Ceduta e marchiata

di
genere
dominazione


 
 
 
 
 
 
 
 
Il venerdì sera aveva un che di liberatorio. Gli uffici si stavano svuotando, e il sole ancora alto prometteva un fine settimana caldo, luminoso, fatto per stare nudi. Stavo per uscire, quando il telefono squillò.
«Dottoressa Linda?»
Riconobbi subito la voce. Roberto.
Una scossa mi percorse il ventre, come un’eco antica. Quell’uomo, che non sentivo da anni, tornava improvvisamente nella mia vita. Era stato il protagonista della mia deflorazione, tanti anni prima, eccitante e umiliante e che non avevo più voluto rivedere. Mi confidò che mi aveva sempre pensato a quel primo incontro che lui aveva sprecato. Rivedendomi da lontano, era rimasto molto colpito da me — Che bella donna sei!— e avrebbe tanto voluto rivedermi.
Parlammo pochi minuti. Disse che si trovava nei paraggi, ospite di un amico, e che avrebbe voluto rivedermi. La cosa mi colpì alquanto ma mi trattenni dal mostrargli il mio entusiasmo, pur sentendomi già eccitata all’idea. Finsi di dover controllare l’agenda, poi lo richiamai il giorno dopo. Appuntamento fissato per il martedì pomeriggio.
La casa del suo amico si trovava sulla prima collina, una vecchia colonica immersa nel verde, raggiungibile attraverso un viale ombreggiato. Il cancello si chiuse alle mie spalle. Il sole picchiava, ma io avevo già caldo dentro.
Roberto mi accolse sorridendo, affiancato da un uomo che non conoscevo. Mi disse che si chiamava Tano. Più giovane, più basso, ma massiccio. Camicia sbottonata, petto villoso, sguardo torvo e labbra carnose. Mi guardava come si guarda un animale da sbranare. Non mi piacque, eppure mi accese qualcosa dentro. Roberto mi baciò la guancia, presentandomi come “una donna molto speciale”.
Nel portico, tra chiacchiere e vino bianco, capii che qualcosa non tornava. Tano non se ne andava. Parlava troppo. Si faceva insistente. Le domande si fecero intime, grevi, al limite dell’offesa. Roberto taceva, in un angolo. Sembrava in soggezione. Cominciai a pentirmi, ma ormai il vino aveva sciolto ogni barriera. Ridevo per nulla, surriscaldata, confusa.
Poi la trappola si chiuse.
Tano parlò chiaro. Disse che Roberto — per riconoscenza non so di quali sordidi favori, — mi aveva "portata" lì per lui. Perché lui era stanco delle solite puttane. Aveva voglia di una signora vera, una donna di classe, che sapesse comportarsi come una troia. Disse che aveva visto foto mie. Che voleva gustarmi.
Io provai ad alzarmi, indignata e sentendomi tradita. Tano mi trattenne, minaccioso. Le mani sulle spalle. Roberto non intervenne.
«Linda… tu lo sai perché sei venuta qui. Non sei una ragazzina. Volevi una scossa, volevi godere. Non sarà Roberto , bensì io. Per te cambia poco e non fare la pudica. »
Mi sentii nuda, pur vestita. Ero stata venduta. O forse mi ero venduta da sola.
 
La scena
Roberto, osservatore silenzioso fino ad allora, disse solo: «Io vado, vi lascio soli».
Tano mi spinse dentro, verso il soggiorno, mi afferrò il mento e mi baciò con forza, mordendomi le labbra. Le mani frugavano ovunque. Mi fece sedere sul tavolo e mi strappò le mutandine. Le annusò con voluttà, poi se le mise in tasca.
Mi fece alzare le braccia, sollevandomi la maglietta. Le ascelle erano madide, grondanti del mio sudore teso e animale per la tensione, l’imbarazzo. Tano le annusò senza ritegno, affondando il naso nelle cavità umide, aspirando l’odore acre con goduria. «Questa è una femmina che sa di femmina», disse. E io tremavo.
Mi spinse contro la parete e mi scopò in piedi, affondando in me con foga. Lì, in piedi, con le gambe avvinghiate ai suoi fianchi, sentivo le sue dita piantarsi nella mia carne, mentre il cazzo mi spaccava la figa gocciolante. Mi mordeva il collo, l’orecchio, mentre il sudore colava giù dalle ascelle, e lui non faceva altro che leccarmele, sempre più eccitato da quell’afrore violento.
Mi stese sul tappeto e mi ordinò di togliermi le ballerine. Non avevo calze. I miei piedi erano nudi, leggermente sudati, con la pianta appena umida e le dita leggermente arrossate.
Mi sollevò le gambe e mi scopò di nuovo, mentre mi annusava, prendeva in bocca i miei piedi voluttuosamente.
 
