Insieme... Cap. 7

di
genere
trio

Ero stesa sul letto, tra i vostri corpi ancora caldi. Il mio respiro lento. Le gambe appena piegate. Il cuore pieno. Vi guardavo. Una alla mia sinistra. Una alla mia destra. Voi mi fissavate in silenzio. Poi, come accordate in un linguaggio segreto, vi spostaste. Evelina si inginocchiò tra le mie gambe. Tu, Elena, ti posizionasti sopra di me, il petto sul mio, le tue labbra sul mio orecchio. “Adesso è il tuo turno,” mi sussurrasti. E mi baciasti piano. Evelina cominciò con le mani. Le dita che mi aprivano. Che mi leggevano. Che mi cercavano. Poi la bocca. La lingua. Il fiato. Tu mi tenevi il viso. Mi accarezzavi i capelli. Mi baciavi sulle palpebre chiuse. Sul collo. Sulle labbra umide. Le vostre voci insieme. “Respira.” “Non trattenerti.” “Sei bellissima.” Il piacere saliva. Non come una corsa. Ma come un’onda che si costruisce. E quando Evelina affondò la lingua più in basso, più profonda, e tu stringesti il mio seno con la mano, sentii tutto il mio corpo aprirsi. Era un invito. Era un sì. “Goditi tutto,” dicesti. E io obbedii. Venni tra le vostre mani. Con la testa tra i tuoi capelli, Elena. Con la bocca piena del nome di Evelina. Un orgasmo morbido. Lungo. Continuo. Un tremore che mi attraversò la schiena. Che mi fece piangere. Ma senza dolore. Solo gratitudine. E quando fu finito, non parlai. Voi mi stringeste. Una a sinistra. Una a destra. E io… mi lasciai restare lì. Vostra. E finalmente presa.
Il sole filtrava tra le tende, disegnando curve di luce sui nostri corpi nudi. Le lenzuola stropicciate. Le gambe intrecciate. Tre respiri ancora lenti. Sazi. Ma mai stanchi. Evelina fu la prima a parlare. “Vi va di uscire oggi?” La sua voce era calma. Ma il tono… portava un significato. Tu, Elena, la guardasti. “Uscire… come?” Lei si sollevò sui gomiti, ti accarezzò il fianco. “Come Elena. Con noi. Per davvero. Tra la gente. Tacchi. Gonna. Trucco. Tutta.” Tu la guardasti. Poi mi cercasti con gli occhi. Io sorrisi. Ti baciai la spalla. “Se ti va… io sono con te. Ogni passo. Ogni sguardo.” Ci fu silenzio. Poi annuisti. Una sola parola: “Sì.” Il pomeriggio fu una preparazione lenta. Il bagno pieno di vapore, profumo, rossetti sparsi. Evelina che ti aiutava con la guaina. Io che ti mettevo la collana sottile. Le autoreggenti tirate su con cura. Lo specchio che ti restituiva fiera. Quando indossasti gli stivali al ginocchio, Evelina sospirò. “Sei troppo.” E tu, Elena, rispondesti: “No. Sono esattamente quello che voglio essere.” E uscimmo. Tre donne. Una nuova famiglia.
Eravamo uscite da poco. Il centro era pieno. Gente che faceva shopping, coppie a passeggio, tavolini ai bar. Tu, Elena, camminavi al centro. I tuoi stivali lucidi segnavano il passo. La gonna nera aderente si muoveva sul ritmo dei tuoi fianchi. La camicetta bianca traspariva appena, con il seno scolpito che si indovinava sotto. Io ti tenevo per mano. Evelina camminava accanto, con un cappotto aperto e lo sguardo fiero. Gli occhi della gente si fermavano. Soprattutto su di te. Alcuni sorrisi. Alcuni sguardi bassi. E poi… una voce maschile, dietro di noi. “Ehi, bella… cosa ci fai qui vestita da donna? Pensavi che non si notasse?” Ci fermammo. Tu ti voltasti. Io anche. Evelina restò un passo avanti. L’uomo era giovane. Occhi ironici. Voce alta. Sorriso sprezzante. Tu lo guardasti. Ferma. Non dura. Solo incontrollabile. Poi parlasti. “Pensavo che il mondo fosse pronto per una donna come me. A quanto pare, non tutti gli uomini lo sono.” Evelina gli si piazzò davanti. “Stai cercando attenzione? Perché l’unica cosa che hai appena mostrato è ignoranza.” Lui fece una smorfia. Poi rise. “Tre donne… una finta. Due complici.” Io mi feci avanti. Con la voce più calma di tutte. “No. Tre donne vere. Una più coraggiosa delle altre. E tu non meriti neanche di guardarla.” Il suo sguardo cambiò. Non rise più. Si voltò e se ne andò. Tu respirasti a fondo. Poi mi stringesti la mano. E dicesti solo: “Grazie. Per non esserti mai spostata da accanto a me.”
