Colpo su colpo (Love in the shadow) Cap. 1

di
genere
pulp

Love in the Shadow

Sono uscita dall’ufficio alle 10:30. Un caldo soffocante. Per una frazione di secondo mi sono fermata sulla porta, ho chiuso gli occhi e respirato profondamente. Il gradino della scala verso la strada su cui mi trovavo in bilico mi sembrava la linea di confine con un collasso dei nervi. Poi ho avuto una specie di allucinazione, una visione. Indossavo degli occhiali di protezione e le cuffie antirumore, tra le mani stringevo un revolver di grosso calibro. Lo alzavo a fatica per prendere la mira, ma era evidente che la direzione non era quella giusta. Lui se ne stava in piedi di fianco a me, il solito giubbotto di pelle sgualcito e un paio di jeans strappati. Si era messo una maglietta bianca con il disegno di una tigre intenta a ruggire. Mi ha preso le mani e ha spostato leggermente il tiro mentre mi baciava dolcemente sul collo. A quel punto ho fatto fuoco, il proiettile e uscito dalla canna al rallentatore lasciandosi dietro un lampo e una nuvola di fumo. Lo vedevo chiaramente nella sua traiettoria.
- Che accidenti stai facendo? Alice –
- Sto aggiustando il Mondo. È chiaro che non funziona, lo capirebbe chiunque. C. A. –
- E devi farlo proprio tu? Alice –
- Vuoi provarci tu? C. A. –
- Io non saprei da dove cominciare. Alice –
- Li hai già spesi nel bar? C. A. –
- Beh, si. Una parte. Non tutti. Alice –
- Allora potresti cominciare da lì. C. A. –
- Gli hai fatto il contropelo. Alice –
- Io vado a dormire. C. A. –
- Ok. Ci vediamo lì. Alice –
- Lucy ha detto che ne abbiamo soltanto tre a testa. Non pensare a cose tristi quando li usi. C. A. –
- Ok. Alice -

REEL ONE, JAM SESSION

“Questa?”
“Non so. Seduzione?”
“Forse. Tutto qui?”
“Aspetta. In effetti l’aspetto della donna è molto seducente. Guarda verso l’osservatore come se aspettasse la sua risposta. Vieni? Attesa”
“Attesa?”
“Il piano alle sue spalle. È in attesa che qualcuno lo suoni. La sala da ballo vuota, in attesa che qualcuno entri a ballare. Attesa”
“Ok. A dopo”.

MUSIC&LIGHTS

Lui era seduto al bancone. Mi sono avvicinata, stava bevendo una birra, occhiali da sole e un sigaro acceso tra le dita. Volevo parlargli, ma non ci sono riuscita. L’aria nel bar era intrisa di un profumo dolciastro simile alla vaniglia, avevo l’impressione di non essere più in grado di pensare, le parole restavano confuse in una nube caotica all’interno della mia testa. Dopo gli ho toccato il viso, come un cieco che cerca di capire l’aspetto di qualcuno dal tatto.
“Ieri ti ho attesa…”
“Non cominciare con quei film che guardi solo tu”
“E’ un classico. Non lo sai da quanto tempo ti sto aspettando”
“Sono al massimo dieci minuti”
“L’unica volta in cui sono arrivato puntuale”
“Ma se…”
“Lo hai fatto di nuovo”
“Lo sai quello che penso”
“Lui ha detto vuoi?”
“Questo è Leos Carax, non fare lo scemo”
“Lo sai dove ti trovi?”
“Oltre i confini di Orione. Secondo te, cosa succede ai nostri corpi quando siamo qui?”
“Non lo so. Forse sono addormentati da qualche parte”
“E come cavolo facciamo a restare addormentati per settimane o mesi?”
“Chi ti dice che dall’altra parte il tempo trascorra nello stesso modo?”.
Si è frugato nelle tasche e ha tirato fuori un gettone per il distributore di dolcetti. Era proprio di fronte a noi sul bancone. Una piccola slot-machine rossa, con la leva argentata. Ho messo il gettone e ho tirato la leva. Una banana, ho guardato verso di lui, stava sorridendo. Un diamante, aveva smesso di sorridere, ora cercava di nascondere la sua espressione dietro il bicchiere di birra. Una ciliegia. Dal cassettino dei premi è uscito un cioccolatino con la carta rossa e una ciliegia disegnata sopra. L’ho mangiato subito.

