Il terzo money slave di Valentina: il banchiere

di
genere
dominazione

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La luce del pomeriggio successivo era opaca, filtrata da nuvole pesanti. In camera, l’aria era ferma, ancora intrisa dell’odore dolciastro della nostra notte. Valentina dormiva, un sonno profondo di chi è stato svuotato e riempito di nuovo, ma non di pace: di un diverso tipo di energia, carica, elettrica.

Io ero al laptop. Il conto cresceva con una regolarità ipnotica. Marco aveva pagato, e pagato bene. Ma era piccolo. Un antipasto. Il banchiere di cui avevo parlato a Valentina esisteva davvero. Si faceva chiamare “Minos”. Profilo curato, foto di un uomo sui cinquant’anni con uno sguardo di sfida, di chi è abituato a comprare e vendere anime in borsa. Il suo fetish, dichiarato con arroganza, era “spezzare le donne forti”. Credeva che la sua ricchezza fosse una chiave universale. Avrebbe imparato.

Valentina si svegliò senza che io la chiamassi. Si sedette sul letto, le lenzuola che le scivolavano dalle tette. I suoi occhi mi cercarono, non più confusi, non più solo timorosi. C’era una domanda in loro. Un’avidità.

“Padrone,” disse, la voce più ferma.

Le posai la gabbietta sul materasso, accanto a lei.

“Indossala.”

Non la guardai mentre lo faceva. Sentii il leggero stridore del metallo sulla pelle sensibile, un sibilo trattenuto, poi il clic del lucchetto. Mi voltai. Era in piedi, nuda, la gabbietta un gioiello crudele e osceno tra le sue cosce. Il suo petto si sollevava con un respiro controllato. Il dolore c’era, lo vedevo nel minuscolo tremolio delle sue labbra, ma era dominato da qualcos’altro: da un’espressione di attesa feroce.

“Minos,” dissi, indicando lo schermo. “Leggi.”

Lei si avvicinò, studiando il profilo. Il suo sguardo si fece tagliente, valutativo, come quello di un chirurgo prima di un intervento.

“Vuole spezzarmi,” mormorò, non come una paura, ma come una scoperta.

“Vuole credere di poterlo fare. Tu gli dimostrerai che la sua ricchezza compra solo più schiavitù. Che può comprare il diritto di essere disprezzato da una dea.”

Un sorriso lento le incurvò le labbra. Era lo stesso sorriso che le avevo visto la notte del primo orgasmo, ma ora era più consapevole, più pericoloso.

“A che ora?”

“Ore 21. Dopo che avrà finito di giocare con i suoi miliardi. Lo farai aspettare. E quando arriverai, sarai di ghiaccio.”

La giornata trascorse in un silenzio carico. Valentina non si lamentò mai, ma vidi il modo in cui a volte si bloccava, un leggero tremore che le percorreva la coscia, il respiro che diventava più corto. La frustrazione e il dolore si accumulavano in lei, distillandosi in una concentrazione letale. Era esattamente ciò che volevo.

Alle 20:59, Valentina si sedette davanti al laptop. Avevo posizionato una luce fredda, led, che la illuminava dal basso, scolpendo le sue ombre, esaltando le curve e la freddezza del metallo tra le sue gambe. Sembrava un idolo di un culto decadente.

Alle 21:15, Minos scrisse “Eccomi. Sono pronto per la nostra sessione, Valentina. Ho sentito che sei… inflessibile. Mi piace.”

Valentina rimase immobile per due minuti. Li contai. Poi digitò.

Valentina “Non hai sentito niente, verme. E non avrai una ‘sessione’. Avrai un’udienza. Se ti comporterai bene. Sei ancora nella tua gabbietta da giocattolino? O hai osato toglierla?”

Minos “La indosso. Titanio. Costosa quanto la tua serata, credo.”

Era già sulla difensiva. Già cercava di colpire con i soldi.

Valentina “Il titanio è per i dentisti e gli sciocchi che credono che il prezzo cambi la sostanza. È sempre una prigione per il tuo cazzo piagnucoloso. E io non ho ‘serate’. Ho schiavi. 1000 euro. Ora. Per il fatto che sto sprecando il mio tempo a guardare il tuo nickname patetico.”

Un minuto di silenzio. Poi: Minos “Fatto. 1000€. Ma voglio qualcosa in cambio.”

Valentina “Non decidi tu. Tu paghi. Io ti insulto. È un meccanismo semplice, anche per una mente da broker fallito. Ora ascolta. La mia gabbietta è fredda. Freddissima. L’ho tenuta nel congelatore per un’ora. Le sbarre hanno bruciato la pelle quando l’ho indossata. Ora è solo un peso gelido che mi ricorda quanto siete tutti insignificanti. 2000 euro. Per il racconto del brivido che mi è corso lungo la schiena. Un brivido di disgusto. Per te.”

Silenzio più lungo. Stava ribollendo. Poi, il pagamento arrivò.

Minos “Fatto. Hai il mio interesse, Valentina. Ma l’interesse è una cosa volatile. Cosa mi dai per trattenerlo?”

Valentina alzò lo sguardo verso di me. Nei suoi occhi brillava una luce di puro, sadico divertimento. Inchinò la testa di un millimetro, una regina che accetta una sfida. Le sue dita volarono sulla tastiera.

Valentina “Ti do una scelta, Minos. Una sola. Puoi pagare 5000 euro e sentirti dire che il mio Padrone ha appena accarezzato la chiave della mia gabbietta. Oppure puoi pagare 10000, e io ti manderò una foto. Non di me. Della chiave, immersa in un bicchiere di ghiaccio. A te la scelta. Hai sessanta secondi.”

