Prima di cadere verso la fine

di
genere
voyeur

[Finale, parte seconda. Questo racconto si ricollega ad altri precedenti, che menzionerò alla fine del testo. Se questo è il primo che leggete, tornate indietro.]

--- 2

Ricordo perfettamente la prima “Alice”.
A quel tempo, gli affari faticavano a decollare, nonostante io e il mio socio ce la mettessimo tutta per portare avanti il locale. L’idea di una enoteca era stata mia, giovane imprenditore figlio di imprenditori, esperto di vino, fresco di scuola per mixologi. Lui invece era quello concreto, amante del denaro, amico di amici, meno fantasioso ma più ambizioso. L’insegna del locale, attaccata alla porta di ingresso, recitava una poesia che spacciavo come di mia invenzione: una sorta di metafora della vita per come la intendo io, che è anche il motivo fondamentale per cui adoro fare questo mestiere.
La mia attitudine, infatti, è quella di parlare con la gente. Mi piace ancora di più parlare con la gente quando è disinibita, ben disposta, in altre parole quando stanno ubriachi come le scimmie. È come se somministrassi loro un siero della verità. Sono capaci di confidarti i loro peggiori segreti come se chi li ascolta fosse pronto ad accoglierli e accudirli nella loro più completa ridicolezza. Ho sempre pensato che dietro al più frivolo dei comportamenti umani ci fosse una sorta di romantica, dignitosa poesia.
Spesso, capitava di offrire loro un calice o uno shot e di brindare insieme per mantenere l’atmosfera distesa. Il mio socio odiava questa mia strategia di marketing, quasi totalmente a perdere.
Eppure, fu così che Tom, o almeno il primo dei “Tom”, mi confidò la sua “Alice”.
«Vedi questo?»
«Si, lo vedo…»
«Questa è una idea sua… lo capisci? Cristo che maiala!» disse lui, già ubriaco dopo il terzo whiskey, mostrandomi l’immagine di un vibratore con comando a distanza.
«Ma te come l’hai conosciuta?» chiesi io, incuriosito.

