L'idea migliore
di
La Recherche
genere
saffico
Cinque gradini dietro di lei, osservo la sua sagoma: esprime una sensualità naturale, misurata, magnetica. Mentre sale a piedi nudi per la stretta rampa in pietra che porta al terrazzo, seguo con gli occhi quel corpo, minuto e scolpito, emblema di femminilità raffinata. La vita stretta crea la tipica figura a clessidra, enfatizzata dai pantaloncini corti denim grezzo a vita alta. La sua pelle, liscia, luminosa e lievemente ambrata, sembra riflettere ogni luce mettendo in risalto le spalle toniche e la schiena sensuale. Le gambe, snelle e ben disegnate, paiono allungarsi all’infinito ad ogni gradino, quando l’elevazione è accompagnata pure dal salirli in punta dei piedi. Mi colpisce quanto stretto sia il suo tallone.
Giunta quasi in cima, il volto esprime sincero entusiasmo. Si volta, come a cercare nei miei occhi la conferma della bellezza di ciò a cui quella rampa dà accesso.
Sale ancora pochi gradini, si osserva intorno, poi mi rivolge ancora lo sguardo. Ha un ché di complice. Il suo sorriso malizioso esercita su di me una forma di seduzione: ne sono consapevole.
Lo è anche lei.
A questo punto, però, è necessario fare un passo indietro di due ore e mezza.
Sono allo stabilimento balneare; il sole bacia il mio corpo disteso sul lettino. Lui è seduto su una specie di seggiolone da giudice di tennis; indossa quella che potrebbe essere definita tenuta d’ordinanza. Guardandolo, rifletto sugli stereotipi: l’animatore del villaggio turistico a 18 anni, il maestro di tennis a 20, il personal trainer sette anni fa quando, dopo ver spento 38 anni candeline, convinta di un tradimento di mio marito mi sono liberata dal vincolo morale della fedeltà.
Il bagnino mi manca. Per ora.
Ecco con quale spirito osservo le spalle muscolose di Stefano, detto “Ste”, uscire dalla canottiera rossa con la scritta “Salvataggio” sul dorso, il torace ampio, il tatuaggio vistoso su un avambraccio, le gambe villose. Dettagli di un più che trentenne abbronzato, atletico, ampiamente piacione.
E’ un gioco: nascosta dai miei occhiali da sole, è qualche giorno che conto i suoi sguardi fingendo di non vederli. Lui mi ronza intorno, io non lo respingo, né lo incito. Però, un paio di volte l’ho provocato, come quando ieri ho abbassato in vita il costume intero per prendere il sole in topless -vezzo della mia generazione- mentre mi stava guardando. Diciamo che sto tessendo sotto traccia una tela di complicità che lasci sperare lui e che permetta a me un divertissement per coronare questi due mesi di villeggiatura.
Parola antica, vero? Mi piacciono i termini abbandonati. Inoltre, il sostantivo “villeggiatura” è più pertinente di “vacanza”, visto che mi sono trasferita in questa località per due mesi allo scopo di starmene da sola e terminare un lavoro. Così, da quasi due settimane, ogni mattina sono a casa alla tastiera e nel pomeriggio vengo al mare. Vacanze ne farò ad agosto con mio marito che, fino ad allora, probabilmente mi raggiungerà per un fine settimana.
Oggi, tuttavia, lo sguardo di “Ste” mi trascura. Dalla sua postazione di vedetta sugli scogli, in prossimità del piccolo pontile che permette la discesa nelle acque limpide dello Ionio, guarda con frequenza un punto dell’area di mare più vicina a lui. Sollevo lo schienale del lettino e vedo che c’è una ragazzina distesa a pancia in giù sulla piattaforma galleggiante, a pochi metri dagli scogli.
Come dare torto all’attenzione di Stefano? Lei sembra addormentata; è lunga, magra e le sue chiappette rotonde, modellate da un bikini bianco, capisco siano una calamita per gli occhi maschili. Capelli castani, non troppo lunghi. Promana freschezza. A un certo punto, piega un ginocchio e solleva il polpaccio, lasciando ciondolare il piede nell’aria; alcuni riflessi lasciano intendere che la caviglia fine sia ornata da un gioiello sottile con qualcosa di brillante. E’ leggiadra, per ricorrere ancora al lessico di un’altra epoca.
Osservo lei, guardo lui: due begli esemplari, ma è fuor di dubbio che il corpo femminile sia molto più bello di quello maschile: più aggraziato, armonico, elegante, equilibrato, proporzionato. Cosa si trova di sinuoso in un bel corpo maschile? Nulla. Vince, il maschio, per ciò che fa la differenza: la virilità. Ma se badiamo solo alla bellezza, il corpo di donna è più bello. Punto.
La ragazzina si ridesta completamente e si volta. Alza il busto sostenendone poi il peso con le braccia dietro la schiena. Stefano si impettisce e cerca di attirare l’attenzione di lei fingendo di mettere a posto gli strumenti sul suo trespolo.
Lei si alza, si tuffa ed è presto alla scaletta. Sale sul molo e solo a quel punto, sarà a cinque metri da me, capisco che in verità non è particolarmente alta. I riflessi del sole sul mare mi impediscono di metterla a fuoco con precisione, ma colgo che neppure è un’adolescente. Cerco si seguirla con gli occhi mentre va verso la doccia; il movimento di quelle natiche sode ha qualcosa di ipnotico. Anche per “Ste” che la segue con lo sguardo fino a ché lei sparisce dietro alle cabine.
