravi... diversa. Non so dire come. Spero solo che tu stia bene.” Chiusi il telefono. Lo appoggiai sul tavolo. Tornai da te. Ti guardai. Tu alzasti gli occhi, subito. Vidi che avevi capito. Mi sedetti accanto a te. Ti presi le mani. “Non ha visto tutto,” dissi. “Ma qualcosa sì. Sospetta che ci fosse qualcuno con me. Che non fossi tu.” Il tuo volto si abbassò un istante. Io te lo sollevai con due dita. “Ma non sa nulla. E non saprà nulla. Finché non lo vorrai. Se mai lo vorrai.” Tu annuisti. Mi stringesti le mani. “Grazie,” sussurrasti. Ti baciai sulle labbra. Piano. E pensai: che chiunque sospetti... non potrà mai capire quanto sei vera, finché non sarà pronta a guardarti. Come ho fatto io.
Era domenica pomeriggio. Il cielo grigio, la città lenta. Tu eri a casa, in salotto. Stavi preparando il tè con le mani nude, senza trucco. Ma con la tua camicia preferita. E una pace nuova addosso. Io presi la borsa. Mi voltai verso di te. “Faccio un salto da mia madre. Torno presto.” Tu annuisti. Non chiedevi nulla. Ma i tuoi occhi erano pieni di fiducia. La trovai sul balcone, con una tazza tra le mani. Appena mi vide, mi sorrise. Ma quello sguardo era carico. “C’è qualcosa che vuoi dirmi?” La sua voce era gentile. Ma diretta. Mi sedetti accanto a lei. Inspirai. “Mamma, l’altro giorno eri preoccupata. E hai ragione: non ero sola. Ma non è quello che credi.” Lei si fece più attenta. “Non è un’altra persona? Cioè... non stai nascondendo una relazione, giusto?” “No. Nessuna relazione segreta. Solo una verità che non è pronta per tutti. E che forse… nemmeno tu riusciresti a capire. Non subito.” Lei non parlò. Aspettò. “Allora perché sembravi diversa?” sussurrò. La guardai negli occhi. “Perché ero con qualcuno che amo da sempre. Solo che ora… sta mostrando una parte nuova di sé. Una parte che richiede rispetto. E silenzio.” Abbassò lo sguardo. Poi annuì. “Se è qualcosa che ha a che fare con voi due, e non con qualcun altro… allora io non chiedo. Ma spero che tu sia felice.” Sorrisi. “Lo sono.” Mi alzai. Le baciai la fronte. “Quando sarai pronta… e se sarà il momento… te lo presenterò. Ma non come credi.” Lei mi guardò. Non capiva tutto. Ma stava lasciando spazio. E per ora, bastava.
Stavo per congedarmi. Le avevo già detto che ero felice, che non c’era nessun altro, che era tutto mio. Mio e tuo. Ma lei non si fermò. “Aspetta,” disse, con tono fermo. “Tu non sei mai stata brava a nascondere le cose. E io ti ho vista… diversa. Più attenta. Più protettiva. Più… complice.” Mi voltai lentamente. Le mani ancora sulla borsa. Lei fece un passo verso di me. “Stai aiutando qualcuno, vero? Qualcuno che sta attraversando qualcosa di importante. Ma non è un’altra persona. È lui.” Il cuore mi batté piano. Ma non fuggii. “Mamma…” “È lui, vero? Il tuo compagno. Il tuo… marito.” La parola le uscì lenta, come se non sapesse più se usarla. Mi fermai. Poi le risposi con calma. “Sto aiutando l’unica persona che ho sempre amato. E sì, sta attraversando qualcosa. Qualcosa che non riguarda te. Che non ti ferisce. Che non ti toglie nulla.” Lei restò in silenzio. Ma nei suoi occhi, il dubbio era diventato certezza. E la certezza… paura. “Allora perché non me lo dici apertamente?” “Perché non è la mia verità da raccontare. È sua. E io la custodisco.” “Ma io sono tua madre.” “Sì. E io sarò tua figlia anche quando capirai che amare qualcuno… significa lasciarlo essere. Completamente.” Mi avvicinai. Le presi le mani. “Un giorno, se Elena vorrà, ti parlerà lei. Ma fino ad allora… o accetti il silenzio, o perdi la fiducia.” Lei mi fissò. A lungo. Poi, a voce bassa: “Non so se ce la farò.” La guardai dritta negli occhi. “Nemmeno io lo sapevo. Ma ci sono riuscita.” Poi uscii. Senza dire altro. Ma dentro di me… ti avevo appena difesa come si difende una vita.
