Colpo su colpo (Love in the shadow) Cap. 3

di
genere
pulp

Graziosa! Lupe! Mamy! Ahi! Lupe Grande! Ho setacciato il quartiere, sono stata molto cattiva. La tizia nella prima casa non mi era bastata. Avevo dormito per mille anni, ora la sete implacabile di sangue non mi dava tregua. Mi sono liberata dei vestiti e ho camminato nuda sotto il temporale. Avevo preso due tizi incontrati per caso e li avevo morsi subito. “Quant’ è ridicola la vita”, gli avevo detto.
“È finita così senza che non ve ne siate nemmeno resi conto”.
Ho scaraventato il primo contro il muro di un palazzo. È andato in mille pezzi come se fosse stato di vetro. L’altro l’ho stretto nelle catene, poi ho usato il machete.
- Quella cazzo di Lullaby Mortem che cazzo va cercando secondo te? Pasticcina –
- Guai. C_Ca –
I sicari di Lucy mi avrebbero trovata presto. Dovevo sbrigarmi, prima dell’alba o sarebbe finito tutto. Cominciavo a vederci chiaro, la bambina con i girasoli aveva fatto qualcosa alla mia mente. Avevo il sospetto che fosse parte del suo piano. La pioggia si era appena fermata quando avevo incontrato quella donna. Dormiva rannicchiata sotto un grande cappello nero, appoggiata con le spalle ad un muro coperto di graffiti, proprio sotto la scritta Sell Your Soul, lasciata da qualche balordo. Non poteva essere una coincidenza. Mi sono avvicinata a lei e le ho sollevato la testa afferrandole il mento tra indice e pollice. Dalla lama del machete cadevano ancora le gocce di sangue delle mie prede, come un filo rosso nel labirinto di terrore alle mie spalle.
“Il dolore sta bussando alla tua porta. Hai paura?”
“No”
“Dovresti. Non ti sembra soltanto…”
“Gli occhi del Nilo si sono aperti. Non andrai lontano comunque”.
Mi aveva interrotta senza dare importanza alle mie parole. Avrei voluto alzare il machete e scagliarlo sulla sua gola, ma qualcosa mi diceva che sarebbe stato meglio non farlo. Sentivo di nuovo la confusione impossessarsi della mia mente.
“Quella bambina che cerchi, è lei ad averti trovata”
“Chi accidenti sei?”
“Un sogno dentro un sogno. Non volevi la verità?”.
Il muro coperto di graffiti alle sue spalle è svanito. Mi ha preso per mano, per condurmi in un posto. L’ho seguita senza fare domande, un lungo viale di cipressi, la Luna piena illuminava le colline intorno a noi con il suo chiarore offuscato dalle nuvole. Non ho avuto paura, anche la voglia di uccidere si era placata. Abbiamo superato un cancello di ferro socchiuso, un cimitero. Le lapidi luccicavano sotto il plenilunio. Al centro di un incrocio tra i viali del cimitero mi sono fermata per osservarla meglio, ma non sono riuscita a cogliere nulla dei suoi lineamenti, quasi non ricordavo neanche il suo viso. Al fondo del viale ho visto C. A. Se ne stava in piedi a fissarmi, stringendo un mazzo di rose nere al petto. Ho pensato stesse facendo lo stesso sogno, soltanto da un altro punto di vista. Non ha parlato, non si è mosso. Mi ha fatto pensare alle parole della canzone The Killing Moon. Poi la donna ha ricominciato a camminare fino a raggiungere l’ingresso di un sepolcro. La bambina dei girasoli attendeva sulla porta. Quando ci siamo avvicinate mi ha sorriso.
“Riesci a leggere la scritta qui sopra?”. Ha indicato con lo sguardo l’incisione sopra l’ingresso del sepolcro. Prima di risponderle sono scoppiata a ridere, subito dopo ho sentito il calore delle lacrime scendere lungo le guance.
“Si”
“Che vi è scritto, dolce sorella?”
“Il mio vero nome”.

REEL TWO, VENTO IN GALLERIA

“Visto? Te l’avevo detto che sarebbe successo qualcosa”.
“Cazzo! Siamo fottuti!”
A quel punto mi sono accorta degli oggetti nella cabina rovesciati sul pavimento, la nave oscillava paurosamente cambiando la sua inclinazione in una manciata di secondi.

