Mara. Da moglie a troia 3
di
Mara1990
genere
dominazione
Il bastone nero scivolava dentro di me, lento, inevitabile, ogni centimetro una sfida che mi faceva tremare. La gola urlava, il corpo godeva. Quando finalmente Riccardo lo ha estratto, io ero fradicia, le cosce lucide, la faccia devastata. Respiravo come una che ha corso per chilometri, ma non avevo mosso un passo.
Mi ha guardata per qualche secondo, in silenzio. Poi ha posato l’oggetto sul tavolo, con un gesto ordinato, preciso.
«Adesso ti spogli» ha detto.
La voce non lasciava scelta.
Mi sono alzata, ancora tremante, e ho cominciato a slacciare la camicetta. Ogni bottone che cadeva era un pezzo di vita vecchia che lasciavo indietro. La gonna, le mutandine inzuppate, il reggiseno che scivolava a terra: alla fine ero nuda, esposta alla luce chiara della mattina. La pelle bagnata di saliva brillava.
Riccardo ha preso una sedia e l’ha trascinata al centro della stanza.
«Siediti» ha detto.
L’ho fatto.
Mi ha afferrato i polsi e li ha legati dietro lo schienale con un laccio nero, stretto ma non crudele. Poi le caviglie, fissate alle gambe della sedia. Le ginocchia divaricate, il sesso completamente esposto, grondante di umori.
«Così» ha detto, arretrando di un passo per guardarmi. «Una bocca aperta e una figa che chiede. Due buchi, Mara. Due ingressi che ormai non ti appartengono più.»
Il divaricatore ancora mi teneva le labbra spalancate, la mascella dolente, la saliva che continuava a colare.
Riccardo si è spogliato. La maglietta è caduta a terra, rivelando un torso asciutto, muscoli giovani, pelle tirata. I jeans sono scivolati, e il suo cazzo è apparso, duro, teso, vivo. Non enorme, non piccolo: perfetto nella sua arroganza.
Si è avvicinato. Ha appoggiato una mano sulla mia guancia, e con l’altra ha svitato piano le viti del divaricatore. Ho sentito il metallo allentarsi, la bocca che finalmente poteva chiudersi. Ma non l’ho fatto. Sono rimasta aperta, ansimante, come una cagna che aspetta l’osso.
Riccardo mi ha afferrato il mento.
«Ora la tua bocca è pronta.»
E senza altro preambolo, mi ha infilato il cazzo tra le labbra.
Non c’è stato dolore. La gola era già stata addestrata. Ho accolto la sua carne calda, viva, e l’ho succhiata con foga disperata. La saliva colava lungo l’asta, mi rigava il mento, ma non mi importava. Ogni spinta era un premio, ogni affondo un ordine a cui ubbidivo senza pensare.
«Lecca, Mara. Fai quello che non hai mai fatto a nessuno.»
E io leccavo, succhiavo, gemevo, con gli occhi che gli chiedevano di non fermarsi.
Poi, mentre la mia bocca lavorava su di lui, ho sentito qualcosa di freddo sulle labbra inferiori. Ho sussultato: il bastone nero, di nuovo.
Riccardo l’ha posato all’ingresso della mia figa, fradicia, aperta.
«Respira» ha detto.
E ha spinto piano.
La gomma scivolava dentro di me, lenta, inesorabile. Non era grosso, ma era lungo. Sentivo ogni centimetro, ogni invasione che mi risaliva dal sesso al ventre, fino al petto. La bocca gemeva intorno al suo cazzo, la figa si apriva al giocattolo. Due fronti, due guerre, due piaceri che mi devastavano insieme.
Ho provato a muovere le anche, ma la sedia mi teneva ferma. Ero bloccata, inchiodata al piacere.
Le lacrime agli occhi, la gola piena, il sesso in fiamme.
Ogni spinta del bastone mi faceva vibrare dentro, ogni colpo di cazzo in bocca mi faceva ansimare come una troia posseduta.
E poi è arrivato.
L’onda.
L’orgasmo che non ho scelto, che mi ha travolta come un temporale. Ho urlato soffocata, con la bocca piena, con la figa che si contraeva intorno a quel bastone nero. Ho squirtato sul pavimento, bagnando le cosce, la sedia, tutto. Ho tremato, ho pianto, ho riso, con il corpo che non mi apparteneva più.
Riccardo non si è fermato. Mi ha guardata godere come si guarda un animale in estasi. Ha lasciato che l’orgasmo mi devastasse, che la mia figa continuasse a colare, che la mia bocca continuasse a succhiare.