REEL TWO, TROPICAL SYNDROME
Sono salito sul Patrol e ho acceso la sound-bar. Becuz, Sonic Youth. Wish I could change the way that you feel. Sembrava perfetta per la situazione, Wish I could free you, but I can't, don't blow it. Ancora non capivo che accidenti le fosse preso. Il vento era diventato fortissimo, mi sbatteva da un lato all’altro della carreggiata. Becuz of you, ogni volta che provavo a pensarci, una raffica più forte delle altre sbatteva contro il Patrol scuotendo i vetri. A metà tra angeli e demoni, moriresti pur di provarci. Arrivato a casa mi sono scolato mezza bottiglia di vodka e ho passato il pomeriggio a cazzeggiare con i clienti sperando di non lasciarmi prendere dal delirio alcolico. Prima che finissi i sigari ha chiamato Pasticcina. Nello stereo Johnny Rotten stava urlando a squarciagola: “Fun to be alone, in love with nobody else”. Pensavo: “ma quanto sei stronzo?”.
“Senti segone, se non ti presenti quando bisogna girare, come cazzo pensi che possiamo andare avanti?”
“Non mi rompere, non mi andava”
“AH! Allora adesso capsico. Ti sei messo di nuovo ad ascoltare Kurt Cobain”
“Non mi rompere. Ero in ufficio con lei e non riuscivo proprio a pensarci. Capisci?”
“Si lo so cosa intendi. Stai diventando frocio”
“Vaffanculo. Sei sempre…”
“E che cosa aveva di tanto speciale?”
“Ho visto il deserto ogni volta che ho provato a incrociare il suo sguardo”
“Certo capisco. Ma allora ci vieni da “O” oppure no?”
“No, anzi si. Dopo”
“Finocchio!”.
Poi sono stato sull’isola tropicale. Ho raggiunto il cinema all’aperto e mi sono messo nella prima fila. Guardavo i trailer aspettando che cominciassero gli Aristogatti. Un conto alla rovescia ha interrotto la sequenza. Dopo è cominciata la scena di un altro film. Sembrava un film amatoriale. L’immagine sfocata che andava a fuoco a tratti. Due tizi seduti sugli scogli, stavano mangiando delle fragole. Lei si è alzata per scendere verso la spiaggia, ha toccato l’acqua e si è messa a cercare dei sassi piatti da lanciare in mare. Lui l’ha seguita subito. Era chiaro che volesse baciarla. Ho cercato i sigari alla menta nella tasca dei jeans, poi mi sono accorto di Jenny seduta nel seggiolino di fianco al mio. Era completamente nuda, le gambe accavallate e gli occhiali a specchio. Una sigaretta accesa tra le dita. Ha preso una lunga boccata prima di cominciare a parlare.
“Perché la fai tanto lunga?”
“Sei riuscita a girare?”
“Cerchi una scappatoia? Ma quella non c’è”
“Hai mai sentito il bisogno di un rifugio? Un rifugio in cui nasconderti. La voglia di mettere cento Km tra te e quella cazzo di vita che fai tutti i giorni”
“Stai diventando un fantasma. Li hai già usati?”
“No”
“E che cazzo aspetti? Lo sai come si usano? No?”
“Si, credo di sì”.
Sullo schermo tre spie russe cercavano di tradurre dal francese un messaggio per i loro connazionali in patria.
Il giorno dopo sono tornato nel bar. Mi sono avvicinato alla piccola slot machine e ho infilato il primo gettone. Un limone, una fragola e un cuoricino. Nel cassettino è caduta una caramella a forma di cuore. L’ho messa in bocca e mi sono alzato per uscire. Poco più in là una bambina con i capelli biondi avvolti in un foulard mi fissava seduta su uno degli sgabelli del bancone. Indossava un cappottino rosso, ai suoi piedi giaceva una cesta piena di fiori gialli profumati. Senza distogliere lo sguardo ha appoggiato la testa sul bancone, poi il bicchiere di birra davanti a me ha iniziato a muoversi rapidamente. È rimasto sul bordo per una frazione di secondo prima di cadere. Mi sono svegliato quando ancora non aveva toccato il pavimento.

SENSUAL MADNESS

La nebbia mi aveva circondata. Ho proseguito sul sentiero nonostante non riuscissi più ad orientarmi fino a raggiungere la porta secondaria. Poi sono stata di nuovo in quella stanza. Il crepuscolo. Il camino era spento e la stanza illuminata soltanto da alcune candele. Ho camminato sul tappeto al centro del salone ascoltando i miei passi ovattati convinta di poterli percepire con gli occhi. Il dipinto sopra il camino luccicava sotto la luce tremolante del candelabro. Ho toccato la scritta rossa con la punta delle dita. Lullaby Mortem. Poi sono salita fino a sfiorare il viso di quella donna bellissima così simile a me. Sentivo l’odore della sua pelle. La memoria vacillava, oscillando sul confine dell’anima. I cristalli del lampadario vibravano come una miriade di campanelli scossi dal vento, l’aria intrisa di un profumo dolcissimo. Quando mi sono accorta di lei, gli oggetti nella stanza si sono sollevati da terra come se fossero stati improvvisamente liberati del loro peso da una forza misteriosa opposta a quella di gravità. Indossava un cappottino rosso scuro, i capelli raccolti in un foulard. Mi ha fissata a lungo senza parlare tenendo il viso nascosto dietro un grande fiore di Elianto giallo, poi ha sussurrato una parola: “Sin-est-èsi-a”. Per un istante la luce del Sole ha squarciato l’oscurità filtrando dalle finestre, le ha accarezzato il viso ed è scesa sul corpo minuto avvolgendola completamente. Lei ha sorriso, ha chiuso gli occhi liberandosi del foulard. I lunghi capelli biondi si sono aperti in quel fluido privo di gravità. Nella mano sinistra stringeva un pugnale con la lama ricurva, il suo riflesso mi ha costretta a svegliarmi.