Eravamo sedute al tavolo di un caffè all’aperto. Tre donne. Tre calici. Le gambe accavallate. Il silenzio dopo la tempesta. Tu, Elena, ti stavi sistemando i capelli con dita precise. Evelina ti guardava con un mezzo sorriso, come se sapesse già cosa stavi pensando. Io tenevo la tua gamba tra le mie, sotto il tavolo. Poi sentii una voce. “Scusate…” Ci voltammo. Era lei. La mia collega. Quella che aveva fatto domande. Quella che sembrava solo curiosa. Ora era lì. Di fronte a te. Con un caffè in mano. E uno sguardo lucido. “Elena…” disse piano. “Non mi sbagliavo quella sera. Non era un gioco. Era la verità.” Tu la guardasti. Non sorridesti. Non parlavi. Lei continuò. “E oggi… sei la donna più bella di tutto il centro. E forse… quella più libera.” Fece un mezzo passo indietro. Poi aggiunse: “Solo questo. Non volevo disturbare. Volevo solo dirtelo… davanti. Non alle spalle.” Tu annuisti. Poi rispondesti, chiara: “Grazie. Non per il complimento. Per il coraggio.” Lei arrossì. Poi se ne andò. E noi restammo. Un po’ più forti. Un po’ più viste. Un po’ più insieme.
Il tramonto colava lento sui palazzi. Le luci dei negozi si accendevano una a una. Il rumore si abbassava. La città diventava più intima. Più giocabile. Eravamo ancora al tavolino. Il tuo rossetto lasciava il bordo del bicchiere, Elena. Io ti guardavo le gambe, lunghissime negli stivali. Evelina taceva. Ma non era silenzio vuoto. Era strategia. Poi si alzò. Si mise alle tue spalle. Ti sussurrò piano, con la voce che sa di comando e promessa: “Alzati. Seguitemi. Non chiedete nulla.” Tu ti voltasti verso di me. Io annuii. E ci alzammo. Camminammo dietro di lei. Nelle vie meno affollate. Tra vetrine chiuse e portoni antichi. Finché si fermò davanti a un portone in ferro battuto. Suonò. Un uomo aprì. Ci sorrise, ma non disse nulla. Solo un cenno. Evelina si voltò verso noi due. “Una stanza. Un divano. Una porta chiusa. Solo io, voi… e quello che vi farò.” Tu deglutisti. Ma non indietreggiasti. Io ti presi la mano. Forte. Chiara. “Siamo tue.” Entrammo.
Salimmo due rampe di scale. Il silenzio era perfetto. Solo i tuoi tacchi, Elena, risuonavano sul marmo con una regolarità che sembrava un rito. Evelina aprì la porta. Entrammo. Nessuna parola. Lo spazio era ampio, caldo. Pareti color ambra, luce soffusa. Un divano in pelle scura. Una grande tenda rossa a coprire una parete intera. Pochi mobili. Tutto scelto. Tutto voluto. Sul tavolo basso: una candela accesa, due collari piegati, un foulard nero di seta, un piccolo frustino sottile. Nessuna volgarità. Solo eleganza. Controllo. Evelina si fermò. Chiuse la porta a chiave. Si voltò verso di noi. Sorrise. “Ora siete nel mio spazio. E stasera… vi prenderò come ho sempre voluto. Fuori casa. Fuori regole. Senza nessuno a fermarmi.” Tu ed io ci guardammo. Il cuore accelerava. Ma non c’era paura. C’era voglia. Lei si avvicinò. Ci prese per il mento, una alla volta. Ci baciò senza fretta. Prima me. Poi te. Poi entrambe. “Spogliatevi,” disse. E noi obbedimmo.
Eravamo nude. La pelle appena umida. La luce della candela muoveva riflessi sui nostri seni, sulle cosce. Il foulard, il frustino, i collari: ancora lì. In attesa. Evelina ci guardava in piedi. Sicura. Bellissima. Vestita solo della sua autorità. “Stasera ci sono solo tre regole,” disse. “Uno: non vi toccate da sole. Due: parlate solo quando ve lo concedo. Tre: se volete qualcosa… lo chiedete con gli occhi.” Poi ci fece inginocchiare, davanti al divano. Il pavimento era freddo. Ma ci scaldava la voce di Evelina. Prese il foulard nero. Legò le mie mani dietro la schiena. Poi venne da te, Elena. Fece lo stesso. Le dita scivolavano lente, sicure. “Adesso… comincia la vostra adorazione.” Si sedette sul divano. Le gambe divaricate. Senza dire una parola, sollevò la gonna. Non portava niente sotto. I suoi occhi si posarono su di me. Fece solo un cenno. Mi avvicinai. Mi chinai piano. Le diedi il primo bacio. Sul ventre. Poi tra le gambe. Un tocco lento. Umido. Sottomesso. Offerto. Il suo corpo non tremava. Aspettava. Poi guardò te, Elena. “Tu vieni dopo. E solo se lei mi ha fatta gemere. Perché oggi… lei ti apre la strada.”
Evelina era seduta. Le gambe larghe. Il respiro lento. Ma la pelle tesa. Come chi trattiene qualcosa di grande. Io ero inginocchiata. Con le mani legate dietro. Il viso tra le sue cosce. Cominciai piano. Con la lingua larga. Calda. Appena umida. Dal basso verso l’alto. Come si accarezza un tempio. Non una fessura. Le sue mani scesero sulla mia testa. Mi guidavano. Non spingevano. Mi sceglievano. “Continua,” sussurrò. “Senza fretta. Ma non smettere.” Io non smettevo. Ogni passaggio della lingua portava un sospiro. Ogni pausa un tremore. Ogni bacio un assenso. Evelina gemeva basso. Il ventre che si contraeva. I fianchi che si muovevano appena. Poi il suo respiro cambiò. Più profondo. Più ritmato. “Adesso mi fai venire. Ma guardami negli occhi.” Sollevai lo sguardo. La lingua ancora dentro di lei. Il mento bagnato. I capelli tra le sue dita. I suoi occhi si persero nei miei. E venne. Sussurrando il mio nome. Con la gola chiusa. Il corpo scosso. Le cosce che mi stringevano piano. Non mi mossi. La leccai anche dopo. Fino a che il respiro si calmò. Fino a che i muscoli tornarono a rilassarsi. Poi si staccò. Si sistemò. Si voltò verso di te, Elena. Tu eri lì. Legata. In ginocchio. La schiena dritta. Il sesso duro contro il ventre. E lei disse solo: “Mostrami cosa vuoi. Ma fallo senza parlare.” I tuoi occhi… erano già pronti