Solo a quel punto torna a guardarmi. Prendo la crema spray e inizio a spruzzarla sulle spalle e sulla schiena, poi riabbasso lo schienale, con movimenti lenti mi slaccio e tolgo la parte superiore del bikini prima di sdraiarmi a pancia in giù. Con gli occhi di “Ste” certamente puntati su di me, mi rilasso cullata dal rumore del mare.
Dopo qualche tempo, sento una voce femminile, discreta, impegnata in una telefonata. Dietro le lenti scure, apro gli occhi e vedo che è la silfide, seduta sulla sdraio dell’ombrellone affianco al mio. Mi piace farmi gli affari altrui e, allora, ascolto con attenzione. In poco tempo so di lei alcune cose. La prima, la colgo da novarese che ha studiato a Torino e che poi, per il lavoro del marito, ha vissuto a Mantova, Reggio Emilia e Milano: la ragazza risiede nel capoluogo lombardo. Non lo dico per un’inflessione particolare, ma per il tono, nonché -soprattutto- per il frequente utilizzo di parole in lingua inglese.
La seconda: è arrivata ieri l’altro, al seguito del marito Luca, impegnato in una masseria della zona in un “off side” con un gruppo di colleghi. Lui ha tutto il giorno “meeting” e attività di “team biulding”: lei non deve assolutamente stare tra le scatole, neanche a cena.
La terza: ha una figlia parcheggiata per il “long weekend” dai nonni in una casa di campagna.
La quarta: si sta rilassando, ma ad essere da sola si sta anche annoiando, ragione per cui più tardi vuole andare a fare qualche fotografia, magari a “Gallipoli down-town”.
Marito, figlia. Ma quanti anni ha, in realtà, quel fisico da ragazzina?
Pochi minuti dopo che ha terminato la telefonata, mi volto e spruzzo la crema spray sul mio petto: Ste sta certamente apprezzando. Lei, nel mentre, rovista nella sua grande borsa di vimini e prende un oggetto nero, poi lo impugna. E’ una macchina fotografica molto bella che riconosco: una Leica compatta, digitale, replica di design di quella iconica.
“Allora non sono l’unica a usare ancora la cara, vecchia macchina fotografica invece del telefonino”, affermo rivolgendomi a lei. Mi guarda, sorride cordiale. “Un hobby. Vero che oramai -si coglie la sua voglia di parlare con qualcuno- anche gli smartphone fanno buone fotografie, ma non è bello che un oggetto abbia una funzione specifica, sia dedicato a quello e basta?”, risponde con cordialità.
Sorreggendomi sui gomiti, mi presento: “Sono Allegra”. “Piacere, sono Serena”, risponde. “Ci manca solo una Gaia”, ribatto. Ridiamo.
Iniziamo a parlare di fotografia: della luce perfetta di un pomeriggio come quello, ma anche dell’ottica versatile della sua Leica. Racconta che suo nonno era fotografo per un quotidiano.
Scopro -e utilizzo questo termine per esprimere il mio stupore- che ha 36 anni. Li porta fantasticamente e quando le chiedo come faccia a sembrare una ragazzina, attribuisce il merito ai tanti anni di danza classica e poi agli altrettanti di yoga, disciplina che pratica in maniera maniacale quotidianamente.
Mi chiede da dove vengo, del mio lavoro, quale occasione mi porti lì in quei giorni che il clima, ma non ancora il calendario, fa chiamare estate.
E’ una persona curiosa, nel senso di interessata a conoscere. “Non ho mai incontrato -dice- qualcuno che fosse specializzato nello scrivere biografie”, afferma prima di investirmi di nuovi quesiti. Le racconto, così, che lavoro su commissione: i committenti sono persone che vogliono, raccolte in maniera organica, celebrare e tramandare le vite di un loro avo importante in un determinato contesto. In anni relativamente recenti ho inanellato due libri fortunati: uno sulla storia di un grande agricoltore bio ante litteram, l’altro su una donna piemontese di origini modeste che nei primissimi anni del ‘900 si fece imprenditrice e avviò un’attività di successo nel settore dolciario. Serena conosce questa seconda storia per averne visto una “docu-fiction”, in TV. “E’ quella tratta dal mio libro”, le ribatto.
Quando le racconto di ciò che sto scrivendo ora, mi fa domande intelligenti non sulla storia, ma sul metodo di scrittura. E’ interessata anche a sapere come sia, dal punto di vista fisico, il mio ambiente di lavoro: se tutto computer o ancora anche documenti e appunti cartacei. Avuta la risposta sulla seconda opzione, mi domanda come io li distribuisca nello spazio: se lavagne, raccoglitori, cassetti, superfici, ecc…
Incalza con queste domande, al ché le dico: “Vieni a casa mia, così vedi. Sono a Gallipoli, posso offrire un fresco rosé di questa regione, con ottime olive. E una vista unica. Anche il tuo hobby della fotografia ne trarrà soddisfazione, fidati. Se vuoi possiamo andare con il mio scooter: ho un casco in più”.
Incuriosita, accetta con entusiasmo, anche perché il sole inizia ad abbassarsi. Poi, dice, potrà farsi venire a prendere dal “transfer” della sua masseria più tardi.