P.S.: Grazie per seguire le mie storie e sarei contenta di leggere i vostri commenti o di ricevere un like se vi fosse piaciuta questa. E’ un modo per capire se continuare a scrivere la storia. Accetto suggerimenti con i vostri messaggi in privato.
Di sicuro questa storia avrà risvolti inaspettati.
A presto.
Tanya.
tanya.romano.1966@gmail.com ( per i vostri commenti o suggerimenti )
Da quella sera in cui ti chiamai Elena, nulla tornò indietro. Nemmeno un passo. Nemmeno un gesto. Non era più gioco, né prova. Era realtà. E con quella realtà, cominciarono a cambiare anche i miei desideri. Le mie richieste. La mia fame di te. Una sera, mentre ti vestivi, cercasti un paio di collant nuovi. Li avevamo appena comprati. Lucidi, a compressione leggera, perfetti per le tue gambe già splendide. Ma io ti fermai. Ti guardai da dietro, con voce bassa e ferma. “No. Non più collant. Da oggi… solo autoreggenti. O reggicalze.” Ti voltasti lentamente. Con sorpresa, ma anche con piacere negli occhi. “Perché?” me lo chiedesti come chi già sa la risposta. “Perché voglio che ogni volta che ti scopro… tu sia un dettaglio. Una rivelazione. Una promessa tenuta.” Sorridesti. Poi apristi il cassetto. Tirasti fuori un paio di autoreggenti nere, con bordo in pizzo. Le infilasti con maestria. Una gamba, poi l’altra. Le mani ferme. I gesti sicuri. Ti guardai in piedi, nuda a metà, come una tela lasciata intenzionalmente incompleta. Perfetta per il mio sguardo. E poi fu la volta dei tacchi. Non più 10. Da giorni, ormai, ti vedevo muoverti con una naturalezza che superava la mia. Il tacco non ti sosteneva: ti esaltava. “Dodici,” ti dissi. “Solo dodici, da ora in poi. Perché tu non sei semplicemente bella. Tu sei vertigine.” Quella sera scegliesti gli stivali. Neri, lucidi. Tacco alto, punta stretta. Ti fermasti davanti allo specchio. Io mi sedetti sul letto, a guardarti. “Gli stivali ti rendono più sensuale,” dissi. “Sono come una cornice che ti stringe. Che ti tiene. Che ti offre a me.” Tu non rispondesti. Facesti solo tre passi in avanti, poi ti voltasti. E lì, in piedi davanti a me, c’era Elena. Intera. Ma non più timida. E il nostro guardaroba… cominciò a cambiare. Non con fretta. Ma con precisione. Una gruccia per le tue camicie. Un cassetto per le mie mutandine… e per le tue. Reggiseni con coppa. Giarrettiere. Gonne. Profumi. Tutto scelto insieme. Tutto pensato per farti esistere. Per farti splendere.