Eri in ginocchio. Il busto dritto. Il cazzo teso contro l’addome, il glande lucido, vivo, pulsante. Io, ancora a terra, ti guardavo da sotto. Il viso sporco del piacere di Evelina. Le mani legate dietro. Lei si mise in piedi. Ti si avvicinò lentamente. Tacchi, pelle, profumo. Ti camminò attorno. Una mano dietro la schiena. L’altra lungo il fianco. Ma non ti toccava. Solo la voce. “Sai cosa voglio da te, Elena?” Tu deglutisti. Annuisti. “Voglio che tu venga. Non perché ti tocco. Non perché ti prendo. Ma perché mi guardi… e capisci che sei mia.” Ti fermasti. Lo sguardo fisso nei suoi occhi. Lei si chinò. Il volto a pochi centimetri dal tuo. Il respiro sul tuo collo. Sussurrò: “Lascia andare. Per me. Senza mani. Senza permesso. Solo perché lo dico io.” E tu… tremasti. Il cazzo si mosse da solo. Si alzò di più. Si tese. Poi un primo spasmo. Un gemito trattenuto. Evelina non si mosse. Ti guardava. Ti prendeva senza toccarti. E tu venisti. Con il corpo piegato. Con il respiro rotto. Con il seme caldo che colava sul ventre. Goccia dopo goccia. Lei ti prese il viso tra le mani. Ti baciò sulla fronte. Poi sussurrò: “Questo… è il potere che mi avete dato. E io non lo sprecherò mai.” Io mi avvicinai. Ti presi tra le braccia. Il tuo cuore batteva forte. La tua pelle tremava. Ma i tuoi occhi… erano pieni di pace.
Il silenzio era spesso. Il seme sulla tua pelle, Elena, non si era ancora asciugato. Io ancora inginocchiata, col viso sporco del suo piacere. Evelina si mise tra noi. In piedi. Le braccia rilassate lungo i fianchi. Lo sguardo caldo. Ma fermo. “Siete mie,” disse. “E da ora in poi… non sarà solo un gioco. Sarà il vostro posto.” Fece un passo indietro. Prese dal tavolo due nuovi oggetti. Piccoli. In pelle sottile. Erano anelli da coscia. Simili a reggicalze. Ma con un anello centrale in metallo. “Uno per ciascuna,” disse. “Li indosserete ogni volta che starete sotto il mio sguardo. Servono a ricordarvi chi vi tiene. Chi vi guida. Chi vi ama… comandandovi.” Ci fece inginocchiare. Le mani ancora legate. Ci mise i due anelli. Uno alla mia gamba destra. Uno alla tua sinistra. Stringeva piano. Ma preciso. Come un sigillo. Poi si mise tra noi. Una mano dietro le nostre nuche. “Da questo momento… siete le mie. E ogni vostro piacere… passerà da me.” E non era minaccia. Era promessa. Una dolce, terribile, sensuale appartenenza.
Ero inginocchiata. Tu accanto a me. I nostri corpi piegati, stanchi, ma vivi. Le cosce segnate dai nuovi anelli. I collari ancora stretti. La pelle calda. Evelina era in piedi. Ci guardava. Il volto sereno. Ma pieno. Sollevai il viso verso di lei. La voce bassa. Ma ferma. “Domina…” Lei alzò appena un sopracciglio. “Fino a dove ci vuoi?” Ci fu silenzio. Lungo. Elettrico. Tu, Elena, respiravi più forte. Ti voltasti appena verso di me. Poi tornasti a fissarla anche tu. Evelina fece un passo. Poi un altro. Si chinò. Ci prese il mento a entrambe. Uno con ogni mano. E rispose: “Voglio portarvi dove non avete mai osato chiedere. Dove sarete mie non solo nel corpo, ma nelle scelte. Nei giorni. Nei pensieri.” Fece una pausa. La sua voce si abbassò. Si fece lenta. “Ma solo se lo volete. Io non forzo. Io chiamo. E aspetto.” Poi aggiunse: “Vi voglio fedeli. Ma non cieche. Voglio che mi obbediate… perché vi sentite più vere con me che senza.” E fu allora che io ti guardai. Tu mi guardasti. Nessuna parola. Solo un cenno. Uno sguardo. E insieme, rispondemmo: “Portaci.”
Eravamo ancora lì. In ginocchio. Il cuore aperto. La pelle nuda. Le labbra mute. Evelina si alzò in piedi. Ci guardò con calma. Poi parlò. Non come chi detta. Ma come chi custodisce. “Da questo momento,” disse, “ci saranno regole. Non per punirvi. Ma per onorarvi.” Fece un giro attorno a noi, le dita che sfioravano le nostre spalle, le nostre schiene, ma mai invadenti. “Uno: quando siete con me, vi presenterete come mie. Con lo sguardo, con il tono, con il corpo.” “Due: se volete parlare… alzate gli occhi. Aspettate il mio sì.” “Tre: i vostri orgasmi… non vi appartengono più. Sono miei. E li riceverete solo quando vi dirò io.” Ti vidi fremere, Elena. Ma non per disagio. Per riconoscimento. Quel tipo di vibrazione che attraversa chi si è trovata. Evelina continuò: “Quattro: ogni mattina, vi manderete una foto a vicenda, con ciò che indossate per me sotto i vestiti. Perché la mia presenza vi accompagni. Sempre.” Poi si chinò. Ci prese il viso. Ci baciò sulla fronte. “Se mai una di voi volesse fermarsi, basterà una sola parola: radice. E tutto si fermerà.” Fece un passo indietro. Ci guardò in silenzio. “Noi non giochiamo. Noi viviamo. E da oggi, questa vita è nostra.”