Per la gioia degli occhi di Ste, lego in vita il pareo, infilo in borsa il pezzo sopra del bikini e metto una maglietta che valorizza le mie forme. Serena indossa corti bermuda denim, molto alla moda, abbinati a una camicia di lino bianca della quale ha cura d’infilare un solo lembo nei pantaloni. E’ una camicia ampia che le cade vistosamente da una spalla.
Si lega i capelli con l’elastico e infila sandali pressoché senza tacco. Ci incamminiamo verso l’uscita. Saluto, con un “A domani!” a voce alta, quell’uomo seduto nella sua postazione di vedetta. Lui ci guarda allontanarci e penso che, nella sua testa, stia soppesando l’opzione con quale di noi due...
Serena indossa il casco e sale dietro di me sullo scooter da battaglia. Non ci sono appigli efficaci, sicché in corrispondenza di curve, accelerazioni, frenate e tortuosità del terreno, Serena non può far altro che mettere le mani sui miei fianchi o intorno alla mia vita. Non sono abituata e all’inizio mi stupisce, ma piano piano mia accorgo che attendo sempre più la prossima occasione di quel contatto. Tempo pochi minuti e diventa una condizione stabile, non occasionata dalla strada o dal traffico. E’ una situazione che mi piace: quell’affidarsi a me che guido è come se avesse aperto un varco di confidenza autentica.
Mentre ci avviciniamo a Gallipoli mi chiede se è da tanti anni che la frequento. Le spiego che abbiamo inaspettatamente ereditato un appartamento cinque anni fa, da un prozio di mio marito. Se avessimo dovuto mai acquistare una casa al mare, non avremmo scelto un luogo così lontano da dove viviamo, né un’abitazione come quella, ma alla fine io sono contenta: vengo poco -salvo quest’anno- ma con gli affitti brevi è una casa che rende molto bene.
Attraversiamo il ponte che separa la brutta città nuova dalla caratteristica città vecchia, percorriamo la Riviera fino alla curva dove la facciata della Chiesa di San Francesco sembra volersi aprire al mare. “Eccoci!”, dico a Serena fermandomi innanzi al portoncino di casa.
Entriamo nel piccolo cortile e lei osserva il rettangolo di cielo sopra di noi, costellato da una scala e qualche balaustra sulla quale, alla ricerca della luce, si arrampica una buganvillea dal colore vivido. “Che bello! -esclama estraendo la sua macchina fotografica e immortalando quella prospettiva- E’ molto …charmant”. Lo prendo come un modo raffinato di commentare un contesto che avrebbe bisogno di una ritinteggiatura.
Faccio strada salendo le scale aperte sul cortile. Raggiungiamo il secondo ed ultimo piano accompagnate dal rumore dei nostri sandali sui gradini di pietra.
Entriamo in casa, direttamente nel soggiorno spazioso.
“Ma che meraviglia! -afferma Serena- E’ una casa shabby-chic: dettagli di pietra a vista, legni chiari, mobili artigianali, nessun elemento di troppo, solo tre colori …ton sur ton. Guarda che tende meravigliose!”
E’ sincera.
Con gli occhi rivolti al soffitto a botte, mi chiede di fare un giro. Solo ora noto che si è sfilata i sandali in ingresso, come ho fatto anch’io, d’abitudine. La casa non è grande: la piccola cucina affaccia sul cortile, il corridoio stretto conduce a due camere da letto, ciascuna con il suo bagno. Serena osserva le poche fotografie in bianco e nero che adornano le pareti: le spiego che sono una mia produzione. Mi sorride autenticamente ammirata, poi va sul balcone della sala e ne constata la suggestiva prospettiva verso spiaggia e, in fondo, porto.
“Le cose più belle non le hai ancora viste, però”, le dico conducendola innanzi a due porte in ferro affiancate, in corridoio. Le chiedo da dove voglia iniziare; apro quella che indica. Dà accesso a quello che sembra un banale, ampio e ordinato, ripostiglio cieco. Mi guarda interdetta, poi le faccio segno di seguirmi e di chiudere la porta dietro di sé. Quando siamo nel buio, accendo l’interruttore e tutto s’illumina di rosso. Solo allora realizza che quelle corde appese non sono per stendere indumenti, ma per far asciugare le stampe fotografiche, che i flaconi di plastica non sono detersivi, ma reagenti chimici, che quelle bacinelle formato A4 sul tavolo non sono raccoglitori, che l’attrezzo al loro fianco è un ingranditore. Il suo volto è stupefatto e commenta a proposito della pertinenza dell’espressione “mia produzione” circa le fotografie appese in casa.
Racconta che per lei la camera oscura ha un fascino antico, che le trasmette una sensazione di calma, di pazienza, di ritualità e di magia. Conserva vivido il ricordo di una volta, da bambina, in cui suo nonno le aveva mostrato il “miracolo dell’immagine che si svela”: allorché sul foglio bianco immerso nella bacinella affiora, come un ricordo, una forma disegnata. Prima un’ombra, poi un contorno, che diventa immagine. “La luce che non c’è -dice recitando le parole che aveva utilizzato suo nonno- ha lasciato lì il suo segreto”. “Vero -le rispondo- e poi lo restituisce, piano, come se la realtà stessa stesse riemergendo e, su un frammento di carta, riprendendo vita.” E’ consapevole di aver condiviso qualcosa di intimo. Lo sono anch’io. E’ stato come un acceleratore di confidenza.
