La Notte di Natale

di
genere
tradimenti

Instagram: pennalibera.racconti

A Massimo avevano dato il turno di notte, anche quella sera che era ventiquattro Dicembre. Sembrava fatto apposta. Le difficoltà di personale in ospedale, lui che non diceva mai di no.
E invece di stare con lei e la loro figlia gli tocca cambiare i cateteri, iniettare flebo.
Sofia aveva deciso di accettare l’invito della madre per il cenone. Era venuta anche la sorella, il marito, i nipoti. Se ne erano andati poco prima. Ginevra dormiva, la madre sistemava, la tv accesa su Rai Uno.
Tra il primo e il secondo l’era arrivato un messaggio di Dario. Che viveva a Parma, ma era tornato in paese per passare il Natale in famiglia. Si sentivano due volte all’anno, nei giorni dei loro compleanni. Poche frasi, come stai, tutto bene, grazie per gli auguri.
Erano nove anni che andavano avanti così, da quando si erano lasciati, scambiandosi auguri e basta. E Massimo non sapeva nulla.
Sofia non sapeva nient’altro di lui. Aveva il profilo Instagram chiuso e lei non aveva mai cliccato Segui. Non voleva varcare il confine, osare, rischiare di mandare un messaggio controverso. Si era sempre accontentata di quel filo che li univa.
Solo che quella sera le aveva scritto per vedersi, per fare un giro, perché stava in paese e l’indomani ripartiva.
Lei gli aveva detto di sì.
La madre di Sofia distese la pellicola trasparente sul vassoio di allumino che stava sul tavolo. Dentro ci aveva messo gli anelli fritti, i gamberi.
– Lascia stare, domani faccio io.
Sulla finestra della cucina c’erano gli adesivi con i pupazzi di neve. Ginevra l’aveva attaccati uno per uno con la nonna. Sul davanzale, nel gelo, si snodava un filo di luci intermittenti rosse e gialle. L’aria puzzava di pesce fritto, di limone.
La madre aggiustò gli angoli della teglia, li fece aderire la pellicola, aveva i ricci bianchi e il grembiule insozzato dall’olio. La guardò. – Ma a quest’ora vai da Claudia?
– Giocano a carte. Fanno tardi.
– Fai piano, quando torni.
Non vedeva Dario da nove anni. Aveva le spalle larghe, alto, i capelli folti, venticinque anni. E ora? Nessuna foto, solo quella profilo di Facebook, che era vecchia di una vita. Adesso lo immaginava con gli occhiali, il volto più stanco. I chili in più.
C’era la tv accesa in salotto, era iniziata la Santa Messa su Rai Uno. Sofia salutò la mamma, la lasciò al Papa.
Si fermò davanti alla camera da letto, aprì appena la porta. Guardò la figlia di quattro anni dormire accanto alla lampada a forma di pinguino, la testolina che usciva fuori dalla coperta. Forse non doveva. Perché uscire in piena notte con Dario non aveva senso. Perché aveva una famiglia bella, l’amore che bastava e avanzava.
Richiuse la porta, si infilò il cappotto nero ed uscì.

