: La cameriera di Cantù
di
Angelo B
genere
prime esperienze
Prefazione
Ci sono certi posti che passano inosservati a tutti, ma che per qualcuno diventano il centro del mondo. Per me fu un bar di Cantù, anonimo, con i tavolini traballanti e il caffè mediocre. Ma ogni mattina, quel posto si trasformava in qualcosa di diverso. Perché c’era lei.
⸻
Era appena maggiorenne, ma lo sguardo aveva già qualcosa di adulto, di pericoloso. Una bellezza semplice, non costruita: coda disordinata, jeans stretti, maglietta nera aderente e un grembiule che faceva sembrare il suo corpo ancora più sinuoso. C’erano curve che cercavano di uscire da quei vestiti troppo stretti per contenerle. E poi c’era quel modo di muoversi. Non era voluto, ma era letale.
Entravo sempre alla stessa ora. Sempre allo stesso tavolo. E lei lo sapeva. Mi lanciava sguardi fugaci mentre serviva, a volte rallentava appena il passo quando passava vicino. Un giorno, quando mi portò il caffè, si fermò.
«Sempre da solo?» chiese con un sorriso tagliente.
«Non è un posto per due, questo.»
«Magari un giorno ti faccio compagnia io. Quando finisco il turno.»
La guardai, cercando di capire se stesse scherzando. Ma non sorrideva più. Aveva detto sul serio.
⸻
La sera
Alle otto e dieci la vidi uscire dal retro. I capelli erano sciolti ora, lunghi e morbidi sulle spalle. Niente più grembiule. Solo una maglietta corta, jeans attillati e un giubbottino che portava aperto, lasciando intravedere un accenno del ventre piatto.
«Hai ancora voglia di compagnia?»
«Più di quanto immagini.»
Salimmo in macchina. Bastarono pochi istanti per sentirla vicina. La sua mano si posò sulla mia coscia con una naturalezza disarmante. Si avvicinò all’orecchio:
«Ho voglia di sentirmi sporca. Ma solo con chi mi guarda come mi guardi tu.»
Parcheggiammo dietro una palestra chiusa da anni. Il silenzio era complice. Lei si spostò sopra di me, inarcando la schiena, e premette il bacino contro il mio con un ritmo lento ma preciso. Il calore del suo corpo passava attraverso i vestiti, ma era già troppo.
Le sbottonai i jeans, centimetro dopo centimetro, mentre lei mi guardava mordendosi il labbro. Sollevò i fianchi, lasciandomi sfilarle i pantaloni. Indossava solo un paio di slip bianchi, sottili. Nulla sotto la maglietta.
Le mie mani scivolarono sulle sue cosce lisce, poi sui fianchi, e infine su quella pelle calda che non voleva più restare nascosta. Lei sospirava contro la mia bocca, muovendosi sopra di me come se stesse danzando, con un controllo assoluto sul desiderio.
Si spogliò lentamente, con un gioco di sguardi che diceva tutto. Rimase nuda dal busto in su, e quando le presi un seno tra le labbra, lei affondò le unghie sulle mie spalle, ansimando con un filo di voce:
«Più forte… voglio che mi resti addosso domani.»
Il sedile posteriore ci accolse in una confusione di respiro, pelle e gemiti trattenuti. Le sue gambe mi strinsero con forza, mentre lei si muoveva con una fame che sembrava esplosa all’improvviso, ma che forse covava da tempo. Era giovane, sì, ma sicura. Selvaggia. Indomabile.
Ogni suo respiro, ogni sua scossa, ogni suo gemito vicino all’orecchio era come benzina sul fuoco. L’istinto prese il sopravvento. Non esisteva più nulla, solo noi due, e il rumore ritmico del desiderio che si consumava in quell’auto nascosta, come se il mondo potesse finire da un momento all’altro.
⸻
Epilogo – Il ricordo più vivo
Il silenzio che seguì fu denso, avvolgente. Lei era distesa su di me, il petto nudo che aderiva al mio. Il suo respiro piano, le dita che ancora mi accarezzavano il collo. Aveva gli occhi chiusi, ma sorrideva.
Le accarezzai il fianco, sentendo sotto i polpastrelli la pelle ancora calda e tesa.
«Non ti aspettavi fossi così», disse.
«No», ammisi, «sei molto più di quello che pensavo.»
Si rivestì piano, come se non volesse rompere la magia di quel momento. Ogni gesto era una danza: la maglietta che scivolava sul seno, gli slip risistemati con una piccola alzata di fianchi, il jeans tirato su lentamente.
Ma prima di infilarseli del tutto, si voltò di spalle e si chinò per raccogliere il giubbotto. Lo fece apposta. Sapeva che stavo guardando. Il suo lato B, sodo e perfetto, rimase nudo e teso per un istante eterno. Un istante che mi rimase dentro.
«Ti piace, eh?» chiese senza voltarsi.
«È il più bello che abbia mai visto», dissi. E non mentivo.
«Ricordatelo. È tutto tuo… quando vuoi.»
Uscì dalla macchina e svanì nel buio di Cantù, lasciando dietro di sé l’eco del suo profumo e quella visione incancellabile. E io, da quella notte, non ordinai mai più solo un caffè.