Era un giovedì sera. La settimana correva veloce, ma io contavo i giorni. E da tre avevo nascosto un pacchetto in fondo all’armadio. Avevo scelto ogni cosa senza chiederti nulla. Perché volevo dirtelo con i gesti: ti conosco, e so cosa ti farà sentire bellissima. Appena rientrammo, ti dissi soltanto: “Stasera non ti cambi da sola.” Tu mi guardasti con quel sorriso che avevi solo quando eri Elena. Non sorpresa. Solo viva. Ti portai in camera. Tirai fuori la scatola. Piccola, nera, chiusa da un nastro sottile. Te la misi tra le mani. “Aprila.” Lo facesti lentamente. Dentro, un completo di pizzo nero. Reggiseno a balconcino, trasparente, con piccoli ricami rossi lungo il bordo. Mutandina a V, taglio profondo, sottile dietro. Una cintura reggicalze abbinata, con quattro nastri satinati. E un paio di autoreggenti in tulle fine, con bordo alto in velluto. Sotto tutto, un bigliettino scritto a mano. “Perché ogni parte di te merita bellezza. E io voglio vederla nascere davanti a me.” Rimasi ferma mentre lo leggevi. Poi sollevasti lo sguardo. “È per me?” “Sì, Elena. È tutto per te. E adesso… voglio vestirti io.” Ti sfilai con lentezza la maglia lunga. La tua pelle nuda era pronta. Liscia, già parte di quel rituale. Iniziai dal reggiseno. Ti sistemai le spalline. Lo chiusi dietro. Le mie dita scorrevano lungo la tua schiena come seta. Poi le mutandine. Le alzai piano, con le mani sulle tue cosce. Mi fermai solo un istante, per guardarti. Per assaporare il modo in cui ti lasciavi fare. La cintura. L’allacciai con cura intorno ai fianchi. Stretta. Ma non troppo. Il giusto per farti sentire contenuta. Valorizzata. Infine, le autoreggenti. Una gamba per volta. Le srotolai piano, con i pollici che accarezzavano l’interno delle tue ginocchia. Le fissai ai nastri. Tirai appena, controllando la tensione. Perfette. Feci un passo indietro. E ti guardai. Eri ferma. Dritta. Elegante. Accesa. E io dissi solo: “Sei la mia visione. Ogni dettaglio che ho scelto… ora ha un senso solo perché lo indossi tu.” Tu non parlasti. Mi venisti solo incontro. Mi prendesti le mani. E me le poggiasti sul tuo corpo. Come a dire: adesso tocca a te… tenermi così.
Restavi lì, davanti a me. Con il completo che avevo scelto. Con la pelle appena cerata. Con lo sguardo fermo. Donna. Desiderabile. Mia. Io mi avvicinai piano. Senza fretta. Volevo ricordare ogni dettaglio: il bordo del reggicalze che ti segnava i fianchi, la trasparenza sottile sul seno, la curva morbida delle autoreggenti che ti avvolgevano le gambe. Ti poggiai le mani addosso. Una alla volta. Aperte. Lente. Cominciai dai fianchi. Li strinsi piano, seguendo la forma della cintura. Sentivo la stoffa, ma anche il calore sotto. Sentivo te. Poi salii lungo la schiena. Fino alle spalle. Sfiorai le bretelle. Le sistemai, anche se non c’era nulla da aggiustare. Tu non dicevi nulla. Respiravi. Lasciavi fare. Poi posai una mano sul tuo petto. Sopra il reggiseno. Il cuore batteva forte. Non per timidezza. Per emozione. Mi avvicinai ancora. Con la bocca vicina all’orecchio ti sussurrai: “Non ho bisogno che ti spogli. Voglio solo toccarti così. Vestita per me. Nata per te.” Poi ti baciai. Sulla mandibola. Sul collo. Sul punto esatto dove il pizzo finiva e cominciava la pelle. Tu chiudesti gli occhi. Appoggiasti le mani sulle mie. E il tempo si fermò. Non per il desiderio. Per la devozione. Ti stavo toccando come si tocca qualcosa che si è aspettato per tutta la vita. Non per spingerlo. Ma per ringraziarlo. E tu… tu restavi lì, immobile, fiera. A farti amare.