~

Il freddo le congelava le mani scoperte, i jeans. Al Tg l’avevano detto, abbassamento drastico delle temperature. Meno due, meno tre.
Davanti al portone c’era la Bmw nera di Dario. Sofia si infilò nell’abitacolo, un rifugio caldo, almeno quindici gradi in più.
Lo rivide, nove anni dopo. Aveva ancora i capelli folti, castani, il colletto bianco della camicia che sbucava dal Montgomery. Nessun commento, si salutarono con due baci sulla guancia e sentì la barba spinosa.
Sofia allacciò la cintura. – Dove andiamo?
Lui sorrise, accelerò. – Ci sarà un bar aperto?
– Di 24?
– L’Enjoy era sempre aperto.
Sofia alzò l’aria calda dal display. – In nove anni sei rimasto uguale. Giusto la barba.
La guardò. – Dicono che mi sta bene.
– È vero.
Aveva conservato lo stile. L’aveva amato, erano stati quattro anni insieme. Crescendo, sbagliando.
E poi l’aveva distrutta, lasciandola.
Le vie del centro di Colleverde erano deserte. I fari gialli della Bmw entravano nella nebbia, i balconi erano abbelliti con le luminarie e i babbi natale di plastica.
Parlarono di lavoro, lui faceva l’interior designer a Parma. Le disse che si era lasciato con la compagna da qualche mese, dovevano fare un figlio ma era finito tutto prima.
Dario doveva aver visto il suo profilo Instagram aperto al pubblico. Le foto con Massimo, con Ginevra, la vita che si era costruita.
Procedettero lenti fra le serrande abbassate dei negozi. Dario scalò la marcia, il Sector d’acciaio al polso. – Fai ancora atletica?
Sofia rise. Le gare regionali vinte, le ambizioni. – ¬Ti pare? Ho mille cazzi. Ginevra, il lavoro, la casa.
– Eri brava.
– Era un’altra vita.
– Ginevra quanto ha?
Si mise comoda sul sedile e gli interni in pelle cigolarono. – Quattro anni il mese prossimo.
La scritta Enjoy Bar si concretizzò nella foschia. E dopo pochi metri c’era il cartello Colleverde sbarrato da una diagonale rossa. Sofia vide l’ultimo lampione del paese, poi la notte si mangiava la strada fiancheggiata dalle sterpaglie, quella che portava a San Fiorenzo.
– L’Enjoy è aperto, – Dario accostò sul ciglio. – Prendo due birre e ce le beviamo da qualche parte?
Gli disse che andava bene. Anche se erano nel nulla, in una paese vuoto e triste. La notte di Natale, mentre la gente stava nelle case ad aprire pandori e giocare a carte.
Dario scese e lasciò il motore acceso. Lo guardò attraversare la strada, entrare nel bar. Avevano appicciato un foglio di carta sul vetrata, Siamo aperti 24 e 25, chiusi a Santo Stefano. Dentro le luci ocra illuminavano due anziani sui sgabelli che giocavano alle slot machine.
Sofia prese il cellulare dalla tasca del cappotto. Controllò, c’erano i messaggi di auguri che non aprì, Massimo non le aveva scritto e nemmeno la madre, osservò lo sfondo dove lui e Ginevra l’abbracciavano. Li sentiva, la pressione sul petto e il senso di colpa che la consumavano.
Dario uscì dal bar con una busta trasparente, due peroni dentro. Entrò in macchina. – Fuori si gela, – poggiò le birre sui sedili posteriori. Avvicinò le mani alle bocchette dell’aria calda, le strofinò.
– Dove andiamo?
– C’è ancora l’anfiteatro?
– È pieno di drogati, – Sofia fece scorrere il pollice sulla fede, l’oro era freddo. Si sedevano sui gradoni dell’anfiteatro per fumare e bere. – Usciamo da Colleverde, intanto.
Ripartirono, si lanciarono fra i campi di girasoli piegati dal freddo. Tra Colleverde e San Fiorenzo, dove agli inizi cercavano i posti per scopare tranquilli.
La sagoma ombrosa della montagna emergeva oltre i paesi e le campagne.
– Come mai ti sei lasciato?
Le bottiglie di birra vibravano nella busta, Dario fissava la strada. – Mi ero reso conto di non amarla più.
– Così, all’improvviso?
Si girò a guardarla, annuì, poi tornò a seguire i fari che illuminavano il nulla. – Sì. Fa strano anche a me.

~

Oltre il parabrezza, nella notte, svettava un colosso di cemento armato. Quattro piani di piloni che sostenevano camere incompiute, l’assenza di pareti, l’Hotel che doveva sorgere in quel campo selvatico, una gru abbandonata nel nulla.
Dario si attaccò al collo della peroni, guardò la luce lunare che si spianava sull’ecomostro.
– Un Hotel, a Colleverde. Un cinque stelle in mezzo alle vacche e alle pecore.
– Non capisco perché non lo buttano giù.
– Costa un botto.
Si erano fatti un giro nelle campagne, avevano parlato nel nulla. Poi avevano visto quello scempio di cemento. Si erano detti di andare a bere lì, le birre.
Sofia annuì, faceva un cazzo di freddo. – Accendi un po' il motore? Sto gelando.
E lui lo accese, la bocchetta riprese a sputare aria calda. Fissò Sofia. – È strano che stai qua. Di solito uno la notte di Natale la passa in famiglia.
Con l’unghia Sofia raschiò l’etichetta rossa dal collo della bottiglia. – Massimo fa il turno di notte in ospedale. È infermiere. E Ginevra dorme da mia madre.
Dario adagiò la nuca al sedile. – Come sta tua madre?
– Bene, – sorrise, la madre impazziva per lui. – Ti ricordi quando entrò in camera senza bussare?
Lo vide sorridere, scuotere la testa. – Che figura di merda.
Sofia rise. Era sopra di lui, ad un passo dall’orgasmo, la madre era entrata nel momento peggiore. – Non mi ha parlato per una settimana, – bevve un sorso di birra. – Da quel giorno ha imparato a bussare.
– Da quel giorno abbiamo iniziato a farlo sempre in macchina.
Scivolarono nel silenzio della campagna, il fascio di luce dei fari faceva affiorare le fondamenta scrostate dell’hotel. Lo sentì avvicinarsi, liberare il collo dai capelli per baciarlo. Sentì un brivido lungo la schiena. La smania di riaverlo almeno una volta dentro. Ritrovare il passato senza compromettere il presente.
Le accarezzò la coscia.
Sofia lasciò la bottiglia sul cruscotto. – Dario.
Dario, che non voleva dire sì ma neanche no.
Provò a baciarla e lei aprì le labbra, gli concesse la lingua, si scambiarono saliva e malto.
Dario gli sbottonò i jeans, gli ficcò una mano nelle mutande. Le dita erano gelide, Sofia le avvertiva fra i peli del sesso, esploravano il solco senza entrare.
Era sempre stato bravo a dosare i tempi, a farla impazzire piano.
Dario entrò con due dita.
Lei sentì il calore propagarsi dall’inguine verso il basso, mentre lui incalzava con la mano. Poteva venire così, ma non voleva.
Gli afferrò la nuca, agitò la lingua su quella di lui.
Si abbassarono i jeans e mutande. L’ecopelle del sedile le raggelò il sedere. Stesero i sedili, i vetri rivestiti di condensa e il motore acceso al minimo.
Con Massimo scopava poco e male. Sempre stanchi, scazzati. E ora era accanto a Dario, entrambi nudi per metà, gli mise una mano in mezzo alle gambe. Gli chiese se avesse un preservativo, mi dispiace, nulla, zero.
Ma tanto non si sarebbe tirata indietro, ormai.
Fece scorrere la mano e il sesso le si indurì fra le dita, prese forma. Dario sospirò. Le bloccò il polso, si mise sopra di lei. Lui aveva la pelle che sapeva di buono, come nove anni prima. I capelli castani gli ciondolavano davanti agli occhi.
Sofia aprì le gambe e lui glielo infilò dentro. Scivolò facile, la riempì, e mentre lei non si vergognava di ansimare, di godere, Dario capiva e affondava.
Affondava in qualcosa che non era più suo. Era piombato da nulla per incasinarle la vita.
Continuavano a baciarsi, a fare l’amore nel nulla.
Sofia gli sussurrò nell’orecchio di venire fuori.