REEL THREE, FLY ME TO THE MOON

Un’altra allucinazione ad occhi aperti. Gli occhiali di protezione gialli riflettono la luce al neon, alzo le braccia verso il bersaglio, ma il revolver 357 è diventato pesantissimo. Quando sto per premere il grilletto sento che sta per sfuggirmi di mano, i polsi tremano. Lui è sempre lì a fissarmi con i suoi occhiali scuri, riesco ad alzare il cane, poi le dita si bloccano. Mi toglie il revolver e apre il fuoco verso il bersaglio scaricando il tamburo.

Quando sono salita in macchina ero sicura che la mia giornata sarebbe stata un inferno. Impuntarmi per guidare non era stata una buona idea, questo lo avevo capito. Non aveva fatto altro che parlare al telefono e mandare mail dal portatile. A un certo punto mi aveva chiesto: “Sai dove andare vero?”. Avevo risposto: “Certo”. Ovviamente mi ero persa, non avevo la più pallida idea di dove fossimo, ero finita in un ingorgo allucinante, come se non bastasse l’ora dell’appuntamento era passata da un pezzo.
Speravo solo non si mettesse a sbraitare come faceva di solito. Non avrei retto. Il vaso è colmo mia cara, un’altra goccia e avrai una crisi. Non ne potevo più di sentirmi dire cosa dovevo fare, cosa dovevo dire e persino cosa avrei dovuto pensare. Il caldo soffocante e il traffico mi stavano facendo impazzire. Da quasi un quarto d’ora non ci muovevamo. Tre ragazze hanno attraversato la strada, camminando una di fianco all’altra. Una stringeva il telefono tra le mani, un’altra un milk-shake. La terza le seguiva sorridendo dei loro discorsi. Ero sicura che le prime due fossero sorelle. Quando siamo riusciti a superare l’ingorgo si è acceso un sigaro. Ha cominciato con i suoi discorsi sulla fortuna. Cercava di non infierire. Non sarebbe potuta andare peggio. Nella corsia di fianco un tizio con la giacca di lana e il papillon si stava aggiustando la barba. Era buffo come fosse spudoratamente fuori moda, ma elegante a modo suo. Ci ha superato accelerando piano. Arrivati al casello dell’autostrada ero in una pozza di sudore, la tensione mi stava uccidendo. Il tizio davanti a noi non riusciva a prendere il biglietto, si era fermato appena più in là di quello che gli sarebbe servito per arrivare ad afferrarlo con la punta delle dita.
“Una volta ho perso le chiavi della buca e ho escogitato un metodo infallibile per ritirare la posta. Vuoi sentirlo?”
“Hai attaccato il tubo dell’aspirapolvere alla fessura della cassetta delle lettere”
“No, idiota. Ho appiccicato un pezzo di scotch ad un filo e l’ho usato per pescare la posta”
“Un vero genio”
“Ma che accidenti sta facendo quel tizio? Ora gli suono il clacson, cazzo. Non si muove da mezz’ora”.
Stavo per pestare il polso sul clacson, ma mi ha afferrato la mano di colpo.
“Non farlo!”. Mi fissava così intensamente da farmi paura. Ho lasciato andare e il tizio davanti finalmente si è mosso. Aveva aperto lo sportello per avvicinarsi meglio. Nell’espressione di C. A. c’era qualcosa che mi metteva a disagio. Dopo siamo stati dal cliente. Un tipo con un appartamento minuscolo all’ultimo piano di una palazzina. C. A. ha parlato a lungo con lui, si muoveva disinvolto schivando tutte le domande a trabocchetto dell’altro per trattare il prezzo del lavoro. Io invece non riuscivo a spiccicare una parola. La lingua mi si era incollata al palato. Mi sentivo sprofondare. Le pareti si stavano avvicinando a me per stritolarmi, come in quei film in cui i protagonisti cadono in una trappola mentre cercano un passaggio segreto. Poi ho capito che non era la casa a rimpicciolirsi, ma il mio corpo a diventare sempre più grande. C. A. se ne è accorto ed è venuto vicino a me per aiutarmi, stavo per mettermi ad urlare. Senza farsi notare mi ha messo una mano sul culo e l’ha fatta scivolare verso il basso. Sul momento non sono riuscita quasi a capire, pensavo stesse cercando qualcosa nella tasca di dietro dei miei jeans, volevo chiedergli cosa fosse, ma ho sentito le dita spingere sulla passera e sul buco del culo. Il tizio della casa voleva offrirci qualcosa da bere. Io ho risposto: “Un arancio”.
Lui è rimasto nel dubbio poi ha detto: “Un’aranciata? Non so se ne ho”
“No, scusi, un bicchiere d’acqua va benissimo”.
Le pareti erano tornate al loro posto, C. A. sorrideva, la tensione mi stava concedendo una piccola tregua. Quando siamo usciti è scoppiato a ridere.