L’acqua aveva invaso metà delle cabine, la gente a bordo sembrava impazzita. Molti correvano lungo i corridoi della nave senza la minima idea di come mettersi in salvo. Ho cercato di restare incollata a C. A. era l’unica speranza che avevo di uscire viva da quel casino. Siamo stati travolti da una folla di persone in fuga. Annaspavano nell’acqua fino alla vita cercando di mettersi in salvo. Ho stretto forte la mano di C. A.
Gli stavo urlando: “Non mi mollare!”. Lui ha cercato di tirarmi a sé, ma sentivo la presa scivolare via. Il suo guanto da motociclista si è sfilato dalla mano proprio quando la nave si è coricata su un fianco. Le luci si sono spente e sono finita sotto. Qualcosa deve avermi urtato, colpendomi violentemente alla testa, poi è diventato tutto nero. Ricordo un terribile incubo poco prima di risvegliarmi in una delle cabine invase dall’acqua fino al soffitto. C. A. mi dava un appuntamento come tante altre volte, diceva di avere una sorpresa per me. Quando però arrivavo al luogo dell’appuntamento, non si faceva vedere. Cercavo di mandargli un messaggio, ma non riuscivo a comporre il numero. A quel punto il telefono si metteva a vibrare. Il testo del messaggio diceva “Piaciuta la sorpresa? Sei rimasta sola con i tuoi fantasmi”. In quel momento ho provato emozioni che non so descrivere, la solitudine ad esempio. Riesco soltanto ad immaginare una spiaggia sconfinata. Le onde che si schiantano sugli scogli, alzando nuvole di schiuma. Ho camminato a lungo su quella spiaggia, il mare ha abbandonato un girasole sulla riva, poi si è ritirato rapidamente. È inevitabile che la speranza sia legata a doppio filo con la disperazione. Da quando era cominciata quella storia con C. A. non riuscivo più a capire quello che mi stava succedendo. I miei pensieri somigliavano a linee telefoniche interrotte. Non capivo se le mie intenzioni, non fossero diventate loro stesse l’obbiettivo da raggiungere. Ho raccolto il fiore e sono rimasta a guardare i miei piedi affondare nella sabbia. Era giorno quando mi sono svegliata. La tempesta era passata. La nave era ridotta ad un relitto. Potevo vedere gli oggetti galleggiare nell’acqua che riempiva la cabina. In mano stringevo ancora il guanto di C.A. Avevo una scia di sangue rappreso sul sopracciglio. Sentivo la traccia appiccicosa scendere lungo le guance. La corrente che aveva allagato l’interno della nave in qualche modo mi aveva spinta in una sacca di aria all’interno delle cabine nel piano più basso. Sapevo che se fossi rimasta lì senza reagire, avrei presto consumato tutto l’ossigeno e sarei morta soffocata. Il panico saliva lungo la spina dorsale, lasciandomi paralizzata nel terrore. Ho preso un lungo respiro e mi sono immersa. Lo sgocciolio dell'acqua attraverso le fessure nelle pareti si è smorzato di colpo. Ho raggiunto il corridoio, ma il buio al fondo mi ha convinta a tornare indietro. Non sarei mai riuscita a trattenere il fiato abbastanza a lungo da raggiungere l’esterno. Ho preso un altro respiro, pensavo a C. A. a quanto fossero stati stupendi i pochi momenti passati insieme, alla sensazione di calore che provavo quando stavamo insieme, ho stretto forte il guanto e mi sono riempita i polmoni d’aria. Poi sono tornata sotto. Questa volta ho puntato dritta verso il boccaporto che delimitava la zona riservata al personale di servizio. Ho guardato un’ultima volta verso la sacca d’ aria nella cabina e poi ho nuotato con tutte le mie forze verso la maniglia. Appena sono riuscita a raggiungerla ho cercato di ruotarla. Mi sono resa conto subito di quanto fosse stato inutile quel tentativo, non appena ho realizzato che anche se fossi riuscita a smuoverla, il peso dell’acqua mi avrebbe impedito di aprire il boccaporto. Ho guardato ancora verso la sacca d’aria, ormai non sarei più riuscita a tornare dentro, in tempo per riprendere fiato, le forze mi stavano abbandonando. Un attimo prima di svenire qualcosa ha colpito il boccaporto provocando una grossa ammaccatura nel ferro. I cardini sono saltati subito dopo. Ho pensato ad un’allucinazione dovuta al soffocamento, le ultime forze mi hanno abbandonata lasciandosi alle spalle una nuvola di bollicine d’aria. Un altro incubo. Di nuovo quel fottuto poligono di tiro. Alzavo la Magnum verso il bersaglio, ma prima che potessi fare fuoco, C. A. cominciava a sparare dalla postazione di fianco alla mia. Una raffica con una semi-automatica. Il caricatore scattava fuori dall’impugnatura, vuoto. I colpi erano andati tutti a segno. Poi si è voltato verso di me per dirmi: “Lo vedi che sei un’idiota? Te l’avevo detto di andarci piano con quelle banane”. La sua voce è rimasta nella mia testa anche quando ho cominciato ad aprire gli occhi. Mi fissava con un sorriso soddisfatto, seduto sui talloni davanti a me. Era completamente fradicio, non indossava più neanche la maglietta, soltanto i jeans.