Poi ha sussurrato, piano, ma con la forza di un coltello:
«Adesso sei davvero mia.»
Mi ha guardata per qualche secondo, in silenzio. Poi ha posato l’oggetto sul tavolo, con un gesto ordinato, preciso.
«Adesso ti spogli» ha detto.
La voce non lasciava scelta.
Mi sono alzata, ancora tremante, e ho cominciato a slacciare la camicetta. Ogni bottone che cadeva era un pezzo di vita vecchia che lasciavo indietro. La gonna, le mutandine inzuppate, il reggiseno che scivolava a terra: alla fine ero nuda, esposta alla luce chiara della mattina. La pelle bagnata di saliva brillava.
Riccardo ha preso una sedia e l’ha trascinata al centro della stanza.
«Siediti» ha detto.
L’ho fatto.
Mi ha afferrato i polsi e li ha legati dietro lo schienale con un laccio nero, stretto ma non crudele. Poi le caviglie, fissate alle gambe della sedia. Le ginocchia divaricate, il sesso completamente esposto, grondante di umori.
«Così» ha detto, arretrando di un passo per guardarmi. «Una bocca aperta e una figa che chiede. Due buchi, Mara. Due ingressi che ormai non ti appartengono più.»
Il divaricatore ancora mi teneva le labbra spalancate, la mascella dolente, la saliva che continuava a colare.
Riccardo si è spogliato. La maglietta è caduta a terra, rivelando un torso asciutto, muscoli giovani, pelle tirata. I jeans sono scivolati, e il suo cazzo è apparso, duro, teso, vivo. Non enorme, non piccolo: perfetto nella sua arroganza.
Si è avvicinato. Ha appoggiato una mano sulla mia guancia, e con l’altra ha svitato piano le viti del divaricatore. Ho sentito il metallo allentarsi, la bocca che finalmente poteva chiudersi. Ma non l’ho fatto. Sono rimasta aperta, ansimante, come una cagna che aspetta l’osso.
Riccardo mi ha afferrato il mento.
«Ora la tua bocca è pronta.»
E senza altro preambolo, mi ha infilato il cazzo tra le labbra.
Non c’è stato dolore. La gola era già stata addestrata. Ho accolto la sua carne calda, viva, e l’ho succhiata con foga disperata. La saliva colava lungo l’asta, mi rigava il mento, ma non mi importava. Ogni spinta era un premio, ogni affondo un ordine a cui ubbidivo senza pensare.
«Lecca, Mara. Fai quello che non hai mai fatto a nessuno.»
E io leccavo, succhiavo, gemevo, con gli occhi che gli chiedevano di non fermarsi.
Poi, mentre la mia bocca lavorava su di lui, ho sentito qualcosa di freddo sulle labbra inferiori. Ho sussultato: il bastone nero, di nuovo.
Riccardo l’ha posato all’ingresso della mia figa, fradicia, aperta.
«Respira» ha detto.
E ha spinto piano.
La gomma scivolava dentro di me, lenta, inesorabile. Non era grosso, ma era lungo. Sentivo ogni centimetro, ogni invasione che mi risaliva dal sesso al ventre, fino al petto. La bocca gemeva intorno al suo cazzo, la figa si apriva al giocattolo. Due fronti, due guerre, due piaceri che mi devastavano insieme.
Ho provato a muovere le anche, ma la sedia mi teneva ferma. Ero bloccata, inchiodata al piacere.
Le lacrime agli occhi, la gola piena, il sesso in fiamme.
Ogni spinta del bastone mi faceva vibrare dentro, ogni colpo di cazzo in bocca mi faceva ansimare come una troia posseduta.
E poi è arrivato.
L’onda.
L’orgasmo che non ho scelto, che mi ha travolta come un temporale. Ho urlato soffocata, con la bocca piena, con la figa che si contraeva intorno a quel bastone nero. Ho squirtato sul pavimento, bagnando le cosce, la sedia, tutto. Ho tremato, ho pianto, ho riso, con il corpo che non mi apparteneva più.
Riccardo non si è fermato. Mi ha guardata godere come si guarda un animale in estasi. Ha lasciato che l’orgasmo mi devastasse, che la mia figa continuasse a colare, che la mia bocca continuasse a succhiare.
Poi ha sussurrato, piano, ma con la forza di un coltello:
«Adesso sei davvero mia.»
3
8
voti
voti
valutazione
6.9
6.9
Continua a leggere racconti dello stesso autore
racconto precedente
Mara. Da moglie a troia 2racconto sucessivo
Mara. Da moglie a troia 4
Commenti dei lettori al racconto erotico