Guarda alcune fotografie appoggiate sul banco. Si sofferma innanzi a una che avevo fatto l’altro giorno a Ste, di nascosto. La prende in mano e la commenta: “Con questo ritratto gli hai tirato fuori tutto il testosterone del mondo!” Mi pone la fotografia, la prendo in mano e la alzo verso la lampadina rossa, per vederla entrambe meglio. “Dici?”, chiedo mentre lei è ora alle mie spalle. “Ti fa sesso il bagnino, vero?” Lo sussurra dietro il mio orecchio, appoggiando le mani sui miei fianchi in un gesto che ha un’intimità inversamente proporzionale alla lunghezza della nostra conoscenza. Una scarica di calore improvvisamente e inaspettatamente mi attraversa. Anche se non fossimo sotto quella luce, penso, la pelle del mio viso apparirebbe arrossata. E’ una sensazione, condizione, situazione che mi imbarazza. Vi sfuggo rispondendo con una piccola risata nervosa e spiegando che i ritratti sono la mia passione “tanto che -le dico aprendo una borsa da fotografia ed estraendo la mia macchina- uso questa: Zenza Bronica del 1985, integralmente meccanica, negativi di 6x6 cm, mirino a pozzetto.” Allunga la mano e la accarezza come si fa con ciò che è prezioso. Poi mi chiede quanto tempo ci voglia a passare dallo scatto alla stampa in mano. “Non è breve, però diciamo che in quattro ore, incluse le attese per l’asciugatura sia del negativo che della carta, hai le immagini di un rullino in bianco e nero.” E’ entusiasta.
Dice che riconosce come svantaggi della fotografia digitale che tutto quello che le sto mostrando si perde, ma anche che gli scatti non hanno materialità e, nascendo duplicabili, non hanno unicità. Quindi il risultato ha meno valore.
La pensiamo esattamente allo stesso modo.
Faccio strada verso l’uscita. Alle mie spalle, Serena mi ferma con voce morbida: “Prendi la macchina fotografica.”
“Sì, certo. Così puoi provarla”, le rispondo.
Mi sorride con un guizzo negli occhi. “Ho un’idea migliore.”
Il tono è velato, complice. Il suo sguardo mi cattura: fermo, sottile, decisamente intrigante.
Usciamo. Lei mi segue da vicino, e appoggia una mano sulla mia spalla. È un gesto semplice, ma il modo in cui indugia su di me -lento, leggero, intenzionale- mi attraversa come una scossa. Un ringraziamento sussurrato, qualcosa che vibra oltre le parole.
Chiudo la porta alle nostre spalle, ma resto sospesa in quel tocco. Una fiammata mi percorre ancora, improvvisa, difficile da mascherare. Per sciogliere la tensione, divago spiegando che ovviamente quel locale resta chiuso a chiave quando affittiamo la casa.
Lei ascolta, ma non risponde. I nostri sguardi si agganciano. Il tempo sembra rarefatto. I suoi occhi mi inchiodano: grandi, profondi, incredibilmente vivi. Sono lì, a pochi centimetri dai miei. Non diciamo nulla, ma nell’assenza di parole si addensa qualcosa di potente, palpabile.
Mi accorgo solo ora, con chiarezza assoluta: non ho mai sentito un’attrazione così forte verso una donna.
E il desiderio -improvviso, naturale, inevitabile- prende forma nel silenzio che ci avvolge per secondi lunghissimi.
Mi ridesta il peso della mia Bronica nella mano destra.
“Ora l’altra sorpresa”, le dico. Apro la seconda porta in ferro e appare la rampa di una scala stretta, sempre in pietra, stretta tra due muri: in cima si vede il cielo. Le faccio segno di precedermi, si incammina: è lì che, pochi gradini dietro di lei, osservo la sua sagoma: esprime una sensualità naturale, misurata, magnetica. Mentre sale a piedi nudi per la stretta rampa in pietra che porta al terrazzo, seguo con gli occhi quel corpo, minuto e scolpito, emblema di femminilità raffinata. La vita stretta crea la tipica figura a clessidra, enfatizzata dai pantaloncini corti, denim grezzo a vita alta. Nel suo linguaggio, penso, li chiamerà “hot-pants”. La sua pelle, liscia, luminosa e lievemente ambrata, sembra riflettere ogni luce mettendo in risalto le spalle toniche e la schiena sensuale. Le gambe, snelle e ben disegnate, paiono allungarsi all’infinito ad ogni gradino, quando l’elevazione è accompagnata pure dal salirli in punta dei piedi. Mi colpisce quanto stretto sia il suo tallone, quanto sottile la caviglia, illuminata da un esile braccialetto con brillanti.
Giunta quasi in cima, il suo volto s’illumina di un entusiasmo sincero, spontaneo. C'è qualcosa, in quel momento, che mi disarma: la leggerezza del suo stupore, mescolata a una consapevolezza silenziosa.
Ancora pochi gradini, poi si ferma, si guarda intorno e torna a voltarsi verso di me.
Il suo sguardo mi raggiunge prima ancora del suo sorriso. È complice. Sicuro.
E quando le labbra si piegano in quel sorriso malizioso, sento che la tensione si fa palpabile.
Non è solo bellezza: è un gioco sottile, un richiamo silenzioso, sapiente.