Ci sono certi posti che passano inosservati a tutti, ma che per qualcuno diventano il centro del mondo. Per me fu un bar di Cantù, anonimo, con i tavolini traballanti e il caffè mediocre. Ma ogni mattina, quel posto si trasformava in qualcosa di diverso. Perché c’era lei.
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Era appena maggiorenne, ma lo sguardo aveva già qualcosa di adulto, di pericoloso. Una bellezza semplice, non costruita: coda disordinata, jeans stretti, maglietta nera aderente e un grembiule che faceva sembrare il suo corpo ancora più sinuoso. C’erano curve che cercavano di uscire da quei vestiti troppo stretti per contenerle. E poi c’era quel modo di muoversi. Non era voluto, ma era letale.
Entravo sempre alla stessa ora. Sempre allo stesso tavolo. E lei lo sapeva. Mi lanciava sguardi fugaci mentre serviva, a volte rallentava appena il passo quando passava vicino. Un giorno, quando mi portò il caffè, si fermò.
«Sempre da solo?» chiese con un sorriso tagliente.
«Non è un posto per due, questo.»
«Magari un giorno ti faccio compagnia io. Quando finisco il turno.»
La guardai, cercando di capire se stesse scherzando. Ma non sorrideva più. Aveva detto sul serio.
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La sera
Alle otto e dieci la vidi uscire dal retro. I capelli erano sciolti ora, lunghi e morbidi sulle spalle. Niente più grembiule. Solo una maglietta corta, jeans attillati e un giubbottino che portava aperto, lasciando intravedere un accenno del ventre piatto.
«Hai ancora voglia di compagnia?»
«Più di quanto immagini.»
Salimmo in macchina. Bastarono pochi istanti per sentirla vicina. La sua mano si posò sulla mia coscia con una naturalezza disarmante. Si avvicinò all’orecchio:
«Ho voglia di sentirmi sporca. Ma solo con chi mi guarda come mi guardi tu.»
Parcheggiammo dietro una palestra chiusa da anni. Il silenzio era complice. Lei si spostò sopra di me, inarcando la schiena, e premette il bacino contro il mio con un ritmo lento ma preciso. Il calore del suo corpo passava attraverso i vestiti, ma era già troppo.
Le sbottonai i jeans, centimetro dopo centimetro, mentre lei mi guardava mordendosi il labbro. Sollevò i fianchi, lasciandomi sfilarle i pantaloni. Indossava solo un paio di slip bianchi, sottili. Nulla sotto la maglietta.
Le mie mani scivolarono sulle sue cosce lisce, poi sui fianchi, e infine su quella pelle calda che non voleva più restare nascosta. Lei sospirava contro la mia bocca, muovendosi sopra di me come se stesse danzando, con un controllo assoluto sul desiderio.
Si spogliò lentamente, con un gioco di sguardi che diceva tutto. Rimase nuda dal busto in su, e quando le presi un seno tra le labbra, lei affondò le unghie sulle mie spalle, ansimando con un filo di voce:
«Più forte… voglio che mi resti addosso domani.»
Il sedile posteriore ci accolse in una confusione di respiro, pelle e gemiti trattenuti. Le sue gambe mi strinsero con forza, mentre lei si muoveva con una fame che sembrava esplosa all’improvviso, ma che forse covava da tempo. Era giovane, sì, ma sicura. Selvaggia. Indomabile.
Ogni suo respiro, ogni sua scossa, ogni suo gemito vicino all’orecchio era come benzina sul fuoco. L’istinto prese il sopravvento. Non esisteva più nulla, solo noi due, e il rumore ritmico del desiderio che si consumava in quell’auto nascosta, come se il mondo potesse finire da un momento all’altro.
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Epilogo – Il ricordo più vivo
Il silenzio che seguì fu denso, avvolgente. Lei era distesa su di me, il petto nudo che aderiva al mio. Il suo respiro piano, le dita che ancora mi accarezzavano il collo. Aveva gli occhi chiusi, ma sorrideva.
Le accarezzai il fianco, sentendo sotto i polpastrelli la pelle ancora calda e tesa.
«Non ti aspettavi fossi così», disse.
«No», ammisi, «sei molto più di quello che pensavo.»
Si rivestì piano, come se non volesse rompere la magia di quel momento. Ogni gesto era una danza: la maglietta che scivolava sul seno, gli slip risistemati con una piccola alzata di fianchi, il jeans tirato su lentamente.
Ma prima di infilarseli del tutto, si voltò di spalle e si chinò per raccogliere il giubbotto. Lo fece apposta. Sapeva che stavo guardando. Il suo lato B, sodo e perfetto, rimase nudo e teso per un istante eterno. Un istante che mi rimase dentro.
«Ti piace, eh?» chiese senza voltarsi.
«È il più bello che abbia mai visto», dissi. E non mentivo.
«Ricordatelo. È tutto tuo… quando vuoi.»
Uscì dalla macchina e svanì nel buio di Cantù, lasciando dietro di sé l’eco del suo profumo e quella visione incancellabile. E io, da quella notte, non ordinai mai più solo un caffè.
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