Mara. Da moglie a Troia. 7. Scoperta
di
Mara1990
genere
dominazione
Quando rientrai a casa, c’era silenzio.
Troppo silenzio.
Un silenzio denso, come se qualcuno avesse sparso benzina nell’aria.
Lo trovai seduto al tavolo, con il telefono in mano e la faccia stravolta.
Occhi rossi, mascella serrata, la bottiglia del whisky già mezza vuota.
«Brava» disse. «Complimenti.»
Non capii subito. O forse sì, ma non volevo capirlo.
«Che c’è?»
Lui gettò il telefono sul tavolo.
Lo schermo si accese.
Una schermata. OnlyFans.
Una porzione del mio corpo, zoomata. Il mio tatuaggio sul fianco. Inconfondibile.
«Ti hanno riconosciuta, Mara. Mi hanno scritto. Mi hanno chiesto se eri tu. Almeno tre colleghi. Lo sanno. Tutti.»
Mi mancò il fiato. Una fitta alla bocca dello stomaco.
Per un secondo, fui pietra.
«Io…»
«Zitta.»
Si alzò di scatto.
«Zitta, puttana.»
Lo disse con un tono che non gli avevo mai sentito.
Lì, persi la paura.
Mi tornò la voce.
«Puttana? Adesso sei offeso? Dopo anni passati a toccarti sotto le coperte perché eri troppo vigliacco per guardarmi in faccia mentre lo facevamo?»
Fece un passo verso di me.
«Ti hanno visto! Sei una vergogna! Una moglie che si spalanca per uno come quello…»
«Almeno lui ce l’ha duro!»
Gridai.
«Almeno lui sa cosa farsene di una donna. Tu sei solo un cornuto impotente. Un morto che respira!»
Mi afferrò per il braccio. Forte.
Istintivo. Violento.
Provò a trascinarmi verso la porta.
«Fuori da casa mia. Sparisci, troia!»
E allora successe.
Il corpo reagì prima della testa.
Un calcio secco.
Dritto alle palle.
Lo sentii ansimare, poi piegarsi.
Cadde in ginocchio come un animale ferito.
Non lo guardai nemmeno.
Presi la borsa, le chiavi.
Uscii senza chiudere.
La porta sbatté alle mie spalle come un proiettile.
⸻
Corsi da Riccardo.
Avevo bisogno della sua voce, del suo comando, di quella fottuta luce malata che aveva negli occhi.
Ma quando aprì la porta, non era solo.
Accanto a lui, in piedi con la calma di chi sa tutto prima degli altri, c’era una donna.
Alta, elegante, sulla sessantina.
Pelle bianca, occhi d’ambra, capelli raccolti.
Portava un cappotto lungo e un foulard come se fosse uscita da un film di Visconti.
Mi guardò.
E sorrise.
Non un sorriso gentile.
Un sorriso… da lupa.
«Mara» disse Riccardo. «Questa è mia zia.»
Una bugia. Me ne accorsi subito.
Lei non era una zia. Non per lui. Non per nessuno.
La donna si avvicinò.
Mi passò una mano sul viso.
Mi afferrò il mento con pollice e indice, come si fa con una bestiola da valutare.
E poi — senza preavviso — mi leccò la guancia.
Lenta. Decisa.
Come si marca un territorio.
Avrei dovuto ritrarmi. Invece restai lì.
Una scossa mi attraversò.
Il sapore del suo rossetto. Il calore della lingua.
Fu come un cortocircuito tra rabbia e lussuria.
La guardai dritta negli occhi.
E le leccai la guancia a mia volta.
La donna sorrise.
Si girò verso Riccardo.
«Lei viene con me» disse. Senza chiederlo. Era un ordine.
E Riccardo non disse niente.
Mi prese per mano.
Uscimmo.
Sotto casa, c’era una Jaguar scura. Lucida.
Salì al posto di guida. Io accanto.
Silenzio.
Accese il motore.
Musica classica in sottofondo.
Le mani sottili e curate sul volante.
Poi una delle due mani lasciò il cambio e scivolò verso di me.
Senza guardarmi.
Senza dire nulla.
Le dita mi accarezzarono la coscia.
Poi più su.
Poi più dentro.