Non mi sfugge: sta giocando con qualcosa che entrambi avvertiamo.
La sua seduzione è intenzionale, ma non forzata.
Ne sono consapevole. Lo è anche lei.
L’ho portata dove può realizzare la sua “idea migliore”. Lo so io, lo sa lei, anche se nessuna delle due lo dice.
E per un istante, mi chiedo se non sia proprio questo — il nostro non detto — a fare di lei il centro esatto del mio desiderio.
(Segue)
Giunta quasi in cima, il volto esprime sincero entusiasmo. Si volta, come a cercare nei miei occhi la conferma della bellezza di ciò a cui quella rampa dà accesso.
Sale ancora pochi gradini, si osserva intorno, poi mi rivolge ancora lo sguardo. Ha un ché di complice. Il suo sorriso malizioso esercita su di me una forma di seduzione: ne sono consapevole.
Lo è anche lei.
A questo punto, però, è necessario fare un passo indietro di due ore e mezza.
Sono allo stabilimento balneare; il sole bacia il mio corpo disteso sul lettino. Lui è seduto su una specie di seggiolone da giudice di tennis; indossa quella che potrebbe essere definita tenuta d’ordinanza. Guardandolo, rifletto sugli stereotipi: l’animatore del villaggio turistico a 18 anni, il maestro di tennis a 20, il personal trainer sette anni fa quando, dopo ver spento 38 anni candeline, convinta di un tradimento di mio marito mi sono liberata dal vincolo morale della fedeltà.
Il bagnino mi manca. Per ora.
Ecco con quale spirito osservo le spalle muscolose di Stefano, detto “Ste”, uscire dalla canottiera rossa con la scritta “Salvataggio” sul dorso, il torace ampio, il tatuaggio vistoso su un avambraccio, le gambe villose. Dettagli di un più che trentenne abbronzato, atletico, ampiamente piacione.
E’ un gioco: nascosta dai miei occhiali da sole, è qualche giorno che conto i suoi sguardi fingendo di non vederli. Lui mi ronza intorno, io non lo respingo, né lo incito. Però, un paio di volte l’ho provocato, come quando ieri ho abbassato in vita il costume intero per prendere il sole in topless -vezzo della mia generazione- mentre mi stava guardando. Diciamo che sto tessendo sotto traccia una tela di complicità che lasci sperare lui e che permetta a me un divertissement per coronare questi due mesi di villeggiatura.
Parola antica, vero? Mi piacciono i termini abbandonati. Inoltre, il sostantivo “villeggiatura” è più pertinente di “vacanza”, visto che mi sono trasferita in questa località per due mesi allo scopo di starmene da sola e terminare un lavoro. Così, da quasi due settimane, ogni mattina sono a casa alla tastiera e nel pomeriggio vengo al mare. Vacanze ne farò ad agosto con mio marito che, fino ad allora, probabilmente mi raggiungerà per un fine settimana.
Oggi, tuttavia, lo sguardo di “Ste” mi trascura. Dalla sua postazione di vedetta sugli scogli, in prossimità del piccolo pontile che permette la discesa nelle acque limpide dello Ionio, guarda con frequenza un punto dell’area di mare più vicina a lui. Sollevo lo schienale del lettino e vedo che c’è una ragazzina distesa a pancia in giù sulla piattaforma galleggiante, a pochi metri dagli scogli.
Come dare torto all’attenzione di Stefano? Lei sembra addormentata; è lunga, magra e le sue chiappette rotonde, modellate da un bikini bianco, capisco siano una calamita per gli occhi maschili. Capelli castani, non troppo lunghi. Promana freschezza. A un certo punto, piega un ginocchio e solleva il polpaccio, lasciando ciondolare il piede nell’aria; alcuni riflessi lasciano intendere che la caviglia fine sia ornata da un gioiello sottile con qualcosa di brillante. E’ leggiadra, per ricorrere ancora al lessico di un’altra epoca.
Osservo lei, guardo lui: due begli esemplari, ma è fuor di dubbio che il corpo femminile sia molto più bello di quello maschile: più aggraziato, armonico, elegante, equilibrato, proporzionato. Cosa si trova di sinuoso in un bel corpo maschile? Nulla. Vince, il maschio, per ciò che fa la differenza: la virilità. Ma se badiamo solo alla bellezza, il corpo di donna è più bello. Punto.
La ragazzina si ridesta completamente e si volta. Alza il busto sostenendone poi il peso con le braccia dietro la schiena. Stefano si impettisce e cerca di attirare l’attenzione di lei fingendo di mettere a posto gli strumenti sul suo trespolo.
Lei si alza, si tuffa ed è presto alla scaletta. Sale sul molo e solo a quel punto, sarà a cinque metri da me, capisco che in verità non è particolarmente alta. I riflessi del sole sul mare mi impediscono di metterla a fuoco con precisione, ma colgo che neppure è un’adolescente. Cerco si seguirla con gli occhi mentre va verso la doccia; il movimento di quelle natiche sode ha qualcosa di ipnotico. Anche per “Ste” che la segue con lo sguardo fino a ché lei sparisce dietro alle cabine.
Solo a quel punto torna a guardarmi. Prendo la crema spray e inizio a spruzzarla sulle spalle e sulla schiena, poi riabbasso lo schienale, con movimenti lenti mi slaccio e tolgo la parte superiore del bikini prima di sdraiarmi a pancia in giù. Con gli occhi di “Ste” certamente puntati su di me, mi rilasso cullata dal rumore del mare.