Eravamo ancora nude. Sul tappeto. I corpi stanchi. Ma pieni. Le gambe intrecciate. Le mani sciolte. Il silenzio di chi non ha più niente da chiedere. Solo da essere. Evelina era in piedi. La camicia aperta. Il seno scoperto. Ma il volto sereno. Completo. Ci guardava. Per lunghi secondi. Senza parlare. Poi si inginocchiò tra noi. Una mano sulla mia guancia. L’altra sulla tua, Elena. “Voglio restare,” disse. Nessuna di noi parlò. Lei continuò. “Non per comodità. Non per abitudine. Ma perché ogni volta che esco da questa casa… sento che lascio il mio posto.” Ci accarezzò i capelli. “Voglio alzarmi con voi. Voglio guardarvi mentre vi preparate per me. Voglio condividere il giorno, dirigere la sera… e appartenervi mentre voi appartenete a me.” Fece una pausa. Poi sorrise appena. “Voglio portare le mie cose. Aprire un armadio. Fare la spesa. Toccarvi quando passo. E sapervi lì. Sempre lì.” Tu, Elena, ti mordesti il labbro. Poi ti avvicinasti. Appoggiasti la fronte sulla sua coscia. Io ti seguii. La stringemmo insieme. E dicemmo solo: “Resta.”
Rientrammo a casa tardi. Le luci basse. Le stanze silenziose. I muri ancora intrisi dei nostri respiri passati. Tu, Elena, ti togliesti gli stivali con lentezza. Io chiusi la porta. Evelina posò la borsa. Poi si voltò verso di noi. Non con tenerezza. Con decisione. “Ora questa casa cambia.” Ci fermammo. Lei parlò chiaro. “Da oggi vivo qui. Non da ospite. Non da ospite d’onore. Ma da presenza dominante.” Fece un passo verso di noi. “Voglio una stanza mia. Ma voglio che il vostro letto resti nostro.” Guardò te. “Elena, tu continuerai a prepararti ogni mattina sotto il mio sguardo. Sotto i miei occhi, la tua femminilità non si nasconderà mai.” Poi guardò me. “E tu… sarai la mia voce nelle assenze. La mia seconda pelle su di lei.” Fece una pausa. Poi aggiunse: “Quando rientrate a casa, mi cercherete. Mi saluterete con un bacio. Se sono seduta, verrete a me in ginocchio. Se sono in piedi, mi darete le mani.” Un ultimo sguardo. “E ogni venerdì sera… sarà mio. Vostro. Nudo. Obbediente.” Poi sorrise. “Domande?” Nessuna. Solo i nostri sguardi. Pieni. Pronti.
La casa era silenziosa. L’aria profumata di cera e pelle. Le luci basse. La voce di Evelina, l’unico suono. Noi in ginocchio. Io da un lato. Tu, Elena, dall’altro. I corpi nudi. Le mani sulle cosce. I respiri lenti. Evelina era seduta sul divano. Con un taccuino in mano. Lo aprì. Ci guardò. E cominciò. “Da questa sera, ogni casa ha bisogno di un ordine. Il nostro sarà desiderio organizzato. Con amore, e con obbedienza.” E lesse: 1. Il collare del rientro. “Ogni volta che entrate in casa, lo indosserete. Finché non vi dico di toglierlo.” 2. I due minuti in ginocchio. “Ogni giorno. Una volta. A me. In silenzio. Solo per essere viste.” 3. Nessun piacere senza permesso. “Vi ricordate com’è venire con la mia voce. E da oggi… sarà solo così.” 4. Il diario del desiderio. “Ogni lunedì, voglio leggervi. Non con le mani. Con gli occhi.” 5. La postura della sera. “Dopo cena, sedute a terra. Ai miei piedi. Non come schiave. Come mie.” 6. Un segno sotto i vestiti. “Ogni giorno, qualcosa per me. Che nessuno vede. Ma voi sentite.” 7. Il venerdì è mio. “E quando è mio… siete solo corpi e ascolto.” Chiuse il taccuino. Ci guardò. “Vi riconoscete in questo?” E noi, all’unisono, con voce bassa: “Sì, Domina.”
Il silenzio era denso. Le regole appena lette. I nostri corpi calmi, ma accesi. Tu, Elena, muovesti appena il collo. Il fiato lento. Poi parlasti. La voce morbida, ma sincera. “Signora… dobbiamo chiamarla sempre così? E darle sempre del lei?” Ci fu una pausa. Evelina non si irrigidì. Ti guardò. A lungo. Poi si alzò dal divano. Si mise davanti a te. In piedi. Le mani dietro la schiena. Lo sguardo profondo. “Brava,” disse. “Perché hai chiesto. Non per sfuggire. Ma per capire.” Ti accarezzò il viso. Ti prese il mento. “Quando siamo in questo spazio, quando siete nude, quando vi dono il mio tempo e voi il vostro corpo… mi chiamerete Signora. E mi darete del lei. Per rispetto. Per devozione. Perché è il linguaggio che separa il mondo da noi tre.” Poi si chinò. La sua bocca a un soffio dalla tua. “Ma quando saremo fuori, o nei momenti di intimità dolce, o nel letto… potrete chiamarmi Evelina. E usare il tu.” Fece una pausa. “Perché io sono la vostra Signora… ma anche la donna che vi ama.” Poi baciò la tua fronte. E disse piano: “Grazie per aver chiesto.”