Non la fermai.
Non dissi nulla.
Non c’era più nulla da fermare.
Troppo silenzio.
Un silenzio denso, come se qualcuno avesse sparso benzina nell’aria.
Lo trovai seduto al tavolo, con il telefono in mano e la faccia stravolta.
Occhi rossi, mascella serrata, la bottiglia del whisky già mezza vuota.
«Brava» disse. «Complimenti.»
Non capii subito. O forse sì, ma non volevo capirlo.
«Che c’è?»
Lui gettò il telefono sul tavolo.
Lo schermo si accese.
Una schermata. OnlyFans.
Una porzione del mio corpo, zoomata. Il mio tatuaggio sul fianco. Inconfondibile.
«Ti hanno riconosciuta, Mara. Mi hanno scritto. Mi hanno chiesto se eri tu. Almeno tre colleghi. Lo sanno. Tutti.»
Mi mancò il fiato. Una fitta alla bocca dello stomaco.
Per un secondo, fui pietra.
«Io…»
«Zitta.»
Si alzò di scatto.
«Zitta, puttana.»
Lo disse con un tono che non gli avevo mai sentito.
Lì, persi la paura.
Mi tornò la voce.
«Puttana? Adesso sei offeso? Dopo anni passati a toccarti sotto le coperte perché eri troppo vigliacco per guardarmi in faccia mentre lo facevamo?»
Fece un passo verso di me.
«Ti hanno visto! Sei una vergogna! Una moglie che si spalanca per uno come quello…»
«Almeno lui ce l’ha duro!»
Gridai.
«Almeno lui sa cosa farsene di una donna. Tu sei solo un cornuto impotente. Un morto che respira!»
Mi afferrò per il braccio. Forte.
Istintivo. Violento.
Provò a trascinarmi verso la porta.
«Fuori da casa mia. Sparisci, troia!»
E allora successe.
Il corpo reagì prima della testa.
Un calcio secco.
Dritto alle palle.
Lo sentii ansimare, poi piegarsi.
Cadde in ginocchio come un animale ferito.
Non lo guardai nemmeno.
Presi la borsa, le chiavi.
Uscii senza chiudere.
La porta sbatté alle mie spalle come un proiettile.
⸻
Corsi da Riccardo.
Avevo bisogno della sua voce, del suo comando, di quella fottuta luce malata che aveva negli occhi.
Ma quando aprì la porta, non era solo.
Accanto a lui, in piedi con la calma di chi sa tutto prima degli altri, c’era una donna.
Alta, elegante, sulla sessantina.
Pelle bianca, occhi d’ambra, capelli raccolti.
Portava un cappotto lungo e un foulard come se fosse uscita da un film di Visconti.
Mi guardò.
E sorrise.
Non un sorriso gentile.
Un sorriso… da lupa.
«Mara» disse Riccardo. «Questa è mia zia.»
Una bugia. Me ne accorsi subito.
Lei non era una zia. Non per lui. Non per nessuno.
La donna si avvicinò.
Mi passò una mano sul viso.
Mi afferrò il mento con pollice e indice, come si fa con una bestiola da valutare.
E poi — senza preavviso — mi leccò la guancia.
Lenta. Decisa.
Come si marca un territorio.
Avrei dovuto ritrarmi. Invece restai lì.
Una scossa mi attraversò.
Il sapore del suo rossetto. Il calore della lingua.
Fu come un cortocircuito tra rabbia e lussuria.
La guardai dritta negli occhi.
E le leccai la guancia a mia volta.
La donna sorrise.
Si girò verso Riccardo.
«Lei viene con me» disse. Senza chiederlo. Era un ordine.
E Riccardo non disse niente.
Mi prese per mano.
Uscimmo.
Sotto casa, c’era una Jaguar scura. Lucida.
Salì al posto di guida. Io accanto.
Silenzio.
Accese il motore.
Musica classica in sottofondo.
Le mani sottili e curate sul volante.
Poi una delle due mani lasciò il cambio e scivolò verso di me.
Senza guardarmi.
Senza dire nulla.
Le dita mi accarezzarono la coscia.
Poi più su.
Poi più dentro.
Non la fermai.
Non dissi nulla.
Non c’era più nulla da fermare.
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