“Non mi prendere in giro, mi sento già abbastanza una scema”
“Sai cosa penso?”
“Sentiamo”
“A prescindere dal nostro umore, dal nostro stato d’animo voglio dire, dalla situazione, dal tempo che abbiamo, dovremmo metterci una mano sulla coscienza e prendere atto che noi ci vediamo per un solo e semplice motivo”
“E quale sarebbe?”
“Scopare”.
Prima di tornare a casa siamo stati in albergo. Non mi ha dato il tempo di ricominciare a parlare. È successo tutto così in fretta, mi ha levato i vestiti e spinta sul letto. Ha buttato i miei jeans lontano e mi ha piegato le gambe stringendo le caviglie con una mano sola. Poi si è sbottonato i suoi e me lo ha infilato in bocca tenendomi l’altra dietro la nuca. Quando ho cominciato a succhiarglielo le voci nella mia testa si sono affievolite, come se fossero state rinchiuse in una stanza insonorizzata di quelle che si vedono nei polizieschi per i confronti all’americana. Le vedevo urlare e disperarsi dietro il vetro infrangibile. Il suo cazzo è diventato sempre più duro, sentivo il sapore di sperma sulla lingua. Ho aperto la bocca perché potesse venirci dentro, la fica ormai era fradicia. Lui invece me lo ha spinto fino in gola e si è aggrappato alla passera con la mano. Il plotone di esecuzione era appena entrato nella stanza dei confronti all’americana per portarseli via tutti, uno alla volta. Un colpo in testa.
Dopo si è sdraiato vicino a me e mi ha accarezzato i capelli.
“Sai il tizio al casello?”
“Allora?”
“Secondo te perché è andato nel panico in quel modo?”
“Perché è un idiota”
“No. Perché ha superato il tempo previsto dal programma installato nel suo cervello per eseguire l’operazione. Capisci? Un errore di sistema, un fattore imprevedibile. Poi gli altri hanno cominciato a suonare il clacson. Il sistema cercava di correggere l’errore. Non è difficile manipolare il sistema, si può intervenire con trucchetti anche più semplici. Il fatto è che più ti spingi a fondo, più le conseguenze diventano devastanti, come le rivoluzioni e le rivolte”.
“Senti…”
“Che c’è?”
“Hai abbattuto il muro di Berlino”.
Sentivo il mio corpo nudo avvolto da una specie di fluido invisibile, caldo e piacevole. Stava attutendo la caduta mentre scivolavo su un morbido tappeto di rose. I petali mi hanno accarezzato la pelle, mi sfioravano delicatamente con il loro profumo dolcissimo, calando il sipario su quella ridicola commedia fatta di ipocrisie e rituali insignificanti con cui facevo i conti nella vita di tutti i giorni. Per qualche motivo la tv dell’albergo era accesa, un documentario sul lancio dell’Apollo 11. Le componenti del razzo si staccavano dal corpo una alla volta, mentre la terra diventava sempre più piccola. Sentivo le sue mani sulla pancia, salivano lentamente sul seno, sul collo, fino ad accarezzarmi il viso. Mi ha infilato dentro la lingua, poi ha cominciato a baciarmela. La punta delle dita sfiorava le mie sopracciglia mentre mi leccava. È scesa ancora un po’, prima di infilarsi dentro. Allunaggio.
Quando sono tornata a casa mi sono infilata sotto la doccia cercando di non pensare. Il giorno dopo sarei tornata in ufficio, la solita riunione del lunedì, quella strana messa in scena sarebbe ricominciata un’altra volta, come tutte le volte. Ho spento la luce e mi sono infilata sotto le lenzuola pulite. Cicero è salito sul letto per venirsi ad acciambellare vicino a me. Mi annusava i capelli mentre faceva le fusa. Poi mi ha appoggiato la testa sulla fronte e si è messo a dormire. Gli ho grattato la pancia fino a prendere sonno.
“Sei il mio gatto portafortuna”.
Dopo ho avuto un incubo. Ero legata ad una sedia, completamente nuda, al centro di un capannone abbandonato. Sentivo il corpo pesantissimo. Le funi si sono sciolte da sole liberandomi, ma ancora non riuscivo ad alzarmi. Ogni volta che ci provavo venivo assalita da una sensazione di panico incomprensibile, mi faceva eccitare terribilmente. Intanto il mio corpo diventava sempre più pesante, sentivo la sedia scricchiolare sotto di me. Prima di svegliarmi ho di nuovo visto quella scena nel poligono di tiro. Ero sola. Il revolver tra le mani puntato verso il bersaglio. Cercavo di prendere la mira, ma quando ci riuscivo, qualcuno azionava il comando per spostarlo portandolo sempre più distante.