Dopo qualche tempo, sento una voce femminile, discreta, impegnata in una telefonata. Dietro le lenti scure, apro gli occhi e vedo che è la silfide, seduta sulla sdraio dell’ombrellone affianco al mio. Mi piace farmi gli affari altrui e, allora, ascolto con attenzione. In poco tempo so di lei alcune cose. La prima, la colgo da novarese che ha studiato a Torino e che poi, per il lavoro del marito, ha vissuto a Mantova, Reggio Emilia e Milano: la ragazza risiede nel capoluogo lombardo. Non lo dico per un’inflessione particolare, ma per il tono, nonché -soprattutto- per il frequente utilizzo di parole in lingua inglese.
La seconda: è arrivata ieri l’altro, al seguito del marito Luca, impegnato in una masseria della zona in un “off side” con un gruppo di colleghi. Lui ha tutto il giorno “meeting” e attività di “team biulding”: lei non deve assolutamente stare tra le scatole, neanche a cena.
La terza: ha una figlia parcheggiata per il “long weekend” dai nonni in una casa di campagna.
La quarta: si sta rilassando, ma ad essere da sola si sta anche annoiando, ragione per cui più tardi vuole andare a fare qualche fotografia, magari a “Gallipoli down-town”.
Marito, figlia. Ma quanti anni ha, in realtà, quel fisico da ragazzina?
Pochi minuti dopo che ha terminato la telefonata, mi volto e spruzzo la crema spray sul mio petto: Ste sta certamente apprezzando. Lei, nel mentre, rovista nella sua grande borsa di vimini e prende un oggetto nero, poi lo impugna. E’ una macchina fotografica molto bella che riconosco: una Leica compatta, digitale, replica di design di quella iconica.
“Allora non sono l’unica a usare ancora la cara, vecchia macchina fotografica invece del telefonino”, affermo rivolgendomi a lei. Mi guarda, sorride cordiale. “Un hobby. Vero che oramai -si coglie la sua voglia di parlare con qualcuno- anche gli smartphone fanno buone fotografie, ma non è bello che un oggetto abbia una funzione specifica, sia dedicato a quello e basta?”, risponde con cordialità.
Sorreggendomi sui gomiti, mi presento: “Sono Allegra”. “Piacere, sono Serena”, risponde. “Ci manca solo una Gaia”, ribatto. Ridiamo.
Iniziamo a parlare di fotografia: della luce perfetta di un pomeriggio come quello, ma anche dell’ottica versatile della sua Leica. Racconta che suo nonno era fotografo per un quotidiano.
Scopro -e utilizzo questo termine per esprimere il mio stupore- che ha 36 anni. Li porta fantasticamente e quando le chiedo come faccia a sembrare una ragazzina, attribuisce il merito ai tanti anni di danza classica e poi agli altrettanti di yoga, disciplina che pratica in maniera maniacale quotidianamente.
Mi chiede da dove vengo, del mio lavoro, quale occasione mi porti lì in quei giorni che il clima, ma non ancora il calendario, fa chiamare estate.
E’ una persona curiosa, nel senso di interessata a conoscere. “Non ho mai incontrato -dice- qualcuno che fosse specializzato nello scrivere biografie”, afferma prima di investirmi di nuovi quesiti. Le racconto, così, che lavoro su commissione: i committenti sono persone che vogliono, raccolte in maniera organica, celebrare e tramandare le vite di un loro avo importante in un determinato contesto. In anni relativamente recenti ho inanellato due libri fortunati: uno sulla storia di un grande agricoltore bio ante litteram, l’altro su una donna piemontese di origini modeste che nei primissimi anni del ‘900 si fece imprenditrice e avviò un’attività di successo nel settore dolciario. Serena conosce questa seconda storia per averne visto una “docu-fiction”, in TV. “E’ quella tratta dal mio libro”, le ribatto.
Quando le racconto di ciò che sto scrivendo ora, mi fa domande intelligenti non sulla storia, ma sul metodo di scrittura. E’ interessata anche a sapere come sia, dal punto di vista fisico, il mio ambiente di lavoro: se tutto computer o ancora anche documenti e appunti cartacei. Avuta la risposta sulla seconda opzione, mi domanda come io li distribuisca nello spazio: se lavagne, raccoglitori, cassetti, superfici, ecc…
Incalza con queste domande, al ché le dico: “Vieni a casa mia, così vedi. Sono a Gallipoli, posso offrire un fresco rosé di questa regione, con ottime olive. E una vista unica. Anche il tuo hobby della fotografia ne trarrà soddisfazione, fidati. Se vuoi possiamo andare con il mio scooter: ho un casco in più”.
Incuriosita, accetta con entusiasmo, anche perché il sole inizia ad abbassarsi. Poi, dice, potrà farsi venire a prendere dal “transfer” della sua masseria più tardi.
Per la gioia degli occhi di Ste, lego in vita il pareo, infilo in borsa il pezzo sopra del bikini e metto una maglietta che valorizza le mie forme. Serena indossa corti bermuda denim, molto alla moda, abbinati a una camicia di lino bianca della quale ha cura d’infilare un solo lembo nei pantaloni. E’ una camicia ampia che le cade vistosamente da una spalla.