~

Un rivolo di sperma si concentrava sulla coscia di Sofia. Mandava un odore chimico, forte. Per un attimo aveva creduto che volesse venirle dentro. Poi si è tirato fuori in extremis.
– Hai un fazzoletto?
Dario allungò il braccio, aprì il cruscotto. C’era il libretto di circolazione e alcuni fogli. – No, – chiuse il cassetto e le porse i boxer che ancora non si era rimesso. – Pulisciti con queste.
In quel momento si rese conto dell’assurdità della situazione. Del fatto che stava nel nulla, la notte di Natale, con Dario, e si stava pulendo dal suo sperma con le sue mutande.
E che era una moglie di merda.
E anche una madre di merda.
Sofia le prese, sorrise, dopo l’orgasmo aveva le gambe molli. – E tu vai in giro senza mutande?
Avevano messo l’aria calda al massimo, la sentivano soffiare nell’abitacolo. La condensa svaniva e l’ecomostro si delineava nel cono di luce.
Dario indossò i jeans. – Mica è un problema.
Sofia passò le mutande sulla coscia e lo sperma viscoso le strusciò la pelle. Il bianco si appiccicò come colla al nero del cotone. Arrotolò i boxer sporchi e li incastrò nel vano portaoggetti dello sportello.
Si rivestirono. Sperava che in paese nessuno l’avesse vista con lui. Le strade erano vuote, invase dalla nebbia.
L’orgasmo era stato bello bello, i muscoli della vagina ancora palpitavano. Dario fece retromarcia nel buio e le gomme stridettero sulla terra.
Ripresero la strada principale, quella che portava a Colleverde. I fari della Bmw si abbattevano sull’erbacce che si affacciavano dal guardrail.
Sofia tirò fuori il cellulare dalla tasca del cappotto. Sbloccò, guardò, la tendina WhatsApp segnalava due messaggi di Massimo e le si seccò la bocca. Aprì, all’una e ventidue le aveva scritto Buon Natale, Amore. Mentre stava sotto a Dario, probabilmente.
Il secondo. Ho fatto cambio turno, sto tornando.
Il cellulare faceva l’una e quaranta.
Diciotto minuti prima. Fece il conto. Massimo ci metteva mezz’ora per tornare. Solo che a quell’ora per strada non c’era nessuno, zero, tutti ficcati dentro casa. E allora sì, cazzo, che poteva arrivare prima di lei.
Aveva il cuore che batteva troppo, pareva esplodere.
Sospirò. – Ma porca Eva.
– È successo qualcosa?
– Massimo ha staccato prima. Sta tornando, – rispose, sbuffando. Lo guardò, la macchia che gli sporcava il collo bianco della camicia, il viso caldo e arrossato. – Puoi andare un po' più veloce?
Doveva essere a casa, da Ginevra.
Dario ingranò la quinta, accelerò fino a far tuonare il motore della Bmw.
E sfrecciarono nel nulla, lasciandosi dietro i campi neri con i mandorli.


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scritto il
2025-12-05
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