- Che cazzo vuoi? Pasticcina –
- Mi serve un favore. C. A. –
- Scordatelo, dopo che mi hai tirato il bidone l’altra volta hai ancora il coraggio di venirmi a chiedere un favore? Pasticcina –
- È importante, devi solo lasciare un biglietto in un posto. C. A. –
- Vaffanculo. Per questa volta fatti una sega. Pasticcina –
- Non fare la stronza, così mi faccio anche perdonare per le riprese. C. A. –
- Ma si figurati. Pasticcina –
- Ti ho detto di sì. C. A. –
- No! Ho detto di no! Bastardo. Pasticcina –

Sono uscita di casa in ritardo, ho lasciato la ciotola con la pappa di Cicero vicino alla porta come facevo di solito e ho afferrato al volo la borsa dal mobile dell’ingresso per andare verso la metro. Sono scesa alla solita fermata, mi aspettavano ancora un centinaio di metri lungo i portici prima di arrivare in ufficio. Sotto la vetrina di uno dei negozi ho notato una bambina. Era seduta a terra vicino ad una cesta piena di Girasole, i capelli avvolti da un foulard ocra e un cappottino rosso. Si abbracciava le ginocchia con il viso rivolto verso il basso. Non sono riuscita a restare indifferente, capitava spesso di vedere scene simili in quella parte della città, anzi capitava quasi tutti i giorni. Tuttavia, qualcosa mi ha spinto a fermarmi per parlarle. Volevo chiederle se avesse un posto dove andare, per quale motivo si trovasse lì, cosa l’avesse portata in quella situazione. Non mi ha dato retta. L’ho presa in braccio seguendo un impulso improvviso, speravo in questo modo di guadagnarmi la sua fiducia. Lei si è avvicinata con le labbra al collo per sussurrarmi nell’orecchio.
“Sinestésia”.
Un profumo dolcissimo di vaniglia e una sensazione di calore sul collo. Mi sentivo sospesa nel vuoto. Da piccola mi avevano portata al Circo per il mio compleanno, uno degli acrobati aveva simulato il volo nel vuoto per raggiungere il trampolino a trenta metri di altezza. Avevo chiuso gli occhi per la paura, poi mi avevano spiegato il trucco della fune con cui veniva sollevato da terra. La camicetta stava diventando appiccicosa per quel fluido caldo che sentivo scendere dal collo, ho provato di nuovo la stessa paura e ho aperto improvvisamente gli occhi. La bambina però era sparita, restava soltanto la mia immagine riflessa nella vetrina del negozio, il traffico e i passanti alle mie spalle. Mi sono toccata il collo nel punto in cui avevo sentito il contatto con le sue labbra, non c’era niente. Ho affrettato il passo verso l’ufficio. In uno dei vicoli l’ho rivista per un attimo. Era in piedi in mezzo ad un raggio di sole, la luce si insinuava tra le ombre degli edifici della città investendola in pieno. Gli occhi chiusi e i capelli sciolti, biondi e lunghissimi, liberi di aprirsi come i petali del Girasole. Poi mi ha guardata sorridendo e si è portata l’indice sulle labbra. Ho ripreso a camminare per raggiungere l’ufficio, pensando che fosse il suo modo per chiedermi di mantenere il segreto.
Apparentemente un lunedì come tanti altri. Dovevano essere tutti già pronti nella sala riunioni perché la segreteria di fronte all’ingresso era deserta. Sono entrata nel mio studio e ho appeso il soprabito. Incollato sullo schermo del computer spento ho trovato un post-it: “RIUNIONE RINVIATA”. Forse questa volta Cicero mi aveva davvero portato fortuna, non sopportavo quelle lunghe ore sprecate a ripetere sempre le stesse cose di cui non mi fregava nulla. Nel bicchiere delle penne ho trovato una rosa rossa. Sono rimasta a guardarla incredula per un po’, sentivo il rosso acceso dei suoi petali sfiorami la pelle. Ho notato anche il biglietto sotto, uno degli inviti da “O”. Una donna nuda sospesa nello spazio vuoto, la Terra in lontananza avvolta dall’atmosfera azzurra. Dietro c’era una scritta: “Non fare la fifona, tanto oggi non lavori”. Provavo sempre una sensazione di disagio in quelle situazioni, mi ricordava quando a scuola tagliavo la lezione per uscire con le amiche e poi però non riuscivo a divertirmi per il senso di colpa. Quando ho collegato il telefono alla presa usb si è aperta la homepage di MidnightSpecial. Stavo per chiudere in fretta, poi ci ho ripensato. In fondo ero sola in studio. Mi sono seduta alla scrivania lasciando le gambe leggermente aperte e ho spostato le mutandine da un lato. Prima che potessi aprire uno dei video di Jenny però è arrivato un messaggio. La vibrazione del telefono mi ha fatto scattare in piedi.
- Hai finito di giocare? Quanto ti ci vuole? C. A. –
- Sono appena arrivata adesso te li scrivo i contratti, tranquillo. Alice –
- I contratti? Che cavolo dici? Oggi non lavori, non c’è nessuno sono tutti a casa per l’aggiornamento di sistema dei server. Non c’è un solo computer in tutto l’ufficio che funzioni, non hai letto le mail? C. A. –
- Ma sì, infatti. Alice –
- Infatti, cosa? Non fare la spiritosa, non ne hai letta neanche una da quando siamo tornati. C. A. –
- Ora le leggo. Senti, è successa una cosa strana, mentre ero in strada venendo qui. Alice –
- Ti ha parlato? C. A. –
- Cosa vuoi dire? La bambina? Conosci quella bambina? Alice –
- Allora? C. A. –
- Mi ha detto una parola: sinestésia. Che accidenti significa? Alice –
- È il suo nome, una delle sorelle di Lucy. C. A. –