Eri ancora in ginocchio accanto a me, Elena. Le tue mani sciolte. Il collare ben visibile. Io mi voltai verso di lei. Alzai appena lo sguardo. “Signora…” dissi. Lei si voltò. Calma. Pronta. “Dobbiamo essere sempre nude, oppure in intimo scelto per lei?” Evelina sorrise. Si avvicinò. Ci guardò entrambe. Poi si accovacciò davanti a noi. La sua mano accarezzò le mie spalle. Poi la tua coscia. “Nude quando siete in obbedienza,” disse. “Quando entro in casa, quando vi chiamo a me, quando vi tocco, quando vi prendo… spogliatevi. Senza chiedere. Senza fretta. Ma senza trattenervi.” Fece una pausa. “Ma quando aspettate, quando mi servite, quando preparate la cena, o vi muovete per la casa… voglio vedervi in intimo scelto per me.” “Autoreggenti. Reggicalze. Body trasparenti. Nulla di volgare. Solo bellezza. Desiderio. Obbedienza sensuale.” Ci guardò. Poi aggiunse, più dolce: “Il vostro corpo non è mio perché è nudo. È mio quando si prepara per me.” Poi si alzò. “Vi vestirò io. Vi svestirò io. Ma non dimenticate: ogni pezzo addosso… è una parte di appartenenza.”
La casa era già mutata. Ogni stanza, ogni gesto, ogni luce… parlava solo di lei. Era venerdì. Tardi. Il vino già versato. La porta chiusa. Il mondo lasciato fuori. Evelina era in piedi al centro della stanza. Il foulard nero tra le dita. Una sedia vuota alle sue spalle. “Spogliatevi con grazia,” disse. E lo facemmo. Tu, Elena, lasciasti scivolare le autoreggenti lentamente. Io sbottonai il body davanti a lei. I collari ancora al collo. I nostri seni liberi. Le cosce pronte. Lei ci guardò. Poi fece un cenno. “Sedetevi. Una alla volta.” Io mi avvicinai per prima. Lei prese il reggicalze più scuro. Lo aprì. Lo tese. Me lo infilò lentamente. Tirando con cura le cinghie. Fermando ogni gancio con le dita. Poi le autoreggenti. Nere. Morbide. Filo di raso. Si chinò. Mi baciò la coscia. “Perfetta.” Poi fu il tuo turno, Elena. Ti sedesti. Lei ti scelse un intimo più chiaro. Color cipria. Con dettagli neri. Ti infilò lentamente il perizoma in pizzo. Ti accarezzò il cazzo con delicatezza, mentre lo sistemava sotto il tessuto. Poi ti mise il corsetto. Lo strinse piano. Ti guardò negli occhi mentre lo faceva. “Respira. Per me.” Poi le calze. Poi gli stivali. Infine, ci fece inginocchiare. Una a sinistra. Una a destra. “Da ora in poi, ogni venerdì sera comincerà così. Con voi che vi fate belle per me. E con me che decido quando togliervi tutto.”
Era lunedì mattina. L’ufficio sembrava lo stesso. Scrivanie in ordine. Macchina del caffè accesa. Volti tesi, ma abituati. Ma noi… avevamo ricevuto la mail. Oggetto: Ristrutturazione interna – decisione urgente Contenuto: poche righe. Freddo. I nomi: il tuo e il mio. Stessa posizione. Stesso reparto. "Una sola posizione potrà restare attiva. Entro venerdì vogliamo una scelta tra voi. In mancanza di accordo, decideremo noi." Tu mi guardasti da sopra il monitor. Io già ti stavo guardando. Fuori, il rumore del mondo. Dentro, il vuoto nello stomaco. Nel pomeriggio, andammo a pranzo insieme. Sedute al tavolo, senza appetito. “Non è un caso,” dicesti. E io annuii. “Forse ci hanno viste cambiare. Forse ci hanno sentite… libere.” Poi alzasti lo sguardo. “Dobbiamo decidere, amore. O lo faranno loro. E non ci piacerà.” Restammo zitte un istante. Poi dissi piano: “Abbiamo sette giorni. Sette notti. E una Signora che dovrà aiutarci.”
La porta si chiuse piano. Le giacche caddero sullo schienale. Le scarpe lasciate lì. Tu andasti in bagno. Io mi sedetti sul letto. Evelina ci raggiunse pochi minuti dopo. Un bicchiere d’acqua tra le mani. Nuda sotto il kimono. “Cos’è successo?” La sua voce era calma. Ma centrata. La guardai. Tu uscisti in silenzio. Ci sedemmo una accanto all’altra, ai suoi piedi. Le raccontammo tutto. La mail. I nomi. La scadenza. Lei non interruppe mai. Quando finimmo, si alzò. Camminò lentamente. Poi disse: “Non vi chiederò chi vuole rinunciare. Vi chiederò: chi è più utile fuori da lì? Chi può diventare più libera? Chi delle due, fuori da quell’ufficio… può fiorire davvero?” Ci guardò. “Io non voglio che una si sacrifichi. Voglio che una si elevi.” Fece una pausa. “Pensateci. E domani… mi darete la vostra risposta. Non da schiave. Da donne mie.”