Si lega i capelli con l’elastico e infila sandali pressoché senza tacco. Ci incamminiamo verso l’uscita. Saluto, con un “A domani!” a voce alta, quell’uomo seduto nella sua postazione di vedetta. Lui ci guarda allontanarci e penso che, nella sua testa, stia soppesando l’opzione con quale di noi due...
Serena indossa il casco e sale dietro di me sullo scooter da battaglia. Non ci sono appigli efficaci, sicché in corrispondenza di curve, accelerazioni, frenate e tortuosità del terreno, Serena non può far altro che mettere le mani sui miei fianchi o intorno alla mia vita. Non sono abituata e all’inizio mi stupisce, ma piano piano mia accorgo che attendo sempre più la prossima occasione di quel contatto. Tempo pochi minuti e diventa una condizione stabile, non occasionata dalla strada o dal traffico. E’ una situazione che mi piace: quell’affidarsi a me che guido è come se avesse aperto un varco di confidenza autentica.
Mentre ci avviciniamo a Gallipoli mi chiede se è da tanti anni che la frequento. Le spiego che abbiamo inaspettatamente ereditato un appartamento cinque anni fa, da un prozio di mio marito. Se avessimo dovuto mai acquistare una casa al mare, non avremmo scelto un luogo così lontano da dove viviamo, né un’abitazione come quella, ma alla fine io sono contenta: vengo poco -salvo quest’anno- ma con gli affitti brevi è una casa che rende molto bene.
Attraversiamo il ponte che separa la brutta città nuova dalla caratteristica città vecchia, percorriamo la Riviera fino alla curva dove la facciata della Chiesa di San Francesco sembra volersi aprire al mare. “Eccoci!”, dico a Serena fermandomi innanzi al portoncino di casa.
Entriamo nel piccolo cortile e lei osserva il rettangolo di cielo sopra di noi, costellato da una scala e qualche balaustra sulla quale, alla ricerca della luce, si arrampica una buganvillea dal colore vivido. “Che bello! -esclama estraendo la sua macchina fotografica e immortalando quella prospettiva- E’ molto …charmant”. Lo prendo come un modo raffinato di commentare un contesto che avrebbe bisogno di una ritinteggiatura.
Faccio strada salendo le scale aperte sul cortile. Raggiungiamo il secondo ed ultimo piano accompagnate dal rumore dei nostri sandali sui gradini di pietra.
Entriamo in casa, direttamente nel soggiorno spazioso.
“Ma che meraviglia! -afferma Serena- E’ una casa shabby-chic: dettagli di pietra a vista, legni chiari, mobili artigianali, nessun elemento di troppo, solo tre colori …ton sur ton. Guarda che tende meravigliose!”
E’ sincera.
Con gli occhi rivolti al soffitto a botte, mi chiede di fare un giro. Solo ora noto che si è sfilata i sandali in ingresso, come ho fatto anch’io, d’abitudine. La casa non è grande: la piccola cucina affaccia sul cortile, il corridoio stretto conduce a due camere da letto, ciascuna con il suo bagno. Serena osserva le poche fotografie in bianco e nero che adornano le pareti: le spiego che sono una mia produzione. Mi sorride autenticamente ammirata, poi va sul balcone della sala e ne constata la suggestiva prospettiva verso spiaggia e, in fondo, porto.
“Le cose più belle non le hai ancora viste, però”, le dico conducendola innanzi a due porte in ferro affiancate, in corridoio. Le chiedo da dove voglia iniziare; apro quella che indica. Dà accesso a quello che sembra un banale, ampio e ordinato, ripostiglio cieco. Mi guarda interdetta, poi le faccio segno di seguirmi e di chiudere la porta dietro di sé. Quando siamo nel buio, accendo l’interruttore e tutto s’illumina di rosso. Solo allora realizza che quelle corde appese non sono per stendere indumenti, ma per far asciugare le stampe fotografiche, che i flaconi di plastica non sono detersivi, ma reagenti chimici, che quelle bacinelle formato A4 sul tavolo non sono raccoglitori, che l’attrezzo al loro fianco è un ingranditore. Il suo volto è stupefatto e commenta a proposito della pertinenza dell’espressione “mia produzione” circa le fotografie appese in casa.
Racconta che per lei la camera oscura ha un fascino antico, che le trasmette una sensazione di calma, di pazienza, di ritualità e di magia. Conserva vivido il ricordo di una volta, da bambina, in cui suo nonno le aveva mostrato il “miracolo dell’immagine che si svela”: allorché sul foglio bianco immerso nella bacinella affiora, come un ricordo, una forma disegnata. Prima un’ombra, poi un contorno, che diventa immagine. “La luce che non c’è -dice recitando le parole che aveva utilizzato suo nonno- ha lasciato lì il suo segreto”. “Vero -le rispondo- e poi lo restituisce, piano, come se la realtà stessa stesse riemergendo e, su un frammento di carta, riprendendo vita.” E’ consapevole di aver condiviso qualcosa di intimo. Lo sono anch’io. E’ stato come un acceleratore di confidenza.