REEL FOUR, FASTER THAN LIGHT

Appena ha cominciato a fare buio sono uscita con il Ninja. Mentre scendevo nel seminterrato in ascensore ho viaggiato di pochi minuti avanti nel tempo. Mi sono vista lanciata sull’autostrada a più di 200 Km/h, la luce azzurra della sera aveva dissolto i colori. Non riuscivo a percepire nessun suono, brevissimi frame mentre passavo di piano in piano. Quando le porte si sono sbloccate ho sentito ancora quel profumo dolcissimo di vaniglia. Il motore del Ninja in piena velocità mi ha fatto capire che il salto era completo. Mi era bastato desiderarlo perché avvenisse.
Il mio corpo era una cosa sola con la moto, schiacciato sulla carena per attutire l’attrito con l’aria. Le vibrazioni salivano lungo la spina dorsale passando dal metallo alle mie sinapsi come una scarica. Ho aumentato la pressione della fica contro la moto. Prima che fosse scuro la città era alle mie spalle. Arrivata alla statale lungo la costa, mi sono fermata su una curva a guardare il mare e il cielo unirsi nella notte. La stessa sensazione che avevo provato durante la corsa in moto. Gli ultimi raggi di sole si stavano riflettendo sulla facciata in pietra di un piccolo edificio nascosto nel bosco, un segnale morse per guidarmi verso quel luogo sconosciuto. Senza pensarci un attimo ho imboccato lo sterrato che si snodava lungo la collina, ma dopo i primi metri ho dovuto abbandonare la moto e proseguire a piedi. Mi sono tolta il casco e ho continuato a camminare spinta soltanto dalla semplice curiosità. Sapevo che la voglia di sangue si sarebbe fatta sentire ancora. Cercavo di non pensarci illudendomi che fosse possibile. Dentro il piccolo edificio diroccato mi sono trovata di fronte ad una scena bizzarra. Una donna nuda dalla pelle bianchissima sdraiata sul corpo di un’altra. Si erano appoggiate ad una specie di altare di pietra al centro delle rovine nascoste dagli alberi, per succhiare cazzi. Intorno a loro un gruppetto di ragazzi si dava il cambio, passando dalle loro bocche al loro sesso. In un angolo avevano ammucchiato i vestiti, probabilmente volevano approfittare di quel riparo appartato per un’orgia improvvisata. Uno dei ragazzi si è subito staccato per andare a riprendersi i vestiti, cercava di convincere gli altri a fare lo stesso. Le ragazze sembravano confuse, quella più libera di muoversi ha provato a mandarmi via.
“Lasciaci in pace, vattene!”.
Le tempie hanno cominciato a pulsare, ho dovuto mordermi un labbro per non lasciarmi sfuggire un gemito, mentre le mani scendevano lungo la tuta accarezzandomi il corpo. Ho abbassato la lampo, la Vedova Nera bruciava sulla pelle.
“Mi dispiace, ma ho molto appetito”.