Mi fece inginocchiare, mi spinse la testa verso il suo cazzo, e io lo presi in bocca senza oppormi. Mentre lo leccavo, lui mi infilava un dito nel culo, poi due, poi mi disse di girarmi.
Mi legò. Con fascette di cuoio mi immobilizzò i polsi dietro la schiena, tenendomi le natiche ben divaricata. Mi guardava. Rideva. «Una troia che si fa legare così, è una troia vera.»
Mi sodomizzò. Forte. Senza pietà. Spingendosi tutto dentro, mentre urlavo e gemevo, con la faccia schiacciata sul tappeto e le guance bagnate.
«Ma lo sa tuo marito che razza di troia sei?»
Sentivo il suo peso su di me. Poi un’onda calde invase le mie viscere.
 
 
 
La stanza era illuminata solo da una lampada diretta.
Ero nuda, distesa su una coperta, le braccia immobilizzate da lacci, le gambe aperte, piegate leggermente, i piedi scalzi posati su due cuscini con le dita che si piegavano e si tendevano per il nervosismo. Tano si inginocchiò tra le sue cosce.
Con mani esperte mi spalancò le labbra inferiori, delicatamente con due dita guantate, aprendole come un libro, esponendo la carne più intima.
Poi mi indicò il punto preciso con la punta fredda del metallo: tra il monte di Venere e la piega del pube, poco sopra l'ingresso vaginale, dove la pelle è liscia, sottile e sensibile.
 — Un punto che si vedrà solo se qualcuno si inginocchierà a pochi centimetri dalla sua figa. Ora ferma. Non muoverti. Voglio che ogni linea sia perfetta.”
Il ronzio dell’ago inizia.
Il primo contatto fu uno shock: una puntura elettrica mi attraversava il bacino, facendomi irrigidire la schiena e serrar le dita dei piedi.
La pelle sottile bruciava, si tendeva.
Il dolore era acuto, costante.
Sentii le lacrime pungermi gli occhi, strillai. La posizione mi costringeva a esporre tutto: ogni contrazione del ventre, ogni fremito dell’interno coscia, ogni scossa che mi saliva dalla figa al cervello.
Provavo un dolore acuto, bruciante. Urlai, mi agitai e dovette sospendere l’operazione.
«Basta! Mi fai male…ti supplico...»
Lui mi afferrò un capezzolo stringendolo crudelmente.
«Sta’ zitta, non osare muoverti.»
Incise con lentezza, senza pietà, mentre il mio corpo si tendeva in uno spasmo misto di sofferenza e piacere perverso. La pelle ardeva, ma tra i singhiozzi sentivo le cosce inumidirsi di nuovo. Era tutto troppo. Troppo vero. Troppo profondo.
Quando finì, passò un panno bagnato sulla carne rossa. Io tremavo. Mi chinò la testa e mi fece guardare.
My
Due lettere, nere, lucide, eterne.
«Così non te lo scordi più», disse.
Tano mi sussurrò all’orecchio:
“Ogni volta che un uomo ti leccherà qui… penserai a me. E a queste due lettere che nessuno potrà mai cancellare.”
Chiusi gli occhi. Il corpo ancora caldo, ferito, marchiato.
E dentro, un nodo che è piacere, colpa, e sottomissione.
 
di
scritto il
2025-07-27
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