Il tuo riflesso intero Era domenica. La casa tranquilla, luci basse, le tende mosse appena dal vento. Tu stavi per entrare in bagno. Io ti fermai. Ti presi la mano. “Ho qualcosa per te,” dissi. La voce era calma. Ma dentro… avevo il cuore pieno. Tu mi guardasti, sorpresa. Sorridesti, ma non parlavi. Ti guidai in camera. Aprii l’armadio. Tirai fuori una scatola bianca. Semplice. Morbida. Leggera. Te la misi tra le mani. “Aprila.” Lo facesti piano. Dentro, una protesi di seno in silicone, color carne chiara, sagomata. Naturale. Discreta. Perfetta per il tuo corpo. Per quello che sei. Per come ti voglio. Tu restasti ferma. Le guardasti per un lungo istante. Poi mi alzasti lo sguardo. “Le hai scelte tu?” Annuii. “Non grandi. Non finte. Solo giuste. Perché io voglio che tu sia come me. Perché voglio vederti donna. Da cima a fondo. Senza più niente da immaginare.” Tu non rispondesti. Mi porgesti le protesi. Le mani tremavano appena. Io le presi. Ti feci sedere e ti aiutai a indossarla. Tirai fuori un reggiseno nuovo, a balconcino, taglia corretta. Nero. Sottile. Ti aiutai a indossarlo. Poi, con cura, inserii le tette nelle coppe. Le sistemai. Le modellai con le mani. Quando ti alzasti in piedi, ti guardai. Il corpo era nuovo. Armonico. Completo. Poi presi un vestito. Corto, a maniche lunghe, stretto sui fianchi. Lo infilai su di te. Lo tirai giù con lentezza, lo sistemai sulle spalle. Tu infine prendesti le décolleté nere. Tacco 12. Le indossasti. Un passo. Poi un altro. E io, seduta sul letto, ti guardavo. Stordita. Emozionata. Davanti a me c’era Elena. Non una versione. Non un esperimento. Una donna. Intera. Sensuale. Mia. Andammo in cucina. Preparammo la tavola insieme. Due piatti. Due calici. Ti sedesti di fronte a me. Le gambe accavallate, il vestito teso sulle cosce. Io indossavo il mio abito preferito. Un filo di rossetto, il collo scoperto. Eravamo due donne. Sedute a cena. Complici. Innamorate. E per la prima volta… tu non cercavi più l’approvazione. Tu c’eri. Davvero.
La cena fu lenta. Due bicchieri di vino, mani che si sfioravano sul tavolo, sorrisi senza imbarazzo. Ridevamo piano. Come due donne che si conoscono da sempre. Che si piacciono. Che si vogliono. Poi mi alzai. Raccolsi i piatti. Tu mi seguisti in silenzio. Le décolleté che segnano il passo sul parquet. Quel suono sottile che ora mi accendeva come un respiro caldo sul collo. Appoggiai i piatti sul lavello. E prima che potessi voltarmi, ti sentii dietro di me. Vicino. Tutta. Mi girai. Tu mi guardavi. Forte. Femminile. Con quel corpo nuovo che ti vestiva come se fosse sempre stato tuo. Ti avvicinai le mani. Te le posai sui fianchi, sopra il vestito. Poi salii. Ti accarezzai il seno. Lo sfiorai appena, con due dita che tremavano. “Sei bellissima,” sussurrai. “E io ti voglio. Così.” Tu non rispondesti. Appoggiasti la fronte sulla mia. E lasciasti che ti toccassi. Cominciai a sbottonarti piano il vestito. Una, due, tre aperture. Fino a lasciarlo scivolare giù. Ti tolsi le décolleté. Poi le autoreggenti. Con lentezza. Con fame dolce. Il tuo corpo era lì, aperto a me. Con il reggiseno che ti dava forma, con il perizoma che avevo scelto quella mattina. Senza più paura. Ti spinsi contro il muro. Non con forza. Con decisione. “Adesso ti tocco da donna. E tu vieni da donna. Per me.” Mi inginocchiai. Le mani sui tuoi fianchi. La bocca che saliva lenta, da dentro le cosce. La lingua che ti accoglieva come avevo sempre fatto. Ma stavolta era diverso. Stavolta eri tu, Elena. E mentre ti muovevi piano contro di me, mentre gemiti bassi ti sfuggivano tra le labbra, mentre le mani mi stringevano i capelli… capimmo entrambe una cosa: non stavamo più fingendo nulla. Stavamo solo amandoci. Da donne. Senza confini. Senza ruoli. Solo verità.