- Sarebbe? C. A. –
- Devi andarlo a prendere e portarlo in Europa. C_Ca –
- Ma sentite un po’, non vi è bastato ancora? Sono già andato fino a lì per quella storia l’altra volta. C. A. –
- Lucy dice che è molto importante. C_Ca –
- Ma davvero? È mai capitato che dicesse che non è importante? Tipo non so, se riesci bene se no, non importa? C. A. –
- Sei proprio un bambino, e poi ti ricordo che mi devi un favore. Le riprese le hai saltate di nuovo per correre dietro a quella lì. Pasticcina –
- È molto carina, mi manda al manicomio. Prima o poi annegherò nelle mie stesse bave. C. A. –
- O nel tuo sangue. Elle è andata a lasciare il messaggio a L. M. Nel pomeriggio dovrebbe essere all’appuntamento. C_Ca –
- Ok va bene. Ma da dove partirebbe questa crociera? C. A. –
- Baranquilla, Bocas, Colombia. C_Ca –
- Il nome. C. A. -


All’alba sono tornata in città, di nuovo quella luce azzurra. Il Ninja mi ha riportata nell’appartamento in centro prima che il Sole fosse alto nel cielo. La visiera era aperta, sentivo l’aria fresca del mattino infilarsi sotto il casco, ero completamente rilassata dopo la notte passata nel bosco sotto i raggi della Luna piena. Avevo lasciato un ricordino alla tipa che aveva provato a cacciarmi via. Le avevo inciso le mie iniziali sulla schiena con la punta del machete. Gli altri non si sarebbero svegliati fino a sera. Sentivo le labbra distendersi in un sorriso mentre inserivo la sesta per superare le colonne di camion in uscita dalle stazioni di servizio. Davanti alla porta dell’appartamento ho trovato Elle e Sonya ad aspettarmi. Elle si era appoggiata alla porta, con le mani unite dietro la schiena. Il ginocchio destro leggermente piegato. Sonya era in piedi davanti a lei, giubbotto di pelle bianco e occhiali scuri. Le mani sui fianchi e le gambe leggermente divaricate davano l’impressione che fosse nervosa per l’attesa.
“Ciao, come stai?”
“Che siete venute a fare? Voglio andare a dormire, ho bisogno di dormire almeno per un paio di giorni”.
“Dove sei stata? È tutta la notte che ti aspettiamo”
“Ma che diavolo vuoi? Fammi passare, ho sonno”
“Allora?”
Quando si è avvicinata per afferrarmi il mento con due dita ho notato il fermacapelli con il Girasole, non sembrava affatto di buon umore.
“Sono uscita a caccia…”
“Lo sai quello che ha detto Lucy…”
“Non li ho uccisi, non rompere…non tutti almeno…”
Prima che potesse spazientirsi sul serio, Sonya si è messa in mezzo per separarci.
“Una consegna. Dovete prelevare un tizio in Sud-America e portarlo in Europa”
“Non se ne parla. Ho altri cazzi…”
“Ora hai finito. Lo sai già, cosa succede se ti rifiuti…”
“Ho detto che non se ne parla! Ho altri cazzi! Chiaro?
Ho incontrato una bambina nel sogno, voglio sapere chi è”
“Una bambina? Quale bambina? Di che parli?”
“Una cazzo di bambina con dei Girasole simili a questi!”.
Le ho afferrato i capelli tirando verso l’alto. Lei ha strillato per il dolore. Ero perfettamente consapevole di non avere alcuna speranza con Sonya, forse sarei riuscita a cavarmela se ci fosse stata solo Elle, ma l’altra tizia, in altre circostanze, non mi avrebbe dato il tempo nemmeno di rendermene conto. Ho sentito un peso improvviso contro lo stomaco. La testa di una leonessa albina gigantesca mi ha spinto lontano per costringermi a mollare la presa. Il corpo era grande almeno quanto quello di un toro, i muscoli sulle spalle tesi, le orecchie basse. Ruggiva inferocita aspettando solo che Elle si spostasse abbastanza da non restare coinvolta. Lei invece le ha messo una mano sulla schiena.
“Ok! È tutto ok! Senti, noi lo sappiamo chi è la bambina, ma visto che ci tieni a fare la stronza scoprilo da sola!”.
- Cosa? Da solo? Ma che cazzo, da solo? Che cazzo è successo con L. M.? C. A. –
- Ma niente, non pensarci, divergenze strategiche. Elle –
- Divergenze di che? Ormai ho prenotato per due. C. A. –
- E sai che tragedia! Qualcuno deve andare a prendere quel figlio di puttana e portarlo qui. Ok? Elle –