“Vai…al…”
“Visto? Ora non abbiamo più il problema degli sbirri”.
“Che cavolo è successo?”
“La nave si rovesciata su un fianco. Più di metà è rimasta sott’acqua. Qualcuno ha fatto saltare le granate, il nostro amico probabilmente”
“E adesso?”
“Come te la cavi a nuoto?”.
Mi sono guardata intorno, ci trovavamo sulla facciata rovesciata di uno degli alberghi al centro della nave, lo scafo era sollevato verso l’alto, ad una delle estremità riuscivo persino a distinguere le eliche dei motori.
Intorno a noi si era radunato un gruppo di superstiti. Alcune delle hostess, gruppetti sparsi sulle altre torri, altri ancora invece erano rimasti in acqua e cercavano di avvicinarsi aggrappandosi ai rottami, prima di essere trascinati via dalla corrente. I membri dell’equipaggio sopravvissuti stavano gettando giubbotti di salvataggio e salvagente da una delle finestre della torre più vicina al ponte.
Tra i superstiti esanimi non ho potuto fare a meno di notare una ragazza. Nonostante il naufragio il suo aspetto era impeccabile. Capelli castani e lunghissimi, una camicetta bianca senza reggiseno lasciava intravedere i capezzoli rosa chiaro sotto. Jeans aderenti gialli le scolpivano il culo fermandosi appena sopra le caviglie snelle e sensuali. Scarpe aperte gialle e smalto sulle unghie nero. Fumava una Gitanes con la cartina gialla, di fianco ad un vecchio seduto ai suoi piedi. C. A. si è passato il dorso della mano sulla bocca, mentre cercava di raggiungere la maglietta che aveva abbandonato vicino al giubbotto di pelle prima di tuffarsi. Gli ho dato uno scappellotto sulla nuca. Avrei voluto alzarmi per prenderla a schiaffi, i suoi capelli erano perfetti, i suoi vestiti erano perfetti, il suo culo era perfetto, non riuscivo a sopportarlo. Mi sono grattata il sangue rappreso sulla fronte e mi sono asciugata il naso nella maglietta di C. A.
Invece di andare a schiaffeggiare la misteriosa ragazza, per qualche strano meccanismo del cervello sotto shock, ho guardato C. A. e gli ho chiesto: “Tu li fai i rutti?”. Poi sono svenuta.
Ho sognato subito. Attraversavo il deserto in braccio a C. A., avanzava lentamente tra le dune su un cavallo nero. Gli occhiali scuri calati sugli occhi, gli sfioravo il petto con la punta delle dita. Poi sono stata sull’isola tropicale. Il cinema all’aperto era a pochi passi, l’ho raggiunto dopo essermi fermata a guardare il tramonto sulla spiaggia. Uno strano film che non ricordavo di aver mai visto, una specie di noir ambientato negli anni ’30. Si apriva con una scena sulla spiaggia. Un’auto coperta di polvere e sabbia ferma a pochi metri dalla riva. Nel bagagliaio si vedevano degli strumenti musicali ammucchiati alla rinfusa. Il piede di una giovane donna ha spalancato lo sportello. Prima che scendesse, un uomo si è avvicinato dalla spiaggia. Capelli neri tirati indietro con la gelatina, indossava un completo bianco a righe rosse, come quelli che si vedono nelle foto d’epoca. Sui trenta, un sigaro spento ad un lato della bocca. La donna gli ha lanciato un cappello di paglia giallo. Lui sorrideva, stringeva sottobraccio un gabbiano.
“Che ti sei messo in testa?”.
Ha raccolto il cappello con la mano libera. Il gabbiano gli stava mordendo il pollice con tutte le sue forze.
“Deve essersi ferito contro il faro. Le correnti d’aria sono molto forti in questo tratto di costa”
“lo sai che non possiamo tenerlo”
“Non riesce più a volare, continuava a correre barcollando, cercava di riprendere il volo. Ogni volta che ci provava finiva in mezzo alle onde. Mi ha ricordato quando ti ho trovata in quel bar, ubriaca fradicia”.
Lei non gli ha risposto. Si è allungata sui sedili e gli ha lanciato una fiaschetta di metallo prima di accendere la radio. L’uomo con il gabbiano non si è mosso, la fiaschetta lo ha mancato di un soffio finendo nella sabbia.
“Vorrei solo che fossi felice”
Lei ha risposto: “Lo sai che lo sono sempre quando sono con te”
“Se resta a terra troppo a lungo, morirà”
“Lo stesso vale per me”.
Il tizio con il completo a righe si era seduto sui talloni, aveva afferrato le ali del gabbiano con entrambe le mani, dopo essersi infilato il cappello.
Il gabbiano teneva la testa piegata all’indietro, il becco serrato sul polso dell’uomo. La ragazza era tornata a fare capolino dall’abitacolo dell’auto, si era accesa una sigaretta, guardava verso di loro con un mezzo sorriso sulle labbra. Lui l’ha fissata per un attimo, prima di piegare un’ala con indice e pollice, uno scatto secco. Poi lo ha lasciato andare. Il gabbiano si è messo subito a correre, l’uomo ha raccolto la fiaschetta ed è andato verso la ragazza. Il gabbiano stava scuotendo la testa incredulo. Quando si sono baciati ha spiccato il volo.

Continua...
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scritto il
2024-03-05
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