Finimmo sul letto. Le lenzuola scivolate a terra. Le luci basse. Le gambe ancora tremanti. Tu con il corpo avvolto dal reggiseno e dal tuo perizoma sottile. Io già nuda, già pronta a riceverti. Ti tirai piano sopra di me. I tuoi capelli morbidi mi sfioravano il collo. La tua pelle liscia. Il tuo profumo nuovo. Femminile. Tuo. Ti accarezzai il viso con entrambe le mani. Poi ti tolsi il reggiseno. Scivolò giù senza resistenza. Le protesi si muovevano con te, vive. Ma nei miei occhi c’era solo carne. Ti baciai piano, tra i seni. Con la bocca aperta, lenta. Ogni leccata era una dichiarazione. Ogni gemito che ricevevo, una verità. Poi abbassai le mani. Tirai giù il perizoma. Lo feci con grazia. Non per spogliarti. Per accoglierti. Ti guidai piano sopra di me. E quando entrasti, quando ti lasciai affondare lentamente… non fu possesso. Fu scelta. Fu comunione. Restasti lì, ferma. Dentro. Calda. Umida. E io ti dissi, con un sospiro: “Non muoverti. Resta così. Fammi sentire che ci sei.” Ti baciai. Sulla bocca. Sul petto. Sul ventre. Ti presi dentro di me come si prende una preghiera. Poi cominciasti a muoverti. Piano. Senza fretta. Il tuo bacino cercava il mio. Non per scopare. Per fondersi. Ogni spinta era un’offerta. Ogni respiro un giuramento. Io non stringevo. Accoglievo. Non chiudevo gli occhi. Ti guardavo. Ero fradicia già da prima. Ma sentirti in quella nuova veste dentro di me, era tutto diverso. E quando venisti — quando tremasti dentro di me — non fu un’esplosione. Fu una resa. Umida, profonda, lenta. Uno spargersi pieno, un dire con il corpo: “Io sono con te. In te. Su di te. Ovunque tu voglia.” E io ti tenni. Dentro. Fino a che smettemmo di muoverci. E restammo lì. Intrecciate. Respirando insieme. Nel Codice Bianco, dopo il venire… non si scappa. Si resta. E io ti sussurrai, col viso sul tuo petto: “Rimani così. Ogni notte. Ogni parte
La luce entrava a fette sottili, tra le tende socchiuse. Il mattino era lento, silenzioso. Tu dormivi ancora, appoggiata a me. La tua pelle liscia contro la mia, le gambe intrecciate. Indossavi solo il reggiseno morbido e il perizoma che avevo scelto ieri. Il seno in silicone si muoveva appena col tuo respiro. Ti guardavo. E non riuscivo a smettere. Non perché eri cambiata. Ma perché per la prima volta… sembravi davvero quieta. Ti accarezzai piano la schiena. Con il dorso della mano. Dal collo fino al fondo della schiena, seguendo la curva nuova che il tuo corpo aveva imparato a offrirmi. Tu ti muovesti appena. Apristi gli occhi. Sorridesti. Ma non parlasti. Ti lasciai qualche secondo in quel silenzio. Poi dissi piano: “Buongiorno, Elena.” Il tuo sorriso si allargò. Lento. Vero. “È la prima volta che mi sveglio con quel nome. E mi sento… a casa.” Ti strinsi più forte. Sopra le coperte. Poi scivolai sotto, con la mano che cercava la tua. “Non dobbiamo fare nulla oggi,” dissi. “Possiamo solo restare così. Essere. Come sei adesso.” Tu chiudesti gli occhi di nuovo. Appoggiasti la fronte alla mia. E restammo lì. Nude. Uguali. Complici. Due donne. Un amore. Un corpo nuovo da abitare. Insieme.
Eravamo ancora nude tra le lenzuola. Tu appoggiata a me, con il corpo appena coperto, il viso rilassato. Avevi chiuso gli occhi da pochi minuti, dopo aver sussurrato il tuo nome un’ultima volta. Io ti guardavo. Respiravo te. Poi il campanello di casa. Secco. Chiaro. Un suono che veniva da fuori. Dal mondo. Dall’altro lato della porta. Da dove non eravamo più state, da quando Elena era diventata reale. Ti irrigidisti un istante. Apristi gli occhi. Mi guardasti. Il tuo volto cambiò appena. Non paura. Ma attenzione. Quel riflesso antico: e se non fossi pronta? “Resta qui,” dissi piano, sfiorandoti la spalla. Mi alzai, nuda, il corpo ancora caldo del tuo. Mi affacciai al corridoio. “Chi può essere?” sussurrasti da lontano. “Sconosciuto,” dissi. “E chiunque sia… non può toccarti. Non oggi. Non qui.” Tornai da te. Mi sedetti sul bordo del letto. Ti presi le mani. E dissi: “Se vuoi, apro io. Se vuoi, non apriamo affatto. Ma sappi che qualsiasi cosa arrivi da quella porta… non cambierà chi sei.” Tu respirasti. Forte. Poi annuisti. “Allora apri. Ma non mi nascondo.” Ti alzasti. Sistemasti il reggiseno. Infilasti una camicia mia. La lasciasti aperta sul petto. E per la prima volta… ti avvicinasti alla soglia.