«Beh sai… nei soliti modi con cui si conosce la gente on-line. Si inventano quattro cazzate per farsele amiche e poi… si prova a scopà.»
Wow. Che originalità. Aveva tutta l’aria di essere una testa di cazzo certificata.
«Quindi semplicemente l’idea è che tu vada lì, la incontri, ti presenti, ti connetti con quell’app e inizi a farla vibrare?»
«Esatto. Semplice e fico, no? Ha detto che le piacerebbe sentirsi “suonata” da me…»
«Perché, sei un musicista?»
«Assolutamente no! Ma sai, si dice qualsiasi cosa in quei contesti lì. Ho finto di essere un liutaio. Ogni tanto copio-incollo alcune informazioni da wikipedia. Col tempo ho perfino imparato molti termini tecnici! Sembra aver funzionato.»
Eh, insomma. era davvero un coglione.
Riflettei sul fatto che potesse essere interessante come situazione, ma il tipo non lo vedevo affatto bene nella veste di giocatore perverso: troppo semplice, troppo tronfio, troppo poco creativo. Si sarebbe fatto scoprire subito e soprattutto avrebbe fatto scappare quella ragazza a gambe levate. Magari la ragazza era così intelligente che aveva già capito di avere a che fare con un cretino e lo avrebbe lasciato cuocere nel suo brodo.
Davide, nel frattempo, rimaneva davanti alla cassa e non ascoltava una parola di quello che lo svampito cliente ubriaco marcio mi stava confidando.
«Quindi basterebbe scaricarsi l’app e sincronizzarsi con l’oggetto infilato su per…»
«Eh, sì. Oppure col telecomando!» mi disse lui, mostrandomi un piccolo affarino rosa con due pulsanti.
«E quando dovresti incontrarla?» chiesi con finto disinteresse.
«Beh, in teoria tra poco, questa sera!» rispose lui, ormai strafatto come quegli elefanti molto simpatici della savana che usano sgranocchiare le bacche contenenti alcol.
Tempo pochi minuti e il povero Tom, ormai derubricato a caricatura di un beone, avrebbe cessato di blaterare, lasciandosi ronfare in un divanetto in fondo alla sala che io avevo appositamente liberato per fargli spazio. Chiamai quindi qualcuno che lo aiutasse a ritornare a casa, ma non prima di estrarre dal povero idiota le informazioni necessarie sul dove e sul come. Trattenni per me una cospicua mancia: avevo sottratto quel piccolo telecomando. L’idea “malvagia” si era infatti palesata nella testa come un fungo difficile da estirpare.
Raggiunsi Davide alla cassa e gli sussurrai all’orecchio che mi stavo allontanando per qualche ora. Lui non fu contentissimo ma evitammo di fare discussioni, poiché si era già rotto le palle.
Uscii quindi dal locale con la mia solita faccia di cazzo e raggiunsi il posto designato. Attesi pazientemente la tipa che avrebbe dovuto incontrarsi con lo scemo dell’ovetto. Conoscevo già quel posto: una vecchia piola ben tenuta gestita da marito e moglie, ormai anzianotti. Mi appoggiai al bancone, sorseggiando una Rauchbier, non avendo minimamente idea di cosa avrei potuto fare. Da un lato, mi sentivo legittimato a sottrarre una povera donzella dalle grinfie di quello stupido contaballe. Dall’altro, c’era una tensione dentro di me che mi spronava a vivere la trasgressione fino in fondo. In tasca, manipolavo il piccolo telecomando fucsia con le dita.
Non appena vidi entrare la ragazza, capii subito che potesse trattarsi di “quella” e ne fui estasiato. Le descrizioni dell’ebete coincidevano quasi perfettamente, forse addirittura meglio delle aspettative. Riconobbi il tatuaggio a forma di chiave di violino, i capelli mori, ondulati, sontuosi.
Aspettai qualche istante prima di prendere una qualsiasi decisione. Quando pigiai il pulsante, la osservai aguzzare la vista e iniziare a guardarsi intorno, al che ero già infatuato, conquistato e anche fottutamente arrapato.