Guarda alcune fotografie appoggiate sul banco. Si sofferma innanzi a una che avevo fatto l’altro giorno a Ste, di nascosto. La prende in mano e la commenta: “Con questo ritratto gli hai tirato fuori tutto il testosterone del mondo!” Mi pone la fotografia, la prendo in mano e la alzo verso la lampadina rossa, per vederla entrambe meglio. “Dici?”, chiedo mentre lei è ora alle mie spalle. “Ti fa sesso il bagnino, vero?” Lo sussurra dietro il mio orecchio, appoggiando le mani sui miei fianchi in un gesto che ha un’intimità inversamente proporzionale alla lunghezza della nostra conoscenza. Una scarica di calore improvvisamente e inaspettatamente mi attraversa. Anche se non fossimo sotto quella luce, penso, la pelle del mio viso apparirebbe arrossata. E’ una sensazione, condizione, situazione che mi imbarazza. Vi sfuggo rispondendo con una piccola risata nervosa e spiegando che i ritratti sono la mia passione “tanto che -le dico aprendo una borsa da fotografia ed estraendo la mia macchina- uso questa: Zenza Bronica del 1985, integralmente meccanica, negativi di 6x6 cm, mirino a pozzetto.” Allunga la mano e la accarezza come si fa con ciò che è prezioso. Poi mi chiede quanto tempo ci voglia a passare dallo scatto alla stampa in mano. “Non è breve, però diciamo che in quattro ore, incluse le attese per l’asciugatura sia del negativo che della carta, hai le immagini di un rullino in bianco e nero.” E’ entusiasta.
Dice che riconosce come svantaggi della fotografia digitale che tutto quello che le sto mostrando si perde, ma anche che gli scatti non hanno materialità e, nascendo duplicabili, non hanno unicità. Quindi il risultato ha meno valore.
La pensiamo esattamente allo stesso modo.
Faccio strada verso l’uscita. Alle mie spalle, Serena mi ferma con voce morbida: “Prendi la macchina fotografica.”
“Sì, certo. Così puoi provarla”, le rispondo.
Mi sorride con un guizzo negli occhi. “Ho un’idea migliore.”
Il tono è velato, complice. Il suo sguardo mi cattura: fermo, sottile, decisamente intrigante.
Usciamo. Lei mi segue da vicino, e appoggia una mano sulla mia spalla. È un gesto semplice, ma il modo in cui indugia su di me -lento, leggero, intenzionale- mi attraversa come una scossa. Un ringraziamento sussurrato, qualcosa che vibra oltre le parole.
Chiudo la porta alle nostre spalle, ma resto sospesa in quel tocco. Una fiammata mi percorre ancora, improvvisa, difficile da mascherare. Per sciogliere la tensione, divago spiegando che ovviamente quel locale resta chiuso a chiave quando affittiamo la casa.
Lei ascolta, ma non risponde. I nostri sguardi si agganciano. Il tempo sembra rarefatto. I suoi occhi mi inchiodano: grandi, profondi, incredibilmente vivi. Sono lì, a pochi centimetri dai miei. Non diciamo nulla, ma nell’assenza di parole si addensa qualcosa di potente, palpabile.
Mi accorgo solo ora, con chiarezza assoluta: non ho mai sentito un’attrazione così forte verso una donna.
E il desiderio -improvviso, naturale, inevitabile- prende forma nel silenzio che ci avvolge per secondi lunghissimi.
Mi ridesta il peso della mia Bronica nella mano destra.
“Ora l’altra sorpresa”, le dico. Apro la seconda porta in ferro e appare la rampa di una scala stretta, sempre in pietra, stretta tra due muri: in cima si vede il cielo. Le faccio segno di precedermi, si incammina: è lì che, pochi gradini dietro di lei, osservo la sua sagoma: esprime una sensualità naturale, misurata, magnetica. Mentre sale a piedi nudi per la stretta rampa in pietra che porta al terrazzo, seguo con gli occhi quel corpo, minuto e scolpito, emblema di femminilità raffinata. La vita stretta crea la tipica figura a clessidra, enfatizzata dai pantaloncini corti, denim grezzo a vita alta. Nel suo linguaggio, penso, li chiamerà “hot-pants”. La sua pelle, liscia, luminosa e lievemente ambrata, sembra riflettere ogni luce mettendo in risalto le spalle toniche e la schiena sensuale. Le gambe, snelle e ben disegnate, paiono allungarsi all’infinito ad ogni gradino, quando l’elevazione è accompagnata pure dal salirli in punta dei piedi. Mi colpisce quanto stretto sia il suo tallone, quanto sottile la caviglia, illuminata da un esile braccialetto con brillanti.
Giunta quasi in cima, il suo volto s’illumina di un entusiasmo sincero, spontaneo. C'è qualcosa, in quel momento, che mi disarma: la leggerezza del suo stupore, mescolata a una consapevolezza silenziosa.
Ancora pochi gradini, poi si ferma, si guarda intorno e torna a voltarsi verso di me.
Il suo sguardo mi raggiunge prima ancora del suo sorriso. È complice. Sicuro.
E quando le labbra si piegano in quel sorriso malizioso, sento che la tensione si fa palpabile.
Non è solo bellezza: è un gioco sottile, un richiamo silenzioso, sapiente.
Non mi sfugge: sta giocando con qualcosa che entrambi avvertiamo.
La sua seduzione è intenzionale, ma non forzata.
Ne sono consapevole. Lo è anche lei.
L’ho portata dove può realizzare la sua “idea migliore”. Lo so io, lo sa lei, anche se nessuna delle due lo dice.
E per un istante, mi chiedo se non sia proprio questo — il nostro non detto — a fare di lei il centro esatto del mio desiderio.
(Segue)
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