Era sera tardi. Evelina ci aveva lasciate in salotto. La luce calda. Due coperte sulle gambe. La finestra socchiusa. Tu mi guardavi in silenzio, Elena. Poi rompesti l’aria. “Io potrei andarmene.” Ti voltai verso di te, lentamente. “Perché?” Rispondesti piano: “Perché tu sei più centrata lì. Più riconosciuta. Io… io sto fiorendo solo fuori da quelle mura.” Tesi la mano. Te la presi. “E tu pensi che io possa restare lì, sapendo che ti ho ‘tolto il posto’?” Sorridesti triste. “Non me l’hai tolto. Me lo sto lasciando dietro. Perché qualcosa di più grande… sta nascendo in me.” Feci un respiro. Poi risposi: “Se sei sicura, allora io resterò.” Ti avvicinasti. Appoggiasti la fronte alla mia. “Ma non voglio perdermi. Voglio costruire qualcosa che sia nostro, anche fuori da lì.” Annuii. “E lo faremo. Io lavoro. Tu… tu vivi. E ci guidi da un altro spazio.” Ci stringemmo. Piano. Ma strette. “Evelina sarà fiera,” dicesti. “Io lo sono già,” risposi.

La luce del mattino era chiara. Tutto sembrava normale. Ma non lo era. Evelina era già in cucina. Kimono chiuso, piedi nudi, sguardo attento. Non parlava. Aspettava. Ci sedemmo una di fronte all’altra, ma gli occhi erano su di lei. Parlai io per prima. “Signora… abbiamo deciso.” Lei posò la tazza. Senza fretta. Senza sorpresa. “Bene.” Tu continuasti. “Rimarrà lei.” Evelina ci guardò. Poi guardò me. “E tu? Sei d’accordo?” Annuii. “Non perché mi sento più forte. Ma perché lei, fuori da lì, è finalmente viva.” Evelina sorrise piano. “Non avete scelto chi si sacrifica. Avete scelto chi fiorisce.” Si alzò. Venne da noi. Ci prese il viso tra le mani. Ci baciò entrambe sulla fronte. “Ora… iniziamo a costruire il vostro nuovo ruolo. La vostra nuova libertà. Qui. Con me.”