--- 4

Ricordo che fu quasi surreale. Improvvisamente, fui catapultato in una specie di gioco osceno, perverso e machiavellico dove due teste pensanti, arrapate e desiderose di nuove emozioni, si scontravano come avversari a scacchi.
Se avessi pigiato il pulsante sarebbe stata una vittoria o una sconfitta? Cosa sarebbe successo all’avvio? E se l’avessi invece lasciato spento? In tutto questo, c’era un fatto importante da considerare: il povero idiota avrebbe potuto palesarsi al locale da un momento all’altro, risvegliatosi dalla sbornia. Io per fortuna avevo un piccolo vantaggio, poiché sapevo che volto avesse, ma dovevamo comunque agire in fretta.
«Se ottengo una qualsiasi reazione, un sussulto, un verso, una smorfia, verrai con me? Otterrò la tua presenza?» fu la mia domanda.
«Così sia. Rivendichiamo la libertà e stabiliamo delle regole.» rispose lei, con una tracotanza che quasi mi lasciò stupito. Tutto ciò mi intrigava parecchio ma al tempo stesso volli mantenere un certo atteggiamento prudenziale.
«Non ci siamo neanche stretti la mano, non ci siamo presentati, non ci siamo scambiati alcun convenevole. Non trovi che tutto ciò sia assurdo?» provai a temporeggiare io.
«Te ne frega qualcosa? A me non frega un cazzo, ormai. Sto parlando con una persona che si finge un’altra persona, che a sua volta fingeva di essere quello che non era. Cosa posso aspettarmi da te, quindi? A questo punto, forse è meglio come dici tu: Si fa quel che si vuole! Ci si butta, senza aspettare che altri decidano per te. Tu vuoi sfidarmi? anche io dunque ti sfido.»
Era la risposta che stavo cercando.
Mi alzai e feci due passi di fronte a lei. Lei rimase a fissarmi coi suoi begli occhi scuri penetranti, a pochi centimetri dal mio giro vita. Cercai di capire se il suo sguardo potesse rimanere tradito dalla pericolosa vicinanza del mio bacino, provando a scrutare qualcosa nel suo volto impassibile. Non avevo ancora azionato alcun telecomando ma già sentivo l’aria vibrare tutta intorno.
«Ci vorrà molto? Io mi sto annoiando.» diceva lei, sebbene non avesse per nulla l’aria di chi si annoia.
Avvicinai la sedia e mi chinai a guardarla fissa negli occhi. Decisi che non l’avrei fatta eccitare con quell’insulso telecomando e un ovetto artificiale nella fica. Realizzai, infatti, che l’unico modo per vincere quella partita era giocare davvero sporco.
Quindi, la baciai.
La baciai come credo di non avere mai baciato nessuno in vita mia. Lei accolse le mie labbra con una morbidezza che potrei quasi dipingere olio su tela. La vidi rispondere in modo appassionato a quel bacio al punto che mi si aggrappò al collo con forza per stringermi a sé. Sentivo il suo cuore battere forte, all’unisono con il mio. Era eccitata tanto quanto me, capimmo di essere due fuochi a contatto per diventare plasma.
Fu davvero un bel bacio. Stavo forse per vincere la partita. O almeno, così credetti.
A quel punto, mi domandai, da buon narcisista perennemente insoddisfatto: perché non stravincere?
Azionai il telecomando, pregustandomi il suo volto incrinato dal piacere vibratorio di un oggettino nella fica, frutto della sua mente perversa che le si ritorceva contro.
Tuttavia, la ragazza sembrò non battere ciglio. Anzi: Sorrideva malignamente.
Perché cazzo sorrideva? Era tanto bella e stupefacente nel suo ridere di quelle assurde porcate tra sconosciuti, eppure, il dilemma rimaneva e diventava sempre più inquietante: Perché cazzo sorrideva, anziché mugolare?
D’un tratto, mi mostrò quello che teneva in mano.
Era l’ovetto.

--- 6

Proseguimmo la nostra passeggiata, ormai lontani dalla piola che ci aveva fatti conoscere.
«Quindi non avresti mai indossato quell’ovetto…» chiesi io, sorridendo.
«Mmmh, diciamo di no. Era soltanto un pretesto. Avevo bisogno di tenere il controllo su molte cose. Mi piaceva l’idea di far credere a qualcuno che mi possa piegare in due dal piacere sforzandosi con poco. Voi uomini siete così ridicoli quando avete l’illusione del potere. Te compreso. Se non altro, tu sei stato meno ridicolo di molti altri. Inoltre, sei stato sincero con me.»
«Ok. Mi sta bene. E adesso?»
Ci guardammo, per la prima volta in silenzio, senza perdere tempo in chiacchere. Ci baciammo di nuovo, giusto il tempo di un nuovo stacco narrativo, prima di ricominciare a raccontare quel che avvenne dopo.


--- 8

Ero pazzo. Pazzo di lei. Pazzo per via di quel fottuto mondo malato in cui eravamo costretti a respirare, a cacare, a ubriacarci per sfuggire ai pensieri, a scopare per paura di rimanere soli o peggio a scopare con sconosciuti per paura di potersi legare davvero a qualcuno. Ero pazzo di quel gioco perverso e della possibilità che si potesse replicare, ansioso di sapere in che modo le altre persone avrebbero tentato di uscire dalla palude in cui vivono tutti i giorni.