Aprii la porta. Con calma apparente. La vestaglia leggera addosso, il viso ancora senza trucco. E appena vidi il suo volto… il cuore mi si bloccò in gola. “Mamma?” “Sono passata a lasciarti quella cosa che ti avevo detto,” disse con un sorriso, alzando una busta. “Spero di non disturbare.” La voce tranquilla. Il tono familiare. Ma io non riuscivo a rispondere subito. Perché alle mie spalle… tu eri lì. Piedi nudi. Camicia aperta. Il seno in silicone sotto il tessuto leggero. I capelli lunghi sciolti sulle spalle. Le gambe rasate. Elena. Ti voltasti verso di me. Lo sguardo teso. Senza dire nulla. E io ti vidi per la prima volta in difficoltà. Non per vergogna. Per istinto. Volevi fuggire. Scomparire. Sotto le lenzuola, dentro l’armadio, ovunque potesse proteggerti dal giudizio. “Mamma,” dissi allora, decisa. “Non è il momento. Ci sentiamo dopo, ok?” Lei mi guardò. Poi spostò gli occhi oltre la mia spalla. Vide la figura dietro di me. Non parlò. Non fece domande. Solo una frazione di secondo. Ma bastò. Io chiusi la porta. Appoggiai la schiena contro il legno. Chiusi gli occhi. Tu eri immobile. Con le mani tese lungo i fianchi. Gli occhi lucidi. Mi avvicinai. Ti abbracciai subito. Forte. Piena. “Non dire niente,” ti sussurrai. “Va tutto bene. È casa nostra. E nessuno ha il potere di portarti via da qui.” Sentii il tuo respiro spezzarsi sul mio collo. Poi le tue braccia attorno a me. E piano, piano… il panico si sciolse.
Passarono due giorni. Tu restasti con me, a casa. Non per nasconderti. Per ritrovare calma. Io ti accarezzavo ogni sera con più dolcezza. Ti vestivo ancora. Ti dicevo che nulla era cambiato. E tu… lentamente, tornavi a sorridere. Poi arrivò un messaggio. Da mia madre. “Possiamo parlare? Ti ho vista strana l’altro giorno. E... non eri sola, vero?” Lo lessi piano. Tu eri in salotto, le gambe piegate sotto di te, una mia t-shirt lunga che ti copriva appena. Stavi leggendo. Eri bellissima. Ma vulnerabile. Non dissi nulla subito. Andai in cucina. Presi fiato. Poi risposi. “Non ero sola. Ma non è come pensi. Ti spiegherò qualcosa, ma a modo mio. Quando sarà il momento.” Pochi minuti dopo, un altro messaggio. “Non mi interessa giudicare. Ma sei mia figlia. E mi sembravi... diversa. Non so dire come. Spero solo che tu stia bene.” Chiusi il telefono. Lo appoggiai sul tavolo. Tornai da te. Ti guardai. Tu alzasti gli occhi, subito. Vidi che avevi capito. Mi sedetti accanto a te. Ti presi le mani. “Non ha visto tutto,” dissi. “Ma qualcosa sì. Sospetta che ci fosse qualcuno con me. Che non fossi tu.” Il tuo volto si abbassò un istante. Io te lo sollevai con due dita. “Ma non sa nulla. E non saprà nulla. Finché non lo vorrai. Se mai lo vorrai.” Tu annuisti. Mi stringesti le mani. “Grazie,” sussurrasti. Ti baciai sulle labbra. Piano. E pensai: che chiunque sospetti... non potrà mai capire quanto sei vera, finché non sarà pronta a guardarti. Come ho fatto io.