Non avevo più nessuna voglia di dormire. Aspettavo il tramonto per uscire di nuovo in moto. Era chiaro che quella bambina era in grado di passare il confine senza troppi problemi esattamente come C. A. Le risposte però le avrei trovate soltanto da questa parte. Ormai sapevano, quindi se mi fossi lasciata andare mi avrebbero portata da Lucy. Potevo quasi vederla sul suo trono di pietra, circondata dalle sue leonesse ad attendere il momento più opportuno. Mi sono avvicinata alla finestra per guardare il sole scomparire dietro i grattacieli, le luci della città si stavano accendendo una ad una. Mi sono infilata la tuta e ho preso le chiavi del Ninja. Quando mi sono decisa ad uscire qualcuno ha fatto scivolare sotto la porta una carta da gioco, Fante di Picche. Sono corsa sul pianerottolo, ma era troppo tardi, l’ascensore era sceso appena prima che potessi aprire la porta per fermarla. Poteva trattarsi soltanto di una delle amiche di C. A. a modo suo cercava ancora di aiutarmi. La testa era piena di pensieri confusi. Quando ho imboccato la rampa di uscita dal seminterrato un SUV nero con i vetri oscurati e la targa svizzera mi ha superata a forte velocità. Ero pronta a dargli del filo da torcere, se era questo che cercavano avrebbero trovato pane per i loro denti. Invece dopo essersi fermato sull’incrocio ha svoltato in un vicolo ed è sparito. Ho dato gas lanciandomi verso la tangenziale. Prima dell’alba avrei trovato tutte le risposte che cercavo. Cenere e diamanti! Era di nuovo riuscito a convincerle a lasciarmi andare. La Vedova Nera bruciava da impazzire. Coffin Coffee Crow, pensare che in giro ci fosse un tipo simile mi mandava al manicomio. Ogni volta che aprivo la manetta, l’orgasmo saliva lungo la schiena fino al cervello. Alla prima occasione gli avrei dato la scopata che si meritava.

LA FINE E L’INIZIO – REEL FIVE, FRAGOLA E LIMONE
- Ma senti, che trasferta sarebbe in Colombia? Hai idea di quanti chilometri sono da qui? Alice –

- Ma che ti frega? È il tempo che conta, alla fine si tratta di una settimana. C. A. –

- Cosa? Una settimana? Sei pazzo. Non potrò mai assentarmi per una settimana. Alice –

- Però vale un sacco di soldi. E poi lo sai anche tu come funziona con Lucy. Una settimana. C. A. –

- Pagate e in crociera sul Mare dei Caraibi. Che cazzo vuoi di più? C. A. –

- Pagate? Che cazzo significa pagate? Una sola o più di una? Alice –

- E va bene forse sono due. Dobbiamo prendere quel tizio e portarlo qui. Fine. C. A. –

- Quindi non è una settimana sola? Alice –

- Due, forse. Ma allora? Che differenza fa? C. A. –

- Ma nessuna, due settimane, ma sei impazzito? Alice –

- Domani vengo a prenderti è già tutto prenotato. Lasciami un orario. C. A. –

- Vaffanculo! No! Alice –

- Non vedo l’ora di stare con te due settimane, la tua pelle morbida come il velluto sulle labbra…C. A. –

- Ma vai a fare inculo! Scordatelo! Alice –

- Dai, non fare così, ho solo te. C. A. –

- E quell’altra perché non ti porti lei in Colombia in mezzo al nulla per due settimane? Alice –

- Perché voglio andarci con te. Ho bisogno di te, lei non saprebbe capire la situazione. C. A. –

- Ma davvero? Hai chiesto a me per prima? Lei non sa niente? Alice –

- Ma che figlio di puttana che sei, non ci credo. Comunque, sei un gran bastardo. Alice -

- Esatto, solo tu, mi sei rimasta solo tu. C. A. –

- Significa sì? C. A. –

- No, significa: no! Alice –

- Davvero lo hai chiesto a me e basta? Alice –

- Ok, no. Lei ci ha mandato al diavolo,

solo tu però puoi tiraci fuori da questo casino. Lucy non sa niente. C. A. –

- Stronzo! Vaffanculo! Alice –

- Significa sì? C. A. –

- Alle 17:30. Alice –

Prima dell’appuntamento sono tornata in ufficio per prendere alcuni fascicoli dei clienti. Durante il viaggio avrei lavorato tutto il tempo, gli dava un fastidio tremendo. Egocentrico del cazzo, voleva per sé tutte le attenzioni. Quando sono entrata in studio ho capito subito che c’era di nuovo qualcosa di strano. Sulla scrivania ho trovato due astucci grandi come ventiquattrore. Uno conteneva una Magnum 765 automatica e una Beretta Parabellum 9 mm. Due caricatori e due scatole di munizioni ciascuna. L’altro quattro granate a frammentazione. Vicino allo schermo del computer c’era anche un portaritratti nero di metallo. La foto di un asino, in primo piano. Le orecchie leggermente piegate da un lato. In un angolino si vedevano le iniziali I. B. al centro di un cuoricino.

- Don chi? C. A. -
- Ma sì, quello lì famoso, hai capito no? Pasticcina -
- E dove lo troviamo questo fenomeno? C. A. -
- Vi aspettano in un appartamento a Bocas, alle 11:00 in punto, dovete solo riportarlo qui. Pasticcina -
- E a che serve tutta quell’armeria? C. A. -
- Sarà molto pericoloso...Pasticcina -
- Cioè? In albergo non hanno l’idromassaggio? C. A. -

Continua...

scritto il
2024-02-17
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