Decidemmo di replicare il gioco ogni anno. Le regole erano semplici: Saremmo stati noi a decidere i nomi fittizi: Tom per l’uomo, Alice per la donna.
Avremmo cercato due persone a caso e le avremmo fatte conoscere, esattamente come il caos aveva fatto con noi. Avremmo fatto in modo che si incontrassero sempre allo stesso locale, anno dopo anno, in modo da poter assistere al loro incontro, seduti a debita distanza.
La prima coppia me la ricordo molto bene; si piacquero quasi subito. Io chattavo con lei mentre Miriam chattava con l’uomo. Ogni giorno, ci confrontavamo e coordinavamo le cose da dire, in modo da poter minimizzare gli equivoci. Cercavamo di filtrare gli interessi in comune tra di loro, per convertirli a nostro piacimento e mescolarli con alcune nostre caratteristiche (foto, video, idee di sexting).
Quando capimmo che il gioco stava portando davvero all’incontro dal vivo, fummo sorpresi dallo scoprire che la proposta dell’ovetto eccitava chiunque, a prescindere dal contesto.
Rivivere quelle dinamiche fu come un potente narcotico. Eravamo ormai dipendenti l’uno dall’altra. I nostri due personaggi impiegarono un po’ di tempo a capire che si trattasse di un incontro combinato, ma furono ben felici di approfittarne. D’altronde, sapevano abbastanza l’uno dell’altra da potersi consentire di non pensare più di tanto al “come” fossero finiti lì.
Il punto di primo incontro era sempre quella piola senza nome, anonima come le loro identità.
L’ovetto a volte iniziava già vibrante, altre volte iniziava da spento. Dipendeva dai casi e dal nostro umore.
A pochi tavoli di distanza, io e Miriam eravamo soliti commentare l’incontro come se fossimo telecronisti di una partita di tennis.
Ci eccitava così tanto quel ruolo di osservatori onniscienti che spesso sovrapponevamo i loro dialoghi (difficili da carpire) coi nostri.
Spesso, finivamo per affondare le mani l’uno nelle intimità dell’altra. Finivamo per masturbarci a vicenda nel silenzio della nostra perversione, ammirando il caos mentre evolveva col suo gioco, godendo dei risvolti piccanti e grotteschi di quegli appuntamenti al buio.

La terza coppia di “Tom e Alice” non arrivò mai a incontrarsi. Lei stava per giungere sul ciglio del locale ma la vedemmo tornare indietro subito dopo, probabilmente per un ripensamento. Fu una grande delusione. Eravamo vicini all’idea di smettere una volta per tutte con quel gioco perverso.
Ci rendemmo conto che era pericoloso, poiché qualsiasi cosa sarebbe potuta andare storta. Avrebbero potuto scoprirci in molti modi e chissà quali sarebbero state le conseguenze.
Comunque, forse era stato meglio così. Quella “Alice” era giunta fino a lì dopo un viaggio in treno e sebbene apparisse piuttosto coinvolta, appariva anche lacerata dai dubbi. Miriam, invece, fu parecchio risentita per via di quello sforzo vanificato.
Solitamente, a fine serata, per celebrare l’unione caotica dei due sconosciuti, brindavamo e facevamo all’amore. Quella sera, invece, ognuno per casa sua.
Io avevo già lasciato il mio lavoro al locale, attanagliato dai contrasti col socio. Inoltre, avevo ripreso a bere più del solito. Lei, invece, era rimasta a lavorare. Ci legava soltanto quel gioco assurdo, fatto di misteri e di inganni.