Era domenica pomeriggio. Il cielo grigio, la città lenta. Tu eri a casa, in salotto. Stavi preparando il tè con le mani nude, senza trucco. Ma con la tua camicia preferita. E una pace nuova addosso. Io presi la borsa. Mi voltai verso di te. “Faccio un salto da mia madre. Torno presto.” Tu annuisti. Non chiedevi nulla. Ma i tuoi occhi erano pieni di fiducia. La trovai sul balcone, con una tazza tra le mani. Appena mi vide, mi sorrise. Ma quello sguardo era carico. “C’è qualcosa che vuoi dirmi?” La sua voce era gentile. Ma diretta. Mi sedetti accanto a lei. Inspirai. “Mamma, l’altro giorno eri preoccupata. E hai ragione: non ero sola. Ma non è quello che credi.” Lei si fece più attenta. “Non è un’altra persona? Cioè... non stai nascondendo una relazione, giusto?” “No. Nessuna relazione segreta. Solo una verità che non è pronta per tutti. E che forse… nemmeno tu riusciresti a capire. Non subito.” Lei non parlò. Aspettò. “Allora perché sembravi diversa?” sussurrò. La guardai negli occhi. “Perché ero con qualcuno che amo da sempre. Solo che ora… sta mostrando una parte nuova di sé. Una parte che richiede rispetto. E silenzio.” Abbassò lo sguardo. Poi annuì. “Se è qualcosa che ha a che fare con voi due, e non con qualcun altro… allora io non chiedo. Ma spero che tu sia felice.” Sorrisi. “Lo sono.” Mi alzai. Le baciai la fronte. “Quando sarai pronta… e se sarà il momento… te lo presenterò. Ma non come credi.” Lei mi guardò. Non capiva tutto. Ma stava lasciando spazio. E per ora, bastava.
Stavo per congedarmi. Le avevo già detto che ero felice, che non c’era nessun altro, che era tutto mio. Mio e tuo. Ma lei non si fermò. “Aspetta,” disse, con tono fermo. “Tu non sei mai stata brava a nascondere le cose. E io ti ho vista… diversa. Più attenta. Più protettiva. Più… complice.” Mi voltai lentamente. Le mani ancora sulla borsa. Lei fece un passo verso di me. “Stai aiutando qualcuno, vero? Qualcuno che sta attraversando qualcosa di importante. Ma non è un’altra persona. È lui.” Il cuore mi batté piano. Ma non fuggii. “Mamma…” “È lui, vero? Il tuo compagno. Il tuo… marito.” La parola le uscì lenta, come se non sapesse più se usarla. Mi fermai. Poi le risposi con calma. “Sto aiutando l’unica persona che ho sempre amato. E sì, sta attraversando qualcosa. Qualcosa che non riguarda te. Che non ti ferisce. Che non ti toglie nulla.” Lei restò in silenzio. Ma nei suoi occhi, il dubbio era diventato certezza. E la certezza… paura. “Allora perché non me lo dici apertamente?” “Perché non è la mia verità da raccontare. È sua. E io la custodisco.” “Ma io sono tua madre.” “Sì. E io sarò tua figlia anche quando capirai che amare qualcuno… significa lasciarlo essere. Completamente.” Mi avvicinai. Le presi le mani. “Un giorno, se Elena vorrà, ti parlerà lei. Ma fino ad allora… o accetti il silenzio, o perdi la fiducia.” Lei mi fissò. A lungo. Poi, a voce bassa: “Non so se ce la farò.” La guardai dritta negli occhi. “Nemmeno io lo sapevo. Ma ci sono riuscita.” Poi uscii. Senza dire altro. Ma dentro di me… ti avevo appena difesa come si difende una vita.
P.S.: Grazie per seguire le mie storie e sarei contenta di leggere i vostri commenti o di ricevere un like se vi fosse piaciuta questa. E’ un modo per capire se continuare a scrivere la storia. Accetto suggerimenti con i vostri messaggi in privato.
Di sicuro questa storia avrà risvolti inaspettati.
A presto.
Tanya.
tanya.romano.1966@gmail.com ( per i vostri commenti o suggerimenti )
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