La mattina era lenta. Ti vestisti con cura. Non come un addio. Come un saluto a qualcosa che ti ha tenuta troppo stretta. Tailleur grigio, camicia bianca, i tuoi stivali neri al ginocchio. E sotto… quel segno che solo noi sapevamo. Un perizoma in pizzo, e il profumo di Evelina sulla pelle. Entrammo insieme in ufficio. Tu pochi passi avanti. Io dietro. Ti seguivo senza parlare. Qualcuno ti salutò. Altri abbassarono gli occhi. Forse imbarazzo. Forse ammirazione. Arrivasti alla tua scrivania. Sistemasti le tue cose. Cartelle, libri, una pianta. Poi ti alzasti. Andasti dal direttore. Parlasti a voce bassa. Un gesto. Un cenno. Ti strinse la mano. Con un rispetto che forse non aveva mai mostrato prima. Poi ti voltasti. E tornasti da me. “È fatto,” dicesti. E io risposi: “Sei libera.” Uscimmo senza guardarci indietro. Nel silenzio. Ma dentro di te… c’era una voce nuova. Quella di chi non è stata licenziata. Ma scelta.

Rientrammo a casa in silenzio. Chiudemmo la porta. Lasciammo all’ingresso i cappotti. Le borse. Evelina era lì. Seduta sul divano. Un bicchiere di vino tra le dita. Le gambe accavallate. Un sorriso lento. Ti guardò. Solo te. “Vieni qui, Elena.” Obbedisti. Ti avvicinasti. E lei ti prese le mani. Poi parlò. “Non voglio sapere com’è andata. Voglio sapere come ti senti.” Rispondesti piano: “Leggera. Un po vuota… ma piena d’aria nuova.” Lei annuì. Si alzò. Ti portò davanti allo specchio grande, in camera. Fece un cenno. “Spogliati.” Lo facesti. In silenzio. Gonna. Camicia. Reggicalze. Perizoma. Tutto scivolò a terra. Lei prese dal cassetto un paio di mutandine nuove. Color nude. Sottili. Quasi trasparenti. E un reggicalze bianco. Con ganci d’oro. “Questi,” disse. “Sono la tua nuovo uniforme. Da oggi. Ogni mattina. Perché ogni giorno sarà tuo.” Ti vestì lentamente. Ti sistemò i ganci. Tirò su le calze. Poi si chinò. Ti baciò il ventre. “Benvenuta in casa. Non più come dipendente. Ma come donna libera. E mia.”

La casa era silenziosa. Ma non ferma. Respirava con noi. Con i nostri corpi nudi. Con le gambe lente. Con il profumo di intimo nuovo ancora addosso. Evelina ci fece entrare in camera senza parlare. Tu, Elena, indossavi ancora il reggicalze bianco. Io camminavo dietro, già nuda, già tua. Ci fece salire sul letto. Non ci ordinò nulla. Ci sfiorò. Una mano sul tuo seno. Una carezza tra le mie scapole. Il suo sguardo che si posava come bacio. “Stasera… non vi dominerò. Stasera vi ringrazio.” Si mise tra noi. Il suo corpo caldo. La sua pelle profumata. Le sue dita che ci cercavano senza fretta. Baciò le tue cosce. Baciò le mie labbra. Le sue mani si muovevano lente. Ci aprivano, ci stringevano, ci leggevano. Ogni gemito era basso. Ogni tocco… un atto d’amore. Non ci fu comando. Solo invito. E quando venimmo, una alla volta, nelle sue mani, contro la sua pelle, non fu come prima. Fu più pieno. Più calmo. Più nostro. Dopo, ci sdraiammo tutte e tre. Io da una parte. Tu dall’altra. Lei nel mezzo. Con le dita intrecciate. Il cuore aperto. E quella notte… nessuna di noi parlò. Perché tutto era già stato detto. Con la pelle.


La luce entrava piano. I corpi ancora intrecciati. Le lenzuola spostate. Il profumo sulla pelle. Ti svegliasti prima di me. Prima di lei. Il viso sereno. Il respiro lento. Ti alzasti in punta di piedi. Andasti in bagno. Poi in cucina. Quando tornasti, Evelina era sveglia. Ti guardò. Non disse buongiorno. Disse: “Vieni da me.” Obbedisti. Ti inginocchiasti accanto al letto. Lei si sedette. Ti prese il viso tra le mani. “Oggi è il tuo primo giorno senza l’ufficio,” disse. Tu annuisti. “E non sarà un giorno vuoto. Avrai ore. Gesti. Obiettivi.” Fece una pausa. “Oggi ti guiderò in tre momenti: cura del corpo, cura della casa, e piacere.” Si alzò. Aprì un cassetto. Tirò fuori una lista scritta a mano. Te la porse. “Dalle nove alle dieci: corpo. Bagno lungo. Depilazione. Profumo. Lingerie scelta. Calze. Tacchi.” “Dalle dieci alle undici: ordine. La camera nostra. Il letto rifatto con precisione. Le lenzuola stirate. Le candele accese.” “Dalle undici in poi… mi aspetterai. In ginocchio. Solo col collare. Con le gambe aperte. E il cazzo duro per me.” Ti guardò. Seria. Ma dolce. “Ce la farai, Elena?” E tu, amore, con la voce piena di certezza… rispondesti: “Sì, Signora.”

Ore 9:00 – Corpo. Ti chiudi in bagno. Lo specchio è leggermente appannato. Ti guardi. Nuda. Segnata dal piacere di ieri. Ma più bella. Apri l’acqua. Calda. Immergi il corpo nella vasca. Poi il rasoio. Le gambe. Le ascelle. L’inguine. Ogni gesto lento. Preciso. Come se stessi preparando un altare. Ti asciughi. Stendi la crema sulle cosce. Poi il profumo. Due gocce. Una dietro l’orecchio. Una sul pube. Poi apri il cassetto. Scegli l’intimo. Reggiseno chiaro. Perizoma in pizzo. Calze velate. Ti infili il reggicalze. Poi gli stivali. Tacco 12. Cammini nello specchio. Ti vedi. E ti riconosci.
Ore 10:00 – La casa. Entri in camera. Io sono uscita. Evelina è in riunione. Rifai il letto. Lenzuola pulite. Tiri i lembi con precisione. Nessuna piega. Appoggi i due cuscini al centro. Come da ordine. Poi le candele. Accese. Una ai piedi del letto. Una sul comò. Una accanto al collare. Ti inginocchi per raccogliere la biancheria della sera. La pieghi. La riponi. Ogni gesto è una offerta silenziosa.
Ore 11:00 – L’attesa. Togli le calze. Il reggiseno. Il perizoma, gli stivali. Resti solo con il collare. Ti inginocchi sul tappeto. Le cosce aperte. Il cazzo già duro. Il respiro fermo. Ogni minuto che passa… è dono. Sai che Evelina ti sta vedendo. O forse no. Ma sei pronta lo stesso. E quando lei entra… non dici nulla. Perché la tua obbedienza è già tutta lì.