Ed eccoci dunque a stasera. L’ennesima coppia tirata su, dopo alcuni mesi di preparazione. Da come Miriam descriveva il quarto “Tom”, sembrava essere un po’ più taciturno di altri, emotivamente coinvolto più del solito. Io invece avevo riscontrato nella quarta “Alice” una persona molto più ruvida, istintuale, sfacciata. Sarebbe stato interessante capire come si sarebbero confrontati.
«Sai che stavolta Tom non sa dell’ovetto?»
«Ah. Ma come, avevi detto che…»
«Ho mentito. Questo Tom non credo sia adatto…»
«E allora che si fa adesso? Alice ha già indosso il toy.»
«Lascialo acceso, vediamo che ne esce fuori.» fu la risposta di Miriam.
Era sempre stata lei quella audace, quella che avrebbe voluto vedere bruciare il mondo. Forse, era davvero l’ultima volta. Forse, dovevamo smetterla con quell’assurdo gioco.
Anche Miriam se ne era resa conto.
«Perché continuiamo a farlo?» chiede lei.
«Non lo so.» rispondo io.
La guardo in modo intenso e le stringo la mano.
Nel frattempo, mi rendo conto di aver dimenticato il telecomandino acceso. I nostri due personaggi sono seduti a poca distanza e sembra stiano già litigando. Ormai non stiamo neanche più prestando attenzione. “Alice” ha appena tirato l’ovetto in faccia a lui, incazzata come una iena. Lui sembra sconvolto e penso che gli servirà più di una sbronza per poter superare quell’assurdità. Miriam sta ridendo, cercando mantenere un tono composto per evitare di farsi scoprire. Approfitto dunque di questo momento assurdo per fare l’ennesima mossa azzardata. L’ennesimo rocambolesco inganno del destino.
«Miriam, so che è strano farti questa domanda proprio in questo luogo, mentre assistiamo a questa scena…» dico io.
«Oddio…» risponde lei, capendo al volo.
Mi inginocchio, tenendo in mano un cofanetto e rivelando l’anello al suo interno. Vedo Miriam commuoversi e arrossarsi.
«Miriam: Mi vuoi sposare?»
«Si! Lo voglio…»
Siamo dei veri e propri deficienti, sadici e innamorati. Ci baciamo, concentrati solo su di noi. Sul presente e sul futuro. Smettiamo di riscrivere il passato, smettiamo di rimuginare sul tempo trascorso e concentriamoci su cosa fare da qui in avanti.
Io, nel frattempo, rimango senza lavoro e conduco una vita di rendita.
Ma adesso, possiamo darci una chance di essere felici, insieme.
La nostra “Alice” è già andata via. Il nostro “Tom” si guarda intorno stranito, per poi sparire anche lui. Insieme a loro, spariscono i nostri demoni, i nostri universi intrecciati. L’ovetto cade per terra, rotolando. Il caos è giunto alla sua fine.

Chissà se i proprietari della piola hanno intenzione di vendere il locale. Sarebbe un peccato perdere questa magica atmosfera. Magari è la volta buona che rileviamo questa attività per provare a darle una nuova identità. La stessa identità che siamo riusciti a ritagliarci io e Miriam in queste serate inaudite e paradossali.
“L’osteria di Tom e Alice”.
Una piola a gestione familiare, lei una musicista disincantata, io un mezzo alcolista pecora nera della famiglia. Un luogo dove i casi umani, gli equivoci e vini di qualità si intrecciano con le loro storie diverse, creando un mosaico fatto di infinite tessere che sembrano cadere in un abisso, verso la fine. Già immagino di appendere nuovamente la mia poesia sulla porta, trasportata dal vecchio locale al nuovo ristorante. Sei versi, un elogio del tempo perso a sognare, a dubitare, ad accettare nuove sfide e per glorificare le grandi e imprevedibili emozioni del nostro vivere:

“L’importanza del vuoto,
sospesa su un filo tra due rocce scoscese.
All’interno di un universo tumultuoso,
solcato da sentieri che si intrecciano,
fino a equilibrare il Caos,
prima di cadere verso la fine.”


[Per recuperare i capitoli precedenti, basta affidarvi ai versi della poesia e vi sarà facile orientarvi. Grazie per essere arrivati - o meglio "caduti" - fino a qui. J. Z.]
scritto il
2024-10-19
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