Mara. Da moglie a troia 2

di
genere
dominazione

La mattina dopo mi sono alzata con il corpo ancora segnato.
Segni rossi sulle cosce, la pelle tesa sulle chiappe, un dolore dolce dentro la figa che mi ricordava ogni spinta della sera prima. Ho fatto colazione in silenzio con mio marito, come se nulla fosse. Lui parlava di bollette, io fissavo il cucchiaino che girava nel caffè, pensando solo a un’altra bocca, a un’altra voce, a un’altra mano che non aveva mai chiesto il permesso.

Alle nove ero già fuori casa.
«Vado a fare un salto in centro» ho detto.
Bugia facile, sempre più facile.
Dentro di me ridevo: se sapesse dove sto andando, se sapesse com’è ridotta sua moglie…

Il palazzo di Riccardo era lo stesso di ieri, ma alla luce del mattino sembrava ancora più pulito, ancora più ordinato. Come lui. Giovane, lineare, senza fronzoli.
Ha aperto la porta in maglietta bianca e jeans scuri, i capelli un po’ spettinati, gli occhi svegli. Non sembrava aver dormito molto neanche lui, eppure aveva quell’aria fresca di chi non porta mai il peso delle notti.

«Entra» ha detto.
Sono entrata.

La casa profumava di menta, di qualcosa di freddo e tagliente. Sul tavolo c’era un vassoio preparato: una bottiglia d’acqua, un panno pulito, e uno strumento che mi ha fatto gelare il sangue.
Una cosa di metallo lucido, due archetti che si aprivano come le ali di un insetto, piccole viti ai lati.
«Cos’è?» ho chiesto, con la voce che tremava.
«Un divaricatore orale. Lo usano i dentisti. Serve ad aprire la bocca e tenerla aperta. Oggi ti insegno a stare esposta.»

Non ha chiesto se volevo. Non ha detto “sei pronta”. Ha solo allungato la mano: «Vieni qui.»
E io sono andata. Come un cane addestrato. Come una troia già rassegnata.

Mi ha fatto sedere sulla sedia, schiena dritta.
«Apri la bocca» ha ordinato.
Ho obbedito.
Il metallo freddo mi ha toccato le labbra, poi i denti. Una pressione lenta, costante, fino a quando le ganasce hanno ceduto. Ho sentito i muscoli tirare, la mandibola tendersi. Non potevo più chiudere. Non potevo più parlare. Solo restare aperta, spalancata, vulnerabile.

«Così» ha detto, osservandomi come un meccanico guarda un motore. «La bocca è il tuo primo limite. E oggi lo allarghiamo.»

La saliva è arrivata subito. A rivoli. Non potevo deglutire, non potevo fermarla. Mi colava giù per il mento, scendeva sul collo, si macchiava sul petto.
Mi sono vergognata. Ma la vergogna era un veleno dolce, che mi faceva pulsare la figa sotto la gonna.
Ho provato a muovere le labbra, a ridurlo, ma il metallo non lasciava scampo.
«Non trattenere» ha detto lui. «Sbava. È la prova che non puoi controllare tutto.»

Mi ha preso il mento con due dita e mi ha guardata negli occhi. Gli brillavano.
Poi ha infilato due dita in bocca, dritte in gola.
Un conato mi ha scosso lo stomaco.
Gli occhi mi si sono riempiti di lacrime, il cuore mi batteva nelle orecchie. Ho provato a spingere la lingua, a respingere, ma era inutile. Le sue dita erano dentro, salde, implacabili.
«Respira» ha sussurrato.

La gola si è contratta, ho tossito, ho sbavato ancora di più.
La saliva gocciolava sulle cosce, calda, sporca.
Eppure non mi sono tirata indietro. Ero eccitata come non lo ero mai stata.

Ha ritratto la mano. Ho respirato forte, come una che risale dall’acqua. Non ho fatto in tempo a riprendermi che tre dita erano già dentro.
Più grosse, più dure, più invadenti.
Ho sentito di nuovo il conato, il corpo che si ribellava, ma ho resistito. Non volevo fermarlo. Volevo dimostrare che potevo. Che ero capace di lasciarmi aprire anche lì, dove non avevo mai osato.

Gli occhi mi lacrimavano, il naso colava, il petto si alzava e scendeva come una macchina in panne. La mia bocca era una ferita aperta e lui ci affondava dentro con calma crudele.
«Così, Mara. Impara a stare vuota.»
Quelle parole mi hanno fatto vibrare la figa più di qualsiasi carezza.

Quando finalmente ha ritirato le dita, ero distrutta. La faccia bagnata, il collo appiccicoso, la camicetta umida. Ma non c’era disgusto: solo una fame cieca, disperata.

Riccardo si è girato verso il tavolo.
Ha preso un oggetto lungo, nero, sottile. Gomma liscia, lucida. Non grosso, ma infinito. L’ha tenuto in mano come un chirurgo mostra uno strumento nuovo.
«Lo vedi? È il passo successivo. È un gioco, ma insegna più di mille discorsi.»

Ho deglutito a vuoto, il metallo ancora a tenermi aperta. Non potevo parlare, potevo solo ansimare, gemere come una cagna.
Lui si è avvicinato. Ha appoggiato la punta del giocattolo sulle mie labbra tese, l’ha sfiorata piano, poi ha spinto un poco.
Non forte. Lento. Paziente.
Il nero entrava nella mia bocca, e io tremavo. La saliva colava più copiosa, mi inondava il mento, scendeva tra i seni. Non potevo fermarlo, non volevo.

La punta ha toccato la gola. Ho sentito subito l’onda del conato risalire.
Ho stretto i pugni sulle cosce, ho alzato gli occhi su di lui.
Riccardo non rideva, non sorrideva. Era serio, concentrato, giovane ma implacabile.
«Resisti» ha detto.
E io ho resistito.

Il giocattolo scivolava piano, ogni centimetro una sfida, ogni centimetro un trionfo. La gola si ribellava, ma la figa gocciolava.
Le lacrime mi correvano sul viso, la mascella mi doleva, ma dentro di me urlavo: ancora, ancora, ancora.

Non so quanto sia durato. Forse un minuto, forse un’eternità.
So solo che quando lui ha fermato la spinta, quando ha lasciato lì il bastone nero che mi teneva la gola aperta e le lacrime agli occhi, io ero in trance. Una troia fradicia, completamente sua.

Riccardo si è chinato, mi ha sussurrato all’orecchio:
«E questo è solo l’inizio.»
scritto il
2025-09-27
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