La porta si apre. Silenziosa. Evelina entra. Tacchi lenti. Camicia nera, semiaperta. Sguardo calmo. Ma pieno. Ti trova inginocchiata. Nuda. Il cazzo duro tra le cosce aperte. Il collare perfettamente allacciato. Non dice nulla. Si avvicina. Ti gira attorno. Una mano sulle spalle. Una carezza lungo la schiena. “Brava, Elena.” Si inginocchia davanti a te. Prende il tuo viso. Ti guarda negli occhi. Sorride appena. “Sei pronta?” Tu annuisci. E lei non aspetta. Ti spinge dolcemente sul tappeto. Le mani sul petto. Le dita che scendono lungo il ventre. Sfiorano il cazzo duro. Non ti chiede nulla. Lo prende. Lo accarezza. Poi lo ingoia. Senza parole. Solo calore. Solo suzione lenta. Piena. Perfetta. Le sue mani ti tengono le cosce ferme. Ti guida. Ti domina con la bocca. Ogni affondo è controllo. Ogni gemito è permesso. Tu non ti muovi. Solo respiri. Solo offri. E quando lei ti guarda dal basso, con il cazzo ancora in bocca, e ti fa cenno con gli occhi… capisci che puoi venire. E vieni. Nella sua bocca. Tra le sue mani. Nel suo dominio. Evelina deglutisce. Poi si solleva. Ti bacia sulla fronte. Ti accarezza il ventre ancora tremante. “Ora sì,” sussurra. “Adesso… sei pronta per restare con me.”

Sul letto insieme siete abbracciate, il respiro spezzato, la pelle bagnata, le cosce lievemente tremanti. Evelina ti guardava dall’alto, in silenzio. Poi si abbassò. Ti mise una mano dietro la nuca, la fronte contro la tua. Poi Evelina parlò. A bassa voce. “Non è solo desiderio quello che ho per te.” Tu chiudesti gli occhi. “Non è solo piacere. E non è un capriccio. Io ti amo, Elena. Ti amo come donna. Come presenza. Come corpo che mi ha riportata in vita.” Le tue mani di tremavano. Non per paura. Per il peso dolce di quelle parole. Evelina continuò, più ferma. “So che ami mia figlia. So che siete legate da qualcosa che niente potrà spezzare. Ma ascoltami bene: io non sono qui per toglierla a te. E non sono gelosa. Non potrei mai esserlo.” Si fermò, poi sussurrò. “Voi due mi avete aperto una stanza che avevo chiuso da troppo tempo. E in quella stanza… ci sei tu. Tu che mi hai guardata con occhi che non giudicavano. Tu che mi hai lasciato entrare. Tu che mi hai fatto sentire di nuovo desiderabile.” Ti prese il volto tra le mani. Ti guardò dritta negli occhi. “Elena… non devi scegliere. Non devi dividerti. Ti amo. E basta. E se mi terrai anche solo in un angolo del tuo cuore… io resterò lì. Con gratitudine. Con amore. Con tutta me stessa.” Non parlasti. Ti scivolò solo una lacrima. Calda. Poi ti chinasti. Le baciasti le mani. E dicesti soltanto: “Resta. Ti prego. Resta.”

Evelina ti teneva ancora il volto tra le mani. “Resta. Ti prego. Resta,” avevi detto. Ma poi ti tirasti leggermente indietro. La guardasti. E finalmente parlasti. “Evelina…” La voce era roca. Ma stabile. “Tu mi hai vista prima ancora che io riuscissi a guardarmi. Mi hai accolta come una donna. Senza domande. Senza difese. E adesso mi dici che mi ami… e io non voglio più fuggire da questo.” Ti fermasti. Respirasti piano. Poi sorridesti, con tenerezza. “Con Elisa ho trovato casa. Con te… ho trovato tutto.” La toccasti sul petto, sopra il cuore. “Se c’è un posto per te in me… non sarà un angolo. Sarà una stanza intera. Aperta. Viva.” Poi ti avvicinasti. La fronte contro la sua. E sussurrasti, solo per lei: “Ti amo anch’io, Evelina. E non ho paura di dirtelo.”


P.S.: Grazie per seguire le mie storie e sarei contenta di leggere i vostri commenti o di ricevere un like se vi fosse piaciuta questa. E’ un modo per capire se continuare a scrivere la storia. Accetto suggerimenti con i vostri messaggi in privato.

A presto.
Tanya.

tanya.romano.1966@gmail.com ( per i vostri commenti o suggerimenti )

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scritto il
2025-08-27
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