La stanza sembrò trattenere il fiato. La tensione di Valentina era palpabile, un’energia statica che faceva vibrare l’aria. Il suo corpo era immobile, ma sotto la pelle tutto sembrava contrarsi, in attesa.

Al cinquantanovesimo secondo, lo schermo illuminò una notifica.

Minos “10000. Fatto. Invia.”

Valentina non si mosse. Mi guardò. Presi il mio telefono, scattai una foto al bicchiere di acqua e ghiaccio dove la piccola chiave d’argento era immersa, luccicante e irraggiungibile. La inviai.

Per un minuto, nessun messaggio. Poi arrivò un fiume.

Minos “Dannazione. Dov’è? Dov’è la foto di te? Questo è quello che fai? Fregare la gente?”

Valentina “La gente? No. Fregare te. Sì. Sei un uomo abituato a comprare tutto, vero? Donne, lealtà, politici. Hai pensato di poter comprare la mia sofferenza, il mio controllo. Tutto quello che hai comprato è un’immagine. Una metafora. La tua eccitazione è in quel bicchiere, Minos. Congelata. Inaccessibile. Come lo sarai sempre per me.”

Minos “Apri quella chat. Voglio vedere te. Voglio sentirti.”

Valentina “No. La nostra udienza è finita. Hai pagato per un’illusione. E io te l’ho data. Sei stato un bravo schiavo. Un bravo, ricchissimo, stupido schiavo. Ora sparisci.”

E chiuse la chat.

Il silenzio che seguì fu assoluto. Poi, un suono uscì da Valentina. Non era un singhiozzo, non era un gemito. Era una risata. Bassa, roca, liberata. Una risata di trionfo e di incredulità. Si girò verso di me, gli occhi lucidi non di lacrime, ma di una gioia feroce.

“Padrone… l’ho… l’ho distrutto.”

Mi alzai e andai da lei. La sua risata si spense in un respiro affannoso quando le posai una mano sulla nuca, costringendola a guardare lo schermo, l’importo finale della transazione.

“Hai fatto più che distruggerlo,” sussurrai. “Hai trasformato la sua arroganza in polvere. Hai preso il suo feticcio per il potere e gliel’hai mostrato per quello che è: un giocattolo. Sei stata magnifica.”

La feci alzare. La guidai davanti allo specchio a muro. Le feci guardare se stessa: il corpo segnato, gli occhi febbrili, la gabbietta che luccicava con una luce sinistra.

“Vedi? Questa non è solo una donna. Questa è un’arma. Una sacerdotessa. Mia.”

Le sue mani si strinsero ai bordi del tavolo. Il riflesso dei suoi occhi era quello di una sconosciuta, di una creatura che aveva scoperto di possedere un veleno raro e delizioso.

“Voglio di più,” disse, la voce un filo di suono. “Voglio un altro. Ora.”

Scossi la testa. “No. Ora viene la parte più importante. La ricompensa.”

Non la portai a letto. La feci inginocchiare sul tappeto di velluto, nello stesso punto in cui si era risvegliata quella mattina. Mi inginocchiai dietro di lei. Con una lentezza esasperante, lubrificai le mie dita non con il suo succo, ma con un olio fresco, alla menta, gelido. Lei tremò quando le toccai la schiena, disegnando la colonna vertebrale, allungandomi verso le natiche.

“Il banchiere ha pagato per il gelo,” mormorai. “E il gelo avrai.”

La penetrai con due dita, lentamente, mentre l’altra mano stringeva la gabbietta, non premendo, ma tenendola ferma, un perno intorno al quale tutto il suo essere ruotava. Il contrasto era brutale: il freddo bruciante dell’olio all’esterno, il caldo feroce che le erompeva dal centro, il metallo che imprigionava l’epicentro di tutto.

Le ordinai di non muoversi. Di non cercare nulla. Di essere solo un recipiente. E mentre lei gemeva, mordendo il velluto per non urlare, mentre il suo corpo si tendeva in archi impossibili, io le parlai.

“Domani,” le dissi, mentre un orgasmo muto, potentissimo, la scuoteva in silenzio, “domani forse non ci sarà nessuno. Forse ti legherò qui, con la tua gabbietta, e ti lascerò sola con la tua frustrazione. Forse ti porterò fuori, al ristorante, e tu siederai con il tuo segreto sotto l’abito, sapendo che nessuno, nessuno intorno a noi ha la più pallida idea di chi tu sia realmente. Di che potere hai. Di che potere io ho su di te.”

Finalmente, inserii la chiave. Il clic questa volta fu come lo schiocco di un dito che risveglia dall’ipnosi.

Quando la gabbietta cadde sul velluto, non ci fu sospiro di liberazione. Ci fu solo un profondo, silenzioso tremito. Il suo clitoride, liberato, pulsava come una stella morente, iper-sensibile al punto da non poter essere toccato. La sollevai tra le mie braccia. Era pesante, molle, totalmente consegnata.

La adagiai sul letto. Si addormentò in pochi secondi, il viso contro il mio petto. Sul comodino, il laptop mostrava ancora il saldo, una cifra assurda. Ma guardando il suo volto, finalmente in pace, sapevo che non erano i numeri la vera conquista.

Era la trasformazione. La creazione. Avevo promesso di volere la sua anima, strozzata dalle sue stesse parole.

Ora, finalmente, era mia. E la sua luce, feroce e devota, era la sola che volessi vedere nell’alba che sarebbe arrivata.

@mistressvalentina2024
scritto